Ankit
Ankit andò a trovarli come se fosse un giorno di lavoro come gli altri. Rifugiati cambogiani, a centinaia, che vivevano in baracche da una sola stanza su chiatte galleggianti rimorchiate dal Tonlé Sap quando l’innalzamento dei mari aveva travolto quel lago d’acqua dolce costringendo a scappare le persone che ci vivevano grazie alla pesca. Una sacca di popolazione densissima; un bacino elettorale di prima qualità. Quando Ankit arrivò, i bambini aspettavano sugli usci, le facce piene di speranza e paura proprio come nelle famose fotografie della vita sul lago prima e durante l’esodo.
Le piacevano, le case galleggianti. Dentro sembrava di essere in Cambogia. Cent’anni prima. Avevano il loro piccolo villaggio, tutte le case ancorate allo stesso rozzo pontile. La loro piccola scuola; la loro piccola stazione di rifornimento. Una ragazza vendeva gratta e vinci dalla finestra. Alcuni tenevano ancora coccodrilli o cinghiali in piccole gabbie riscaldate da tubi geotermici illegali. In linea di massima erano disinteressati ai forestieri, alienati dalla politica, ma una piccola parte di loro votava.
Aveva le tasche piene di caramelle. Sugli incarti spiccavano il nome e la faccia di Fyodorovna. Si sentiva sempre uno schifo quando le dava ai bambini, ma d’altra parte li rendevano felici. Una ragazzina le diede un pezzo di legno dipinto a colori vivaci. Vedendo l’espressione confusa di Ankit, la madre indicò una pila di bufali indiani intagliati. Marrone acceso; legno di anacardio. Ankit sorrise; c’era qualcosa di confortante nella costanza della fame umana, della malvagità umana, nel fatto che il commercio del legno sarebbe continuato sebbene il numero totale di alberi al mondo tendesse allo zero. Il pezzo di legno odorava di linfa. – Un errore, – disse la madre, e lo schermo di Ankit tradusse: – Si è rotto. – Ankit si mise l’errore in tasca, si inchinò e si congedò.
Mandò una foto a Fyodorovna, le disse che la visita era stata un successo. Lasciando il Settimo Braccio, diretta verso il Quinto, si sentì come una bambina che marinava la scuola.
E, proprio come quando marinava la scuola, aveva una paura folle e non aveva idea di cosa stesse facendo. A quei tempi cercava sale giochi sottomarine o club per scalatori minorenni, adesso si trovava di fronte a una nave che fungeva da quartier generale per un’organizzazione criminale, dove cose terribili accadevano di certo ogni giorno.
A differenza dei piani accurati per la campagna elettorale che aveva progettato per il suo capo, il suo piano attuale era fragile, messo insieme a partire da un paio di frettolose osservazioni.
Prima di tutto, il fatto che tutti e quattro i cantieri illegali colpiti da attacchi violenti appartenevano alla stessa organizzazione – il gruppo Amonrattanakosin. Un tempo era un’attività legittima dell’illegittimo governo militare thailandese, composta da amici di un generale a cui erano stati affidati contratti gonfiati per vendere le provviste durante il boom edilizio delle città reticolo. Attualmente era guidato da una qaanaaqiana di seconda generazione di origine thailandese-malesiana conosciuta semplicemente come Go. L’organizzazione aveva sede su una nave al Quinto Braccio. Dove Ankit ora si trovava, senza qualcosa che somigliasse a un piano.
In secondo luogo, era certa di sapere chi fosse la nemesi sconosciuta di Go, in questa guerra che era scoppiata all’improvviso, perché era iniziata immediatamente dopo l’esecuzione pubblica del nipote di Martin Podlove, in quel video visto centinaia di migliaia di volte, dove Podlove in persona piangeva e tempestava di pugni le pareti di una prigione di polyglass.
Martin Podlove, che aveva rinchiuso sua madre. Sua madre, che aveva un nome: Oora.
La guerra era già iniziata da tempo – percolava, come l’acqua da un pentolone che sobbolliva coperto. Era stata Go a inzuppare un impiegato di Podlove, Go ad averlo messo in fuga. Non avrebbe saputo dire se fosse dietro anche all’omicidio di suo nipote. Ma Podlove, probabilmente, la pensava così.
Ma ciao, lady della mala, mi sa che abbiamo un nemico in comune.
L’uomo che sta cercando di distruggere te ha distrutto mia madre, e dovremmo lavorare insieme per distruggere lui e per salvare lei.
E io so chi è stato – l’uomo che ha ucciso il nipote di Podlove con una fiammata di metano. Il suo nome è Ishmael Barron e si è dato alla macchia, ma credo che potrei mettermi in contatto con lui e potrebbe essere un’utile merce di scambio.
Non c’era un modo decente per dire le cose che aveva bisogno di dire.
La nave era grossa, vecchia, dall’aspetto fatiscente. Indistinguibile da un centinaio di altre navi attraccate i cui giorni di idoneità alla navigazione erano passati da un pezzo. Ci era passata accanto così spesso, e mai una volta si era chiesta cosa succedesse a bordo. Era strettamente sorvegliata, adesso, molto più di quanto lo fosse una settimana prima. Ulteriore prova del fatto che Amonrattanakosin fosse in guerra.
– Voglio parlare con Go, – disse a uno dei soldati ai piedi della passerella di accesso. La donna la guardò perplessa e poi toccò l’impianto.
Che approccio stupido. Avrebbe dovuto fare più ricerche, inventarsi un motivo per essere lì. I boss criminali non stavano mica a sventagliarsi in attesa di incontrare ogni venditore o rifiuto della società desideroso di salvare la propria madre dalla prigionia.
Voci, sopra di lei, dalla nave. Soldati che parlottavano.
Un uomo scese dalla passerella. Magro, elegante, con una tuta grigia. L’uniforme degli operai (soprattutto cinesi) che avevano costruito Qaanaaq, indossata ora con orgoglio dai loro discendenti. Mettere in opera la piattaforma galleggiante era stata un’impresa imponente e pericolosa; in centinaia erano morti o erano stati spediti a casa feriti. Una tuta grigia diceva, Per quanto possa essere povero o umile, questa città mi appartiene.
– Mi chiamo Dao, – disse. – Vieni con me?
– Non possiamo parlare qui?
– Vieni con me, – ribadì Dao, e iniziò ad allontanarsi dalla nave.
– Mi avrete sicuramente scansionata. Avrete visto che non ho armi.
– Certo che l’abbiamo fatto. E abbiamo visto che non hai con te nessuna delle armi rilevabili. Il che non significa che tu non abbia qualcosa che non sappiamo individuare.
Lei si affrettò per raggiungerlo. – O forse pensi che sia un’imboscata. Cecchini, un tirapiedi aggrappato sotto al reticolo…
– In momenti come questo preferiamo non correre rischi, – disse Dao.
Camminarono in silenzio fino quasi alla fine del Braccio. Passarono accanto a chiatte su cui ragazzi arrotondavano polpette di pesce tra i palmi, navi su cui bambini ritagliavano noodles da un cubo congelato di pasta di riso. – Dimmi cosa sei venuta a dire a Go.
Avevano raggiunto un tratto senza case galleggianti. Il vento fischiava e il reticolo era spoglio. Al suo silenzio, Dao alzò gli occhi al cielo. – Fammi indovinare. Quello che le devi dire è così importante che non puoi dirlo a nessun altro. Qualcosa che i suoi sottoposti potrebbero non capire o potrebbero comunicarle nel modo sbagliato. Qualcosa che potremmo tenerle nascosto. Sai quanto sia prezioso il suo tempo, ma credi davvero che si prenderà un momento per ascoltarti. Giusto? Lo pensa chiunque venga a cercarla. E ogni singola cosa passa da me. Segreti di stato, formule vietate, fidati, conosco i suoi affari meglio di lei, il raggio d’azione del suo impero, i dettagli quotidiani di ogni operazione, e posso decidere molto meglio di lei cosa abbia bisogno di sentire e cosa si debba fare. E di certo molto meglio di te.
– E va bene, – disse Ankit, fermandosi, voltandosi e incamminandosi per la strada da cui erano venuti.
Lui non la seguì. Al principio. Quando lo fece, Ankit capì che era arrabbiato.
– Fermati, – le disse piano, e lei non obbedì. Lo disse di nuovo, con un tono più duro.
– Non prendo ordini da te. Non sono serva di nessuno. Se vuoi sentire quello che ho da dire…
– Non hai capito, – disse lui, afferrandola per la spalla e strattonandola. Forte. – Non me ne frega niente di quello che hai da dire. Quello che mi frega è che una sconosciuta si è presentata senza preavviso in tempo di guerra e mi vuole costringere ad aggirare le normali procedure per parlare con la mia boss.
– Lasciami andare! – urlò lei, sapendo che non sarebbe servito, che nessuno avrebbe potuto sentirla in quel tratto isolato.
– No.
Lei si divincolò, liberandosi della sua mano. Lui fece partire l’altra, mirando in direzione del suo setto nasale. Ankit parò il colpo con l’avambraccio, procurandosi un dolore così acuto che la fece urlare. Lui ci tentò di nuovo, con l’altro pugno questa volta, e lei schivò, si acquattò e cercò di indietreggiare. Lui fece perno sull’anca, un calcio rotante terribilmente potente, che l’avrebbe messa KO se l’avesse colpita in pieno, ma lei era più veloce di quanto lui si aspettasse e il suo piede la colpì sul polpaccio, facendogli perdere l’equilibrio, così finì per incespicare…
Tanto bastò perché lei si alzasse e scattasse verso la nave magazzino più vicina. La gamba le doleva per il calcio, quel tipo di dolore che prometteva di diventare terribile il giorno seguente, e le ricordò molti degli infortuni da scalatrice del passato. Ma il dolore era come una chiave, che sbloccò la memoria muscolare che aveva scordato per anni, liberandola della mente e proiettandola nel corpo, negli arti, nel suo centro di gravità, nella gloriosa fisica delle ascese e delle cadute.
Era dietro di lei. Non aveva il fiatone. Si teneva in forma perfetta, si allenava in continuazione, mentre lei se andava bene riusciva a fare un po’ di kayak stazionario due volte al mese.
Ankit riuscì a raggiungere il tubo nero. Afferrò la guarnizione centrale e si issò fino a quella successiva. La forza nelle braccia era niente rispetto a quella che aveva un tempo, e non riusciva a scavalcare e lanciarsi come avrebbe fatto – ma scalare non era questione di ginnastica né di forza, era questione di avere l’intelligenza fulminea necessaria a capire come arrivare dove si ha bisogno di arrivare con quello che si ha. Il calcolo del paesaggio e del corpo.
Scavalcare e lanciarsi erano fuori discussione. Invece si arrampicò verso l’alto.
Lui era alla stessa altezza, sul tubo rosso. Ovvio – il tubo rosso non poteva essere caldo. Il magazzino era chiuso. Nessuno stava accedendo alla linea geotermica principale. Era più veloce di lei, aveva già raggiunto il tetto. Ankit si lasciò andare, precipitando verso il basso più veloce di quanto avrebbe voluto, e si graffiò la pelle dei polpastrelli cercando di aggrapparsi di nuovo alla guarnizione centrale.
Arrivata a livello del reticolo se lo ritrovò davanti. Un salto con capriola da quell’altezza era una mossa sofisticata, che lei era stata in grado di fare solo quando era al massimo della forma, e persino allora sarebbe stata una scommessa. Almeno gli aveva tolto il fiato, costringendolo a fermarsi quel tanto che le bastò per scappare su una nave vicina.
Lui imprecò e la seguì.
Questa era più facile, ma più facile per lei voleva dire più facile per lui. Vecchie scatole impilate alla rinfusa lungo la parete fungevano quasi da scale. Ne trapassò una col piede, toccando qualcosa di molle e appiccicoso che rilasciò una zaffata nauseante. Si aggrappò alla grondaia e si issò sul tetto.
Lui era già lì.
– Eri uno scalatore anche tu, – disse lei.
Lui sorrise, un pallido e rapido segno di rispetto, e poi la afferrò. Una mano sul braccio per farla girare, l’altra a chiudersi intorno al collo di lei.
– Chi ti manda? – chiese, la voce straordinariamente tranquilla.
– Nessuno.
Serrò la stretta.
– Voglio solo aiutarvi, – disse lei, cercando di respirare.
– Perché?
– Perché abbiamo un nemico in comune. Martin Podlove.
Lui allentò la stretta.
– Sai…
Lui gemette. Tutto il suo corpo tremò. Una volta sola. Disse una parola, ma non apparteneva a nessuna lingua. Qualcosa di caldo e umido la inondò, colandole sulla schiena. Un odore di ferro riempì l’aria. Le braccia di lui si rilassarono e iniziarono a scivolare, il suo cranio attraversato da una lama bianca dalla forma bizzarra.
Cadde a terra e Ankit la vide: Masaaraq, in piedi sull’orlo del reticolo.
– Vieni giù, – le disse, – e portami la lama.
Ankit abbassò lo sguardo, paventando l’idea di estrarla dal cranio dell’uomo.
– Come…
– Ero sulla nave di Go. Ti ho vista, ti ho seguita.
Ankit si accucciò. Afferrò la lama con entrambe le mani. Tirò, ma non usciva. Uno sciabordio di sangue e cervella. Gli uncini frastagliati si incastrarono nell’osso. Tirò più forte.
Come riusciva a essere così fredda? Così spassionata? Lo spirito da scalatrice era ancora in azione, con la sua fisica pulita e priva di emozioni. Ogni altra cosa, il suo lavoro, la sua schizzinosità – la sua paura – niente importava. Girò, tirò, fece leva con le mani sempre più insanguinate fino a liberare la lama. Era pazzesco quanto fosse pesante. La forza di Masaaraq doveva essere incredibile.
Anche lei avrebbe potuto diventare così forte.
Nel restituirle la lama, Ankit disse, – Credo di essere pronta a farmi nanolegare.