Ankit
Sembrava enorme, seduta al tavolo di Ankit, più grande di quanto fosse possibile per un essere umano. Masaaraq sembrava rimpicciolire l’intero appartamento, renderlo diverso.
Non era più una casa, non era il perimetro sicuro e rigido della vita civilizzata in una città reticolo. Era un igloo, un tempio, una caverna, qualcosa di sacro e spaventoso. Le luci erano spente, le finestre ionizzate. Tre candele in piedi sul tavolo tra loro. Profumate: salvia e lavanda e un aroma chiamato “dolcetti alla cannella”, l’unico tipo di candela che Ankit fosse riuscita a trovare, terribilmente costosa. Aveva fatto compere diligentemente, facendo del suo meglio per trovare cose che somigliassero a quelle che Masaaraq le aveva chiesto. Niente nag champa, per cui intorno a loro volteggiava il fumo dell’incenso al sandalo. Niente grasso di balena, ma strisce crude di carne di foca sul tavolo.
– Sei pronta?
Ankit annuì.
– Una volta l’intera comunità sarebbe stata presente per questo momento. Durante il solstizio di inverno, legavamo tutti i bambini che avevano raggiunto l’età della tessitura.
– Della tessitura?
Masaaraq estrasse una siringa, preparò il braccio di Ankit. – Che avevano imparato a tessere. A intrecciare canestri o creare stoffe. Alcuni erano molto piccoli, tre o quattro anni. Altri non imparavano fino agli otto, ai dieci. Tuo fratello era un vero prodigio.
– Devo superare un test?
– Dovresti, – disse Masaaraq. – Ma non sono qualificata a somministrartelo. Tecnicamente non mi sarebbe permesso di fare niente di tutto questo.
Cionondimeno, trovò la vena al primo tentativo, e ne trasse abbastanza sangue da riempire una piccola provetta.
– Immagino non ci siano chissà quanti sciamani nanolegati in giro, di questi tempi.
– No, – disse Masaaraq. Sollevò una pietruzza frastagliata. – È fatta di naniti, ma quelli primordiali, indifferenziati. Entrando in contatto con altri naniti, replicheranno i loro dati e caratteristiche. È trattata con un agente polimerizzante che farà sì che gli altri naniti le si cristallizzino intorno. – Fece cadere la pietruzza nella provetta, la tappò e la porse ad Ankit. – Scuotila. Ci vorrebbe una danza, lunga parecchie ore, ma scuoterla vigorosamente per cinque o dieci minuti tecnicamente dovrebbe bastare.
Ankit la premette tra i palmi. Ne sentì il calore – il suo calore, il suo sangue, il suo corpo, questa cosa che portava dentro sé da una vita senza saperlo. Il potenziale che aveva sempre avuto. – Parlami di lei, – disse, iniziando a scuoterla. – Di mia madre. Oora.
Maasaraq sussurrò il suo nome con lei, poi disse:
– Io ero quella coi piedi per terra. Lei è sempre stata un po’ ritirata, come se nessuno dei nostri problemi la colpisse veramente. Quando avevamo fame, quando avevamo paura, quando eravamo in fuga – non si lamentava mai. A volte mi faceva arrabbiare, come se non stesse prendendo le cose sul serio, pensavo fosse ingenua o infantile o impreparata per il mondo in cui vivevamo. Dopo che abbiamo avuto dei figli ho capito che era invece la strategia di sopravvivenza corretta. Io avevo sempre paura. Ero sempre ansiosa. Sempre arrabbiata. Voi bambini lo sentivate e lo amplificavate. Oora vi rendeva felici, vi teneva con la testa tra le nuvole.
– A che animale era legata?
– A un uccello. Un’aquila poiana pettonero. Una bestia abbastanza sgradevole, in verità, ma a quei tempi non rispecchiavamo così facilmente l’atteggiamento dei nostri animali. Avevamo un’intera comunità a tenerci stabili, i nostri naniti erano imparentati abbastanza da renderci tutti leggermente empatici, smussavamo gli spigoli dei malumori reciproci.
– Mentre ora…
– Ora, io e Atkonartok siamo tutto quello che abbiamo. È così diverso. Non saprei descriverlo. Io sono ciò che è lei, lei è ciò che sono io. Sono un animale. Siamo un animale. È terrificante, ma allo stesso tempo davvero esaltante.
Masaaraq prese la provetta dalla mano di Ankit, la stappò e versò il contenuto sulle strisce di carne di foca. La pietruzza, che in precedenza era frastagliata e grigia, ora aveva un morbido riflesso azzurro. I miei naniti, pensò Ankit. Masaaraq la raccolse con delle bacchette d’osso, piene di minuscoli disegni intricati. – E adesso, la tua nuova sorella.
Ankit tolse la coperta dalla gabbia. La scimmia con la striscia azzurra strizzò gli occhi, si guardò intorno, sbadigliò mostrando canini affilati. Ankit aveva dovuto aspettare solo mezz’ora da quando aveva aperto la finestra e messo fuori sei strisce di carne secca di foca per lei, e quando era arrivata, e Ankit aveva messo il cibo in una gabbia, ci era entrata di sua spontanea volontà. Non aveva urlato né era apparsa turbata quando Ankit aveva chiuso lo sportello. Si era messa subito a dormire quando Ankit aveva coperto la gabbia. Né sembrava particolarmente spaventata di vedere queste due umane che la osservavano.
– Scommetto che ha avuto una vita difficile, – disse Ankit, – o forse è stata molto facile. – Si chiese quanta parte del trauma dell’animale sarebbe diventato suo. Forse i traumi per gli animali erano diversi. Forse l’assenza di consapevolezza faceva sì che il passato non potesse causare loro così tanto dolore. Aveva tante domande, ma aveva paura di farle – perché persino lì, nel suo piccolo appartamento sporco, illuminato solo dalle candele, l’aria di sacralità era così forte che non avrebbe sopportato di disturbarla con la pochezza delle parole.
Masaaraq piazzò la pietruzza di naniti in una piccola terrina di ceramica, poi ci versò sopra alcune gocce di un liquido chiaro da una fiaschetta.
– Questo inizierà a deattivare l’agente polimerizzante.
Prese un’altra siringa. Quando afferrò la zampa della scimmia, questa sorrise, un sorriso ampio e spaventato, e urlò quando Masaaraq gliela bucò, ma senza ritrarsi. Si diceva che i laboratori di droghe sintetiche testassero i loro prodotti sulle scimmie di Qaanaaq, e Ankit aveva sempre pensato che fossero leggende metropolitane diffuse da spacciatori chiacchieroni o dalla Narcotici, per farti dubitare dell’igiene delle droghe illegali. Non ne era più tanto sicura.
Masaaraq sollevò la provetta di sangue di scimmia. – Non avresti potuto scegliere, in una normale società di nanolegati. Un Compagno animale ti sarebbe stato assegnato sulla base della disponibilità e dei bisogni della comunità. Ogni animale ha uno scopo, porta diverse abilità o risorse. A qualcuno toccava essere legato a un gruppo di galline, pensa te.
Masaaraq rise. Una risata semplice, calda. Ankit ebbe l’impressione che fosse passato molto tempo da quando le era successo l’ultima volta.
– La vecchia Rosa. Sempre stata un po’ svitata. Spudorata, e cattiva.
Raccolse la pietruzza con delicatezza. Ankit la vide, stretta tra le due bacchette. Masaaraq la fece cadere nella provetta di sangue di scimmia. – Si scioglierà in fretta, adesso che l’agente polimerizzante è quasi completamente disattivato.
– Com’è che sei stata così fortunata? Immagino che un’orca sia un… Compagno abbastanza ambito.
– Mi sono procurata un ingiusto vantaggio. Ero una bambina testarda, la tessitura non mi interessava proprio, per cui non ho imparato fino ai nove anni… e quando l’ho fatto, ero furba abbastanza da sapere che non volevo finire legata a qualcosa di stupido come una capra da latte. Per cui l’ho tenuto segreto, ho fatto finta di non avere ancora imparato, ho aspettato che una anziana donna del nostro villaggio, che era legata a un’orca, morisse. E a quel punto, wow, guardate, ho imparato a tessere!
Ankit rise. Risero insieme.
– E comunque – non era sicuro al cento per cento. Tre altri bambini erano entrati nell’età della tessitura, quell’anno, e saremmo stati tutti legati nel corso della stessa cerimonia. Era la sciamana a scegliere, e non potevo affidarmi al caso. Per cui sono andata nella baia dove vivevano le orche e i loro Altri umani – la maggior parte delle comunità di nanolegati ne hanno solo tre o quattro, mentre invece possono arrivare ad avere trenta cani lupo e una ventina di cavalli – e mi sono tuffata in acqua. C’erano delle orche nate da poco, ancora non legate, e sono venute a giocare con me, come pensavo avrebbero fatto, solo che il gioco era tentare di uccidermi. E ci sarebbero riuscite, se un’orca adulta non fosse intervenuta. Ma secondo la sciamana voleva dire che avevo un qualche legame spirituale profondo con l’orca, per cui ha scelto me per legarmi con lei.
Ankit la osservò cercando sul suo viso quella bambina impulsiva e intelligente. Quella che aveva rischiato di morire, che non si fermava a soppesare i pro e i contro. Era ancora lì, le parve. Sepolta. Ma lì. Masaaraq scosse la provetta vigorosamente. Poi aspirò il sangue con la siringa e ne iniettò la maggior parte nella scimmia. Le ultime poche gocce le spruzzò sul piatto di strisce di carne di foca.
– Mangiate, – disse, e offrì il piatto ad Ankit e alla scimmia.
– È igienico?
– No, – disse Masaaraq. – Ma probabilmente è l’aspetto meno rischioso di tutto il processo.
Ankit mangiò una striscia di carne, resa salata dal suo stesso sangue. La scimmia ne prese due, una per ogni mano, e se le infilò entrambe in bocca.
– Adesso dovreste dormire, – disse Masaaraq, aprendo due bottiglie della bevanda post-oppiode da banco che era la cosa più vicina alla resina d’oppio richiesta dalla “ricetta” rituale. Ankit bevve la sua direttamente dalla bottiglia; Masaaraq versò l’altra nella terrina e la scimmia la lappò.
– Perché una scimmia? – chiese Masaaraq. – Avresti potuto scegliere qualsiasi animale. Quelle navi piene di predatori funzionalmente estinti… avrei potuto procurarti una tigre, un cinghiale, un serpente di mare…
– Le scimmie sono ossi duri, – disse Ankit, sentendo i tentacoli della trance iniziare ad avvolgerla. – Sono piccole e piene di risorse. E non hanno paura di niente.
Dormì. Le ore passarono. I suoi sogni furono gloriosi, vibranti, vivi. Più reali dei ricordi. Si arrampicava – ovunque.
– So come farcela, – disse Ankit, risvegliandosi per un breve istante tra due sogni. – L’ho capito l’altro giorno.
Masaaraq era lì che le teneva la mano, vegliando su di lei e sulla scimmia. Chiese – Come fare cosa?
– Come farla uscire.