L’anno 1848 finirà presto. Le foglie degli aceri sono morte, e il vento che le spazza via odora già di neve. Ho settantotto anni, che sono una bella età anche in questo secolo di progresso, e credo che anch’io finirò presto. Può darsi che l’elettricità, il vapore e la strada ferrata permettano un giorno agli uomini di vivere più a lungo, ma mi sembra più probabile il contrario, nonostante le chiacchiere dei giornalisti; ad ogni modo, io non lo saprò mai. La gotta ha preso possesso del mio piede sinistro, e sta scavandosi la via verso l’alto, sicché un giorno o l’altro arriverà a bussare al cuore; non lo rimpiango, perché penso a tutto il roast-beef che ho mangiato, a tutto il Bordeaux che ho bevuto, e credo che ne sia valsa la pena, ma non posso nascondermi che sarò fortunato se arriverò a vedere un altro autunno. Certo non vedrò un altro presidente, perché il generale Taylor è così popolare che dovrebbe dichiarare un’altra volta la guerra al Messico, e perderla, per non essere rieletto fra quattro anni, e io non sarò più qui per votare nel 1856. A dire il vero, quell’onest’uomo, Mr. Taylor voglio dire, è anche troppo popolare, e debbo sempre ripetermi che apparteniamo allo stesso partito per non provare una punta di inquietudine ogni volta che lo sento parlare. Gli americani sono tristemente cambiati rispetto ai miei tempi; ora non sanno far altro che acclamare generali, ed eleggerli alla presidenza. Sarà pur vero, come mi hanno spiegato, che un presidente meridionale, padrone di schiavi, è l’uomo giusto per rassicurare i piantatori e mettere a tacere gli abolizionisti, sicché la sua presidenza scongiurerà ogni pericolo di rottura dell’Unione; sarà vero che Mr. Taylor non è un volgare ammazzasette, ma un uomo di alti e austeri princìpi, che ha già annunciato di non voler procedere al suo insediamento di domenica, perché in casa sua è uso rispettare il Sabbath; eppure non riesco a rallegrarmi per questa vittoria. Ancora ieri ho sorpreso qualcuno, al club, dichiarando che questo 1848 è stato, sì, un “annus mirabilis”, ma non per l’elezione di Mr. Taylor, bensì per la rivoluzione in Europa; hanno accolto questa uscita in silenzio, troppo rispettosi per contraddirmi, ma dentro di sé si chiedevano cosa mai trovassi di interessante in questi spasimi d’agonia del vecchio mondo…
Non potevo risponder loro che il mio interesse per le notizie contraddittorie, e a volte appena credibili, giunte quest’anno dall’Europa nasce da un’emozione affatto personale. Eppure è proprio così; non si comprenderebbe, altrimenti, perché i fatti di Berlino mi abbiano colpito tanto più vivamente di quelli di Vienna o di Parigi. Quando leggo che la folla ha dato l’assalto all’Arsenale, che le truppe hanno sparato sul Gensdarmenmarkt per fermare gli operai in marcia verso il Castello, che il re è stato costretto ad abbandonare la capitale in mano ai rivoluzionari, non posso fare a meno di ricordare Berlino com’era oltre quarant’anni fa: quando vidi coi miei occhi l’attuale re giocare, bambino, fra le braccia di sua madre, e le truppe prussiane marciare al suono di pifferi e tamburi, verso una disfatta ancor più umiliante di quella inflitta loro quest’anno dalla plebaglia berlinese. Né posso evitare di domandarmi se Victoire abita sempre sul viale dei Tigli, dove i muri sotto le sue finestre saranno ormai crivellati di fucilate; se Lenchen, nel caso che sia ancora viva, e non sia crepata di sifilide su un materasso d’ospedale o di fatica in una casa di correzione, ha portato da mangiare agli operai sulle barricate; se il tenente von Suckow, ormai colonnello o generale, comandava i reggimenti che si sono battuti per difendere il Castello, o se non è morto di colera nel ’30, o ancor prima, di una palla a Waterloo…
Non è necessario che io spieghi, qui e ora, chi sono costoro, e come è accaduto che io li abbia conosciuti. È tutto scritto in un libriccino rilegato in pelle, che è rimasto a ingiallire da allora, nel cassetto di una scrivania zoppicante, esiliata da molti anni in soffitta. Là, chi sia interessato a queste cose troverà il diario del mio ultimo viaggio in Europa, redatto giorno dopo giorno, sui tavoli delle locande, alla luce della candela, prima di andare a dormire, o in strada, su uno scrittoio portatile, traballante per la corsa della carrozza. La mia calligrafia è minutissima, quasi illeggibile, ed io stesso forse, collo scemare della vista e il dileguarsi della memoria, sarei incapace di decifrare le note che scarabocchiavo quarant’anni fa; ma ogni passione, compresa quella erudita, merita che si compiano dei sacrifici per soddisfarla, e non dubito che un giorno qualcuno si assumerà questa briga. Non mi piace pensare che quando non ci sarò più, tutto ciò che ho lasciato scritto di mia mano debba diventare impossibile da leggere per chiunque, come un manoscritto in una lingua morta di cui nessuno possiede più la chiave; se così fosse, il dono d’una mano indecifrabile, che mi è tornato spesso utile in passato, si trasformerebbe in una beffa. Ho fiducia che un giorno qualcuno aprirà il cassetto, e comincerà a leggere, non foss’altro per la curiosità di ritrovare quelle annotazioni personali che sempre trovano il modo di infilarsi in scartafacci di questa natura; e che, posso assicurarlo, nel mio diario non mancano.
Spero sia chiaro, dopo questa premessa, perché ho rinunciato a bruciare quel libriccino, insieme a tante altre carte con cui sto alimentando il fuoco in questo freddo autunno. Non mi muove l’ambizione di aggiungere ancora una testimonianza al mare di scritti già pubblicati da chi non ha avuto altro merito se non di vivere in quegli anni; né il gusto sterile di rievocare, come dice il poeta,
tristi vicende di un passato lontano
e battaglie di tanto tempo fa,
ma una passione puramente privata, che non vedo perché non dovrei soddisfare, come sempre ho fatto in tutta la mia vita, trovandomene bene. E tuttavia, per una semplice questione di probabilità, debbo immaginare che chi leggerà le mie pagine sia privo di una conoscenza diretta del tempo in cui esse sono nate; di quel tempo inimmaginabile in cui Washington era un villaggio paludoso senza neppure una chiesa, e in cui a Berlino, ma anche a New York, era possibile vivere senza accorgersi degli operai. A beneficio di questo probabile lettore sarà opportuno spendere qualche parola per ricordare come andava il mondo a quel tempo, nella primavera del 1806, quando mi imbarcai per l’Europa sul brigantino “Liberty”; e in primo luogo quale fosse allora la situazione politica nel nostro paese, sfondo indispensabile per comprendere le ragioni di un viaggio che a me stesso, ripensandoci, appare ora stravagante.
Correva il sesto anno della presidenza di Mr. Jefferson, e pochi oggi ricordano che l’elezione di quell’uomo, celebrato come un padre della patria nei libri di testo degli scolaretti, era stata accolta con soddisfazione da tutti i mestatori democratici, i giornalisti venduti e i politicanti senza onore che infestavano fin d’allora il paese. Per dimostrare quanto sia labile la memoria umana, soprattutto in cose politiche, basta osservare che oggi l’annessione della Louisiana e dei territori dell’Ovest passa per un prodigio di lungimiranza, e nessuno mi crederebbe se dicessi che a suo tempo l’acquisto di quel deserto grande quanto un impero e impossibile da governare aveva suscitato la costernazione delle persone dabbene. Uno dopo l’altro i deputati federalisti al Congresso si erano succeduti sul podio per ricordare che la Costituzione non concede affatto al presidente il potere di compiere un atto così straordinario; la Francia, del resto, non aveva alcun diritto di venderci quel territorio, che il re di Spagna le aveva ceduto soltanto a patto di non rivenderlo a terzi, e in cui neppure un soldato francese aveva mai messo piede. Insomma Bonaparte ci aveva venduto soltanto un pezzo di carta, e noi ci eravamo fatti complici del più spudorato grassatore e brigante di strada che la storia ricordi; ma Mr. Jefferson precisò che si trattava di sottigliezze metafisiche, e in verità, come si è ben visto in seguito, coscienze elastiche producono una Costituzione elastica…
La preoccupazione per i danni che un giacobino come Mr. Jefferson poteva arrecare al paese era superata solo dallo sgomento di vedere un personaggio di quella sorta elevato a rappresentante della nazione, sotto gli occhi divertiti degli ambasciatori europei. Quando un ministro di Sua Maestà Britannica si lamentò con me che il presidente aveva l’aspetto e le maniere di un contadino, e che lo aveva ricevuto in pantofole, dovetti faticare non poco per convincerlo che quella messinscena non era un calcolato insulto contro il suo paese, ma che Jefferson riceveva nello stesso abbigliamento tutti noi. E non solo noi, avrei potuto aggiungere: quando sbarcò l’ambasciatore del bey di Tunisi, vestito di seta e broccato e rutilante di gioielli, il presidente lo accolse in calzettoni di lana e ciabatte scucite. Del resto i suoi seguaci non erano meglio di lui, ed egli li rappresentava perfettamente; né si sarebbe sentito imbarazzato se davvero, come suggerirono i maligni al momento dell’acquisto della Louisiana, i selvaggi dell’Ovest fossero venuti a votare in Campidoglio a sostegno della sua presidenza. Un giorno un signore appena arrivato dall’Inghilterra osservò, fumando il sigaro e bevendo il mio Porto dopo una cena piuttosto abbondante, che nel Congresso dopo la vittoria dei democratici non sedevano più di cinque o sei persone che avessero l’aspetto di gentiluomini: tutti gli altri partecipavano alle sedute abbigliati come agricoltori appena tornati dai campi. E non c’è dubbio che egli avesse ragione, come altri che prima di lui si erano offesi a morte per essere stati invitati a pranzo dal presidente e aver scoperto, all’arrivo, che tutti erano già a tavola e nessuno si era preoccupato di tener loro il posto…
Ma evitiamo di divagare. Giustizia vuole che si ricordi come dopo qualche anno le peggiori previsioni su Mr. Jefferson non si fossero ancora avverate. La sua politica verso i mangiarane si era fatta meno conciliante dopo il colpo di stato di Bonaparte, e ancor più dopo la promozione di quel gentiluomo a imperatore, poiché la profusione di galloni d’oro comparsa all’improvviso sugli abiti degli inviati francesi gli era grandemente dispiaciuta. Quando poi giunse dall’Europa la notizia della battaglia di Austerlitz, l’opinione universale secondo cui l’Inghilterra era giunta alla fine, e sarebbe stata ben presto asservita alla Francia, indusse il presidente a ripensare il suo inveterato pregiudizio nei confronti del vecchio paese. L’uomo che un giorno aveva dichiarato di ritenere che i maggiorenti del nostro partito non avessero altro ideale se non quello di leccare stivali inglesi si trovò costretto a riconoscere che un’altra, e ben più grave minaccia pesava sulla nostra libertà; e che gli Stati Uniti dovevano ormai sposare il loro destino alla nazione e alla flotta inglese, per evitare l’abbraccio mortale di un’amante rivelatasi improvvisamente infedele. E in verità non si poteva non essere allarmati osservando come i successi della Francia eccitassero il popolo: a New York, gli ufficiali e i marinai dei bastimenti inglesi erano fischiati dalla canaglia se appena osavano scendere a terra, e c’era da credere che il paese si sarebbe assoggettato spontaneamente a Bonaparte se solo egli avesse mandato qui un esercito.
Non vorrei, ora, che il lettore giudicasse questi eventi con la misura della nostra epoca; giacché in tal caso gli riuscirebbero incomprensibili. Oggi che la nostra bandiera sventola, da un oceano all’altro, su metà del continente nordamericano, che i nostri eserciti sono entrati a México e le nostre fregate sono all’àncora nei porti della Cina, gli Stati Uniti possono ben guardare con tranquillità alle rivoluzioni d’Europa. Ma al tempo di cui parlo la nostra condizione era ben diversa; e ogni discorso pronunciato ai Comuni, ogni armamento di squadre navali o levata di reggimenti decisi da un governo europeo, ogni menzogna stampata sui giornali di Parigi ci facevano tremare, e dubitare per la nostra sorte. Gli Stati Uniti erano troppo deboli per difendersi da un avversario deliberato a impiegare la forza, e se mai qualche potenza avesse deciso di offenderci, non sarebbe stato in nostro potere reagire all’insulto altro che a parole: non avevamo esercito né marina, e peggio di tutto il tesoro era vuoto. La nostra sola salvezza consisteva nel trovare amici benevoli e potenti, in grado di difendere la nostra libertà; e perfino quel Bonaparte in sedicesimo, l’amato presidente, King Thomas I, come lo chiamavano i giornali inglesi, riconobbe che quegli amici si potevano trovare soltanto in Inghilterra. Pochi, dapprima, credettero alla sua sincerità; dopo tutto, anche persone perfettamente rispettabili erano convinte, allora, che Mr. Jefferson si fosse venduto alla Francia per denaro. Ma re Tommaso ci stupì, ammettendo che l’apertura di un negoziato con l’Inghilterra rappresentava la migliore garanzia per la nostra prosperità, e alle parole fece seguire i fatti: nella primavera del 1806, quando fu ben certo che Pitt era morto e che nel governo di Sua Maestà, ora affidato a Lord Grenville, era entrato un uomo ragionevole come Mr. Charles Fox, mio cugino William Pinkney fu mandato a Londra, per trattare un accordo che tutelasse la libertà di navigazione a beneficio dei nostri commercianti, garantendo al tempo stesso che la flotta inglese ci avrebbe difesi, all’occorrenza, contro qualsiasi nemico.
Nell’accettare l’incarico, Pinkney osservò che i negoziatori inglesi avrebbero goduto nei suoi confronti di un vantaggio incalcolabile, se egli non avesse potuto disporre di informatori sul continente. Le vittorie di Bonaparte avevano sconvolto il sistema della politica europea, e un negoziato di tanta importanza non poteva esporsi al rischio di fallire per difetto d’informazioni tempestive sugli orientamenti, allora più che mai cangianti, delle diverse potenze; né si poteva fare affidamento sui nostri agenti consolari, bravi commercianti, capaci di prevedere in anticipo il corso del cotone e dello zucchero, ma ignari di politica, e raramente, o mai, ricevuti a corte. Il suggerimento di accreditare missioni a Pietroburgo e Berlino suscitò non pochi malumori in Congresso, poiché il pubblico americano era allora, ancor più di oggi, calorosamente contrario a qualunque spesa sostenuta per mantenere costose rappresentanze in Europa. Infine, dopo una faticosa trattativa, in cui il ministro delle finanze ebbe, mi dispiace dirlo, un ruolo inglorioso, si risolse di mandare in ciascuna di quelle capitali un inviato straordinario, con trattamento dimezzato rispetto a quello di un residente, e con l’incarico di trattenersi laggiù solo fino a quando non fosse stato concluso il trattato con la corte di San Giacomo. Quale che fosse il pretesto con cui sarebbero stati accreditati presso quei monarchi, gli inviati dovevano sorvegliare gli intrighi dei francesi, i cui agenti operavano allora alla luce del sole in tutte le capitali d’Europa; ma soprattutto tenere al corrente i nostri negoziatori a Londra degli umori prevalenti nei rispettivi gabinetti.
Fino a quel giorno io avevo partecipato ben poco alla vita politica del paese. Al mio ritorno dall’Inghilterra, dove avevo trascorso anni che ancor oggi considero come i più piacevoli della mia vita, mio padre avrebbe voluto che mi presentassi alle elezioni per il senato dello Stato; ma conoscendo le abitudini dei nostri nobiluomini del Maryland, che dipingono stemmi sulle porte delle loro carrozze e comprano negri per le loro piantagioni di tabacco, eppure si crederebbero disonorati se non votassero per i democratici, non avevo nessuna intenzione di espormi a un’ignominiosa sconfitta, tanto che preferii lasciare Baltimora e andarmene a lavorare nello studio legale di mio zio Van Cortlandt a New York. Non credo che se fosse dipeso soltanto da me avrei pensato a chiedere una di quelle legazioni, che dopo tutto promettevano ben poca gloria; fu Bill Pinkney a proporre il mio nome, benché le nostre opinioni politiche fossero ben lontane dal coincidere. Si rassicuri il lettore, che leggendo queste righe avrà levato gli occhi, incredulo, e si sarà ripulito gli occhiali col fazzoletto: anche allora, proprio come oggi, regnava fra noi quel grazioso sistema, non troppo coerente con i princìpi di un governo repubblicano, per cui al merito di qualsiasi natura non si accorda la minima considerazione, e l’unica qualifica indispensabile per ricoprire gli uffici pubblici è la fedeltà di partito. Ma proprio questo principio, così connaturato alla nostra politica, fece sì che Bill Pinkney si trovasse in grave imbarazzo, al momento di scegliere dei collaboratori per quello che, bene o male, doveva pur essere un tentativo di riavvicinarsi all’Inghilterra. Il nuovo governo aveva cacciato senza eccezione chiunque potesse essere rimosso dall’ufficio, e fosse sospettato di federalismo; e al loro posto s’erano insediati altrettanti democratici, che poi non erano, di regola, se non giacobini riverniciati. Costoro si vergognavano di usare quel nome, ma non avevano affatto cambiato le loro idee: incondizionata sottomissione alla Francia, e pregiudiziale diffidenza verso la Gran Bretagna, erano i pilastri su cui si fondavano tutti i loro provvedimenti. Quando Pinkney volle trovare un uomo che non arrotasse i denti al solo nome dell’Inghilterra, dovette per forza rivolgersi a qualcuno che non ricoprisse uffici di governo; e allora si ricordò di me, ch’ero pur sempre suo cugino. Trovandosi a Baltimora, pranzò a casa nostra, e rivolse la sua offerta a mio padre, che si arrogò la facoltà di decidere in vece mia. A dire il vero c’era stata proprio allora una certa questione, su cui è meglio sorvolare, per cui egli riteneva quanto mai opportuno che io mi allontanassi per qualche tempo dall’America… Del resto, lasciamo perdere. Con poche righe, secondo il suo solito, mio padre comunicò che Pinkney mi offriva di partire per Berlino, aggiungendo che a suo modo di vedere avrei fatto meglio a pensarci due volte prima di rifiutare; e così mi ritrovai a preparare i bagagli. Ignoro quali argomenti fossero stati impiegati per convincere il ministero ad avvalersi della mia persona; al Congresso bastò l’informazione che parlavo tedesco, impresa di cui, come è stato giustamente osservato da un autore di genio, pochissimi erano capaci fino all’èra di Waterloo, se si eccettuano i commessi delle case commerciali che esportavano in Germania, gli impiegati dei banchieri e i nonconformisti della Pennsylvania.
Prima di partire mi presentai a Washington, dove il Segretario di Stato, Mr. Madison, mi impartì dettagliate istruzioni sul compito che mi attendeva in Prussia. Noi avevamo firmato pochi anni prima un trattato commerciale assai vantaggioso con quel regno, negoziato a Berlino dall’odioso John Quincy Adams, che sarebbe poi divenuto presidente e che è finalmente morto, vecchio decrepito, proprio quest’anno; ma dopo di allora non avevamo mantenuto alcun rapporto diplomatico col re Federico Guglielmo. Negli ultimi mesi le oscillazioni della politica prussiana avevano precipitato il Dipartimento di Stato nel più profondo sconcerto, condizione che del resto gli è abituale quando entra a contatto con le sottigliezze della politica europea. Nonostante Austerlitz e la morte di Mr. Pitt, si credeva che l’oro inglese avrebbe persuaso il re di Prussia a continuare, foss’anche da solo, la guerra contro Bonaparte; qualche settimana più tardi giunse invece la notizia che quel monarca prudente si era accordato con il vincitore, cedendo i suoi possessi di Ansbach, Clèves e Neuchâtel in cambio dell’Hannover, possesso ereditario di Sua Maestà Britannica da poco usurpato dai francesi, e aveva dichiarato chiusi al commercio inglese i porti del Mare del Nord. Quest’ultima novità indusse Pinkney, che proprio allora stava preparando i bagagli, a suggerirmi di giustificare la mia partenza per Berlino col pretesto di rinegoziare i termini del trattato commerciale: occorreva infatti tener conto della catastrofica flessione che la crisi con l’Inghilterra avrebbe infallibilmente inferto al commercio prussiano, e dell’impossibilità di far scalo nei porti di quel regno se il governo di Sua Maestà Britannica, offeso dai procedimenti poco caritatevoli del re di Prussia, avesse deciso di ripagarlo con la sua stessa moneta.
A dire il vero il ministro inglese, Mr. Merry, mi assicurò privatamente che non sarebbe accaduto nulla del genere, giacché il governo di Lord Grenville aveva fin troppo bisogno di pace. In quell’occasione, tuttavia, si vide che Mr. Merry non godeva la piena confidenza del suo governo, e che le sue informazioni, come già avevamo avuto motivo di sospettare in passato, non erano sempre attendibili. Subito prima della mia partenza, infatti, si riseppe che l’Inghilterra, indignata per essere stata derubata dell’Hannover, aveva dichiarato guerra alla Prussia e confiscato tutto il naviglio battente bandiera prussiana che si trovava nei suoi porti, oltre a dichiarare il blocco dei porti dell’Elba; mentre il re di Svezia, proclamatosi da sé solo difensore dei diritti hannoveriani, aveva mandato le sue fregate a bloccare i porti prussiani del Baltico. Perciò fui costretto a partire su un legno diretto ad Amsterdam, che era allora, almeno sulla carta, un porto neutrale, e da lì raggiungere Berlino per via di terra; sempre che Bonaparte, le cui armate restavano minacciosamente accampate nella Germania meridionale, non avesse nel frattempo scatenato un’altra guerra. Mi imbarcai a New York il 1º giugno 1806, accompagnato da un domestico negro e da parecchie casse di bagagli, di cui non avrei riportato a casa neppure un fazzoletto, come scoprirà chi avrà la pazienza di leggere fino in fondo queste note. Se non ignora la storia, il lettore saprà, prima ancora di intraprendere la sua fatica, che non si trattò di una missione memorabile; né sarebbe potuto accadere diversamente, considerando ciò che maturò in Europa in quell’afosa estate, e si compì nell’autunno. Non ci si aspetti, quindi, di trovare in queste pagine materiali utili per il lavoro dello storico. A ben considerare, temo che vi si troverà soltanto, come diceva John Ford,
un deplorevole racconto di cose
fatte molti anni fa, e fatte male.
Washington, D.C., novembre 1848
Robert L. Pyle, Esq.