CITTÀ SENZA UNA MAPPA
Anatomia di un incidente
Sei legato al tuo corpo.
Il tuo corpo è plasmato dal suo DNA, dalle decisioni dei tuoi genitori, da fame e odio antichi, da elezioni contestate, dall’ascesa e dalla caduta delle stelle nel cielo. Forse il tuo corpo è in un luogo orribile. Forse, come me, non ci sei finito per colpa tua.
Un giorno ti libererai del tuo corpo. Ognuno di noi lo farà. Fino a quando non arriverà la Grande Liberazione, dobbiamo accontentarci di liberazioni piccole. Dei brividi lungo la schiena, del fremito rivelatore di una bella canzone, di ottimo sesso, di una buona storia.
E quindi. Un’altra storia. Questa abbraccia venti minuti, distillati e condensati da diverse fonti. Resoconti giornalistici; videocamere; racconti di testimoni oculari, così come riferiti alla Sicurezza e ad altre agenzie.
Scena: la Piattaforma degli sport. Livello più basso. Sera. Le tenebre sono appena scese su Qaanaaq.
Alle 17:55, quaranta tra uomini e donne salgono sulla Piattaforma. Sono un gruppo arrabbiato e turbolento. Portano con loro armi improvvisate; tubi, più che altro, recuperati dal sistema di ventilazione geotermica della città.
Alcuni brandiscono gli scheletri arrugginiti di fucili americani, cimeli di famiglia a cui aggrapparsi con disperazione, a volte l’unica cosa salvata da un antenato durante la fuga dal collasso di Chicago, Buffalo o Dallas.
Per le 18:04 hanno raggiunto il livello inferiore.
La donna che li guida è trasfigurata. Potrebbe essere una abbietta megera, e vivere in una crepa orribile del Settimo o dell’Ottavo Braccio, ma si è lasciata tutto alle spalle. In quel momento è splendida. Un mostro.
– Levatevi di torno immediatamente, – grida un bruto ai cinque o sei giornalisti che oziano sugli spalti. – A meno che non vogliate assaggiare un po’ di questo anche voi.
– Lascia che restino, – dice la donna, e dall’accento si capisce che è un articolo originale, New York al cento per cento, passando dalla Repubblica Dominicana, e che sia qui da una settimana o da vent’anni poco importa, ha parlato così poco con i suoi vicini che la città non è riuscita a lasciare un segno nella sua voce. – Devono vedere. Il mondo deve vedere.
Eppure. La maggior parte di loro se ne va.
– Ma potrebbero chiamare la Sicurezza! – dice un altro, pronto a inseguirli.
– Potrebbero chiamarla senza muoversi di un centimetro, – dice lei. – Ma ora che arriveranno, avremo fatto tutto quello che dovevamo fare.
Il loro obiettivo non si è mosso da quando sono arrivati. Per chi altri potrebbero essere qui, se non per la Donna Orca? È lì in piedi che li guarda, e i giornalisti racconteranno che sta sorridendo.
Immaginala bella. Immaginala robusta e muscolosa, avvolta di pelli e pellicce. Immagina una persona così forte che se la sapessi dalla tua parte non avresti più paura di nulla. E se ti stesse dando la caccia sapresti che non puoi fare altro che aspettare.
– Circondatela, – dice la donna. – Non lasciatela avvicinare all’orso.
Diversi membri della folla lo notano per la prima volta. Incatenato al muro, si sta alzando in piedi, sprizza rabbia annusando tutto quel rancore. E tutta quella paura. Un paio di persone si lasciano sfuggire un grido. Una scappa.
– La tua specie non è la benvenuta, qui. Sei un abominio. Una profanazione dell’essere umano così come Dio l’ha fatto, a Sua immagine. Ci ha creati diversi dagli animali per un motivo. Il tuo legame con quella bestia selvaggia in catene è un peccato, e quel peccato è il motivo per cui la tua gente è stata sterminata.
Alla parola “abominio”, l’obiettivo si muove per la prima volta. Solleva l’arma che giaceva al suo fianco e la afferra con entrambe le mani. È più alta di lei, con un’impugnatura di avorio di tricheco e un’asta leggermente ricurva che potrebbe essere fatta di legno durissimo o potrebbe essere la costola della più gigante tra le balene. Sulla punta, una lama come una luna crescente al rovescio, più spessa sul fondo che in cima, gli angoli spezzati in ganci e uncini.
Alcuni dei giornalisti la fotografano. Alcuni di loro stanno filmando tutto.
– Perché sei venuta qui?
Qualcuno scaglia un tubo. Forte. Lei si muove senza sforzo, così veloce che c’è chi non se ne accorge nemmeno, lo spostamento accennato dell’arma per deviare il proiettile senza colpirlo in un modo che potrebbe danneggiarle la lama. L’effetto sulla folla è ovvio, immediato. Bocche aperte. Piedi in movimento. Per la prima volta, il coraggio della schiera violenta inizia a incrinarsi. Non sono invincibili. Il loro obiettivo non è indifeso.
Sulla loro leader ha l’effetto opposto. O forse è la loro paura a renderla più coraggiosa. Il suo petto si gonfia. Si avvicina, nel raggio d’azione dell’arma.
– Non sei la benvenuta qui, – sibila.
– Non ti capisce, – urla qualcuno. – Hanno paura della tecnologia. Non ha un impianto.
A questo punto, la Donna Orca ride.
Anche questa reazione agita la folla, al punto che quasi nessuno si accorge che ha sferrato un colpo. Solo l’urlo della loro leader, alcuni millisecondi più tardi, li avverte che c’è qualcosa che non va. La sua mano destra giace sul pavimento, battezzata da una cascata di sangue arterioso. L’odore fa ruggire l’orso polare.
– Prendetela! – urla qualcuno, e la folla la circonda. La loro leader, con la mano amputata, barcolla verso il margine della Piattaforma.
Roteare di tubi e catene. Ferma il video, zooma, rallentalo, così potrai osservare lo svolgimento della danza. Dapprincipio due uomini si fanno sotto di corsa, fianco a fianco, così vicini che una singola oscillazione li decapita entrambi. Una donna si acquatta, arriva da un lato, e si prende un calcio alto che la fa cadere all’indietro. L’oscillazione che ha tagliato le due teste raggiunge con grazia la fine, e l’orcamante inizia subito a tirare indietro l’arma, spostando le mani al centro dell’asta, tirandola indietro con forza, per colpire la gabbia toracica dell’uomo che stava cercando di assalirla da dietro. Rumore di ossa rotte, i cui margini affilati infilzano gli organi interni.
C’è gente in corridoio, atleti degli altri livelli della Piattaforma, il solito flusso di cittadini curiosi che passa ogni giorno a trovare la mitica visitatrice. Quindici schermi sono puntati sull’azione e ne catturano ogni istante.
L’orso polare pesta le zampe anteriori contro il pavimento. Tutta la hall riecheggia di quel suono metallico.
– Ahhh! – urla qualcuno, o almeno in questo modo quel grido inarticolato sarà trascritto dal Post-New York Post. Prima che si estingua la donna ha spinto l’arma in avanti e la lama perfora la gola di quel qualcuno, un gancio si incastra nella colonna vertebrale, e lei agita l’arma verso destra per liberarla, facendo cadere il corpo davanti a uno dei suoi compagni, che ci inciampa e cade a terra e si ritrova con una mano mozzata dall’arma ormai libera.
Uno sparo. Il fischio stridente del rimbalzo di un proiettile e poi un altro, più distante, mentre il proiettile svanisce nelle tenebre del livello più basso della Piattaforma. E poi una parolaccia perché, come spesso succede alle armi ormai vecchie degli americani, l’accensione della polvere da sparo ha fatto sì che la canna esplodesse tra le mani del proprietario.
Ma quel suono costringe l’orcamante a fermarsi. Il suo sorriso si spegne. Osserva ogni faccia, ogni mano.
– Sparale! – mugola la leader, senza che ce ne sia bisogno, la voce ingrossata dal dolore ma indebolita dalla perdita di sangue.
L’orcamante sbudella alla perfezione un’altra anima stupida abbastanza da farsi avanti.
Un uomo chiude gli occhi e li riapre. Prende fiato. Se ne sta lontano dalla mischia, in piedi tra lei e l’orso. Gli fanno male le cosce. È passata una settimana e mezzo da quando è sceso dalla nave da ghiaccio. Non dovrebbero più fargli male. Sta diventando troppo vecchio per montare le seghe, troppo debole per estrarre schegge dai ghiacciai della Groenlandia. Nel giro di un anno non sarà più in grado di guadagnarsi da vivere grazie all’unico lavoro che abbia mai avuto in questo schifo di città. E poi? È abbastanza vecchio per ricordare Philadelphia prima del Risveglio, prima che lo stato della Pennsylvania finisse in mano a quei fondamentalisti con un programma contro i “centri del peccato” che ordinarono l’evacuazione totale di tutte le principali città. Si è visto portare via tutto così tante volte, e non è mai stato in grado di farci niente.
Spara. Il proiettile colpisce l’orcamante in basso sulla gamba, la lascia di stucco, la fa inciampare e cadere in ginocchio.
La gente ride. Il cerchio, ormai più piccolo, si stringe intorno a lei.
La donna picchietta con due dita la curva della mandibola. Qualcuno sussulta. Erano così sicuri che rifuggisse ogni forma di tecnologia che quella possibilità non gli era nemmeno passata per l’anticamera del cervello.
Del metallo tintinna contro altro metallo. Sentono di nuovo il ruggito dell’orso polare. È più forte, adesso. Si voltano e si accorgono che è libero, le gabbie sono cadute via dalle zampe e dalle fauci. Strilla e li carica.
È a questo punto che i documenti ufficiali si interrompono. Se ne vanno tutti, e in fretta. Escono di scena i giornalisti e i ficcanaso freelance. Ed esce, per quel che conta, anche la donna a cui è stata da poco amputata la mano, che pochi momenti prima aveva guidato la folla. Quel che resta della folla tenta di andarsene, ma non ci riesce.
Non ci sono videocamere a catturare la carneficina.