Ankit
– Il contesto è tutto, – disse Barron. Gli uccelli cinguettavano sullo sfondo, ovunque si trovasse, o forse erano persone che ne imitavano i versi. – Per comprendere qualunque problema sociale, devi sapere cosa succede tutto intorno.
Aveva preso l’abitudine di mandare ad Ankit dei messaggi vocali. La sua voce era benevola, da nonno. Non rispondeva mai quando lei gli chiedeva perché non volesse incontrarla, parlare davvero. Pensò che avesse qualcosa a che fare con la sua malattia. La consapevolezza che forse non sarebbe stato in grado di rispondere a una domanda, che avrebbe perso troppo facilmente il filo dei pensieri. Lei cercava interruzioni nei rumori di fondo, segnali che aveva dovuto tagliare dei pezzi, ma il normale rumore della città era caotico e convulso abbastanza da renderle difficile dirlo.
Ankit disse, – Riproduci, – e iniziò ad arrampicarsi.
Contesto: Quando i primi casi di frantumo iniziarono ad apparire, Qaanaaq era da tempo una polveriera. Sovraffollamento; crolli di strutture traballanti negli slum. Manifestazioni. Molte delle misure volte a dissuadere gli assembramenti di massa erano state introdotte allora. Ankit se ne ricordava vagamente. Un amico del patrigno seduto nel loro salotto, la faccia marrone piena di sangue secco. Beccato durante una manifestazione pacifica che era diventata una rissa quando i vigilantes degli slum avevano tirato fuori i manganelli elettrici.
Le proteste di strada erano una stranezza, a Qaanaaq. Presenti – comuni, a volte – ma performative. Nostalgiche. Come carrozze trainate dai cavalli nelle città del Ventunesimo secolo. I migranti ci credevano, ma gli attivisti politici nati a Qaanaaq le trattavano come feste, occasioni per scattare fotografie. Siccome le decisioni erano prese solo in minima parte da umani non c’erano obiettivi su cui fare pressioni, luoghi in cui una crisi strategica potesse costringere a cambiare le leggi. Potevi chiedere che un manager di Braccio facesse una dichiarazione, ma tutti sapevano che sarebbe servito a poco. Le vere decisioni erano prese dalle macchine, centomila programmi informatici, e si poteva urlare contro una server farm fino a perdere il fiato senza ottenere niente. E anche se la folla inferocita ne avesse rasa una al suolo, c’erano decine di backup, molti dei quali galleggiavano in bolle intorno al geocono.
– Corri! – le urlò qualcuno.
Non era mai stata a un corso di scalata al coperto. Come la maggior parte degli scalatori, la sola idea le faceva storcere il naso. Una volta che sei stata là fuori, che hai sfrecciato per il cielo gelido, la sua versione sicura e legale sembra un insulto. Né poteva dire, esattamente, perché avesse deciso di farlo in quel momento. Ma corse, come l’allenatrice le aveva ordinato, superando con un balzo ostacoli di schiuma per poi lanciarsi contro la riproduzione di un’antenna cellulare rotante e girarci intorno.
Sì, pensò. È per questo che sono venuta qui. Il corpo ha un modo di pensare che è molto diverso da quello della mente. Forse muovere i vecchi muscoli mi aiuterà a capirci qualcosa.
Contesto: la macchina per l’assemblaggio molecolare dell’amico di Barron non era riuscita a produrre del Quet-38-36.0. Una qualche misura di sicurezza nascosta glielo aveva impedito.
Contesto: non gli era mai successo prima. Chiamò degli amici, chiese a loro di provare, ottennero lo stesso risultato.
Contesto: per qualche motivo, era impossibile produrre del Quet-38-36.0 a Qaanaaq.
– Salta! – urlò l’allenatrice, troppo tardi. Chiaramente non era una scalatrice. O, se lo era, era così scarsa da essere stata costretta a rifugiarsi nella sicurezza di un corso al coperto.
Contesto: Martin Podlove aveva paura di lei. Ma aveva più paura di altre cose.
Aveva rifiutato la sua richiesta di incontrarsi o sentirsi. Le tre volte che era andata al suo ufficio, determinata ad aspettarlo alla Grotta di sale per metterlo all’angolo, aveva scoperto che se n’era andato ore prima da un’altra uscita. Aveva preparato messaggi e li aveva cancellati prima di inviarli. Aveva bisogno di trovarselo davanti. Doveva per forza beccarlo. Doveva vederlo sulle spine, leggere la sua espressione. E se si fosse limitata a mandargli un messaggio scritto, avrebbe potuto tronfiamente mandare un vigilante a inzupparla o ammazzarla.
Cosa sapeva: Podlove aveva ordinato l’incarcerazione di sua Madre. Le aveva affibbiato il Codice 76. Non sapeva perché, e non sapeva se potesse farci qualcosa. E non sapeva perché i suoi impiegati all’improvviso si trovassero sotto attacco – aveva visto i filmati in cui suo fratello faceva un mazzo tanto a un vigilante il giorno dopo aver inzuppato uno dei burocrati di Podlove, e sapeva che non poteva trattarsi di una coincidenza – ma era certa che ciò le stesse complicando il lavoro. Podlove si stava preparando a un assedio, e sarebbe stato persino più inaccessibile del solito.
Si trovava a mezz’aria quando l’impianto mandibolare vibrò. Gli atterraggi bruschi non erano mai stati il suo forte, e la distrazione peggiorò ulteriormente le cose.
– Pronto, – disse pochi secondi più tardi, seduta per terra reggendosi la caviglia.
– Ankit, – disse il chiamante, la sua voce così antica, l’accento newyorchese, tanto che in principio pensò dovesse essere Barron. Ma quest’uomo trascinò la seconda sillaba del suo nome troppo a lungo, e il suo tono era troppo duro, troppo freddo.
– Chi parla?
– Dak Plerrb, chiamo da parte di Mr. Podlove.
– Ah, – disse lei, costringendosi a rallentare il respiro. – Che sorpresa. È in linea anche lui?
Plerrb rise. – No, no. Ma vuole che tu sappia che se n’è accorto. Di quanto sei determinata a parlargli. Vieni qui, scrivi…
– Volevo…
– Per non parlare delle tue ricerche! Stai passando così tanto tempo a studiarlo. La rete di Qaanaaq, quella globale, stai guardando ovunque.
Sentì divampare la rabbia, ma cercò di contenersi. Ovvio che i tirapiedi degli azionisti potevano ricevere segnalazioni dai programmi di sicurezza che monitoravano il comportamento dati. Potevano ancora controllarli, probabilmente. Voleva che si sentisse scioccata, arrabbiata, sconvolta.
– Voleva che ti chiamassi per dirti che è serissimo quando dice che questo non è il momento giusto per rompergli i coglioni.
Respira, Ankit. Un respiro, due. Non avere fretta. Quando parlò, la sua voce era ghiaccio. Era vento. – Fammi un favore, e chiedigli perché ha fatto rinchiudere mia madre al Ripostiglio.
Ma non ci fu nessuna risposta. Lo schermo diceva che la chiamata era stata interrotta. Aveva sentito la sua domanda? L’avrebbe posta a Podlove?
Si alzò in piedi. Spostò il peso da una gamba all’altra. La caviglia non era slogata. Si arrampicò di nuovo su per le finte palafitte. Afferrò una sbarra orizzontale; fece oscillare il corpo per raggiungere quella seguente. E quella dopo ancora.
La memoria muscolare entrò in azione. I fatti si combinarono insieme. All’improvviso, Ankit vide: Gli azionisti vogliono che il frantumo sia un’epidemia. Stanno facendo quanto è in loro potere per peggiorare il problema. Per impedire soluzioni. Per questo le stampanti molecolari non riescono a produrre il Quet-38-36.0. Per questo c’è una lista d’attesa di sei mesi per i trasferimenti per quarantena.
Contesto: il frantumo era una gradita distrazione dai difetti strutturali di Qaanaaq, la supremazia della proprietà, il fatto che i padroni di casa avessero tutto il potere.
Ankit scoppiò a ridere e spiccò un balzo verso il palo successivo.
Quel posto era una ricostruzione fatta bene. Capiva perché la gente pagasse per andarci. Ma le faceva solo venire voglia di arrampicarsi per davvero. Del morso del metallo. Del buio vuoto di sotto. Del vento freddo, più di ogni altra cosa. Un suo amico scalatore, citando un vecchio proverbio, diceva: se ti arrendi al vento, lo puoi cavalcare.