Kaev
Come previsto, li stavano aspettando. Dao era in piedi in cima alla passerella, fiancheggiato da una piccola folla di soldati armati e spaventati. Kaev non rallentò, non esitò, marciò dritto su per la passerella. Seguito dall’orso.
– Cosa sei venuto qui a fare? – disse Dao, il palmo sul pulsante che poteva sganciare il lucchetto idraulico, ritraendo la passerella e facendoli finire dritti in mare.
– Lo sai. Sono qui per vederla.
– E se avesse da fare?
– Sicuro?
Soq fece un passo avanti. – Chiamala, dai. Chiedilo a lei.
Alle loro spalle, ringalluzzita dal fatto che l’orso era uscito dal reticolo, una folla di agenti della Sicurezza. Assemblavano un qualche tipo d’arma che Kaev non aveva mai visto prima. Probabilmente non letale ma spaventosa – l’ultima generazione di cannone a impulsi sonori, forse, quelli sperimentati in Russia per stordire folle di manifestanti, che potevano anche provocare aneurismi. Non voleva che glielo puntassero contro. Se Go non li avesse lasciati salire sulla nave, persino l’orso sarebbe stato in pericolo.
Dao voltò la testa, parlando nell’impianto.
– Ehi, come va, – disse Soq a uno dei soldati, che sorrise nervosamente di rimando. Tutti gli occhi erano puntati su Soq. E Soq lo sapeva. Un ottimo modo per fare colpo sui nuovi colleghi, pensò Kaev. Per cui Soq, almeno, se la stava godendo. E così, per quel che importava, anche lui. Quella sensazione di beatitudine era ancora lì, quella che aveva provato camminando per Qaanaaq con gli occhi di tutti puntati addosso. Il potere che derivava dall’avere una candida macchina da guerra da cinquecento chili al tuo fianco. Il semplice piacere di non avere un cervello incasinato, rotto, inutile.
Tremò, al ricordo. Di come ogni minuto fosse stato terribile. Di come persino le frasi più semplici, i pensieri più lineari, gli si sbriciolassero tra le mani. Di quanta paura gli facessero gli altri esseri umani. La gioia di combattere, quei rari momenti, quegli istanti orgasmici con lunghi periodi di vetri rotti nel mezzo. Era solo una pallida ombra del piacere che provava a ogni istante accanto all’orso. E persino quello, la lotta, era stato fortunato ad averla. Un sacco di gente col cervello che non funzionava cadeva in dipendenze di gran lunga peggiori.
Notò che Masaaraq stava aggrottando la fronte. Non era il cipiglio diffidente di chi si trovi in una posizione tatticamente svantaggiosa. Sembrava più infelicità in generale.
– Va tutto bene?
– È una distrazione, – disse lei.
– Da cosa?
– Da quello che sono venuta a fare.
Kaev annuì. Gli aveva detto di no così tante volte, quando le aveva chiesto perché fosse lì, che aveva rinunciato a chiedere. – Go è potente. Ha gli agganci giusti. È intelligente. Qualunque cosa tu voglia fare, lei puoi aiutarti a farla.
– Sempre se non ci uccide tutti.
– Che ci provi.
– È o non è potente? – disse Masaaraq. – Se lo è, ci può distruggere. Non siamo invincibili. Orche e orsi polari sono come le altre armi – non possono risolvere tutto. E hanno dei limiti. Lo so meglio di chiunque altro. – Si fermò. – O quasi.
– Venite, – disse Dao. Si allontanò dal pulsante. I soldati indietreggiarono. A Soq, disse, – È nella sua cabina. La strada la sai.
Sembrava un piccolo esercito, quello acquattato sul ponte della nave di Go a riparare reti da pesca. Kaev era sempre stupito da quanto fosse noioso in realtà il suo impero criminale.
Soq non sembrava annoiarsi. Si fermò a osservare, a guardare quelle piccole dita al lavoro.
Il cuore di Kaev pulsava come un martello. Il suo sangue cantava. Tese le dita per impedire loro di stringersi in pugni. Era di nuovo sulle travi.
E allo stesso tempo non lo era. Era un ragazzo, giovane e bello e forte, che sgattaiolava fuori dai casermoni degli orfani per incontrare una ragazza. Una ragazza a cui non importava se balbettava e si bloccava, se le sue frasi non avevano molto senso. Una ragazza forte quanto lui, intrepida come lui, ma molto più intelligente. Una recluta da reticolo, come lui, ma a differenza sua lei aveva un piano. Un modo per farsi strada, un modo per costruire un impero in cui entrambi sarebbero stati al sicuro. Dove avrebbero smesso di essere niente.
Go ce l’aveva fatta, lo vedeva. Aveva dovuto abbandonarlo – o era stato lui ad abbandonare lei? – ma ce l’aveva fatta.
La porta della sua cabina si aprì. Restò sulla soglia. Vide prima Kaev e lui notò, ora, con la calma e la chiarezza che l’orso gli aveva dato, le emozioni che le danzavano sul viso, la felicità e la rabbia; l’amore e poi l’odio. Tutto in una frazione di secondo, spazzato via sotto il tappeto della sua espressione da leader indomita.
Ma poi vide Soq. E sgranò gli occhi. Guardò Soq e Kaev, Kaev e Soq, e lui avrebbe potuto giurare di avere visto qualcosa dentro di lei svanire. L’espressione da leader indomita si crepò. Qualunque cosa Dao le avesse detto, non aveva messo insieme i pezzi fino a quel momento, vedendoli insieme. Probabilmente non gli aveva neanche detto di Soq. Probabilmente si era concentrato sull’orso polare. Sarebbe stato comprensibile. Ma Go non era concentrata sull’orso polare. Sembrò quasi non averlo proprio visto.
Fece un passo avanti. Si portò una mano al petto.
– Io… – disse, poi tacque.
Kaev fece tre rapidi, impavidi passi avanti e l’abbracciò, la strinse a sé.
La amava. L’aveva sempre amata. Ogni altra cosa si spezzò, crollò a pezzi. La rabbia e l’odio e l’amarezza che lentamente l’avevano avvelenato per essere il suo tirapiedi, il suo capro espiatorio, il suo gregario, e poi il suo scagnozzo, il suo inzuppatore. E qualcosa del genere doveva stare succedendo anche lei, perché la sentì sciogliersi piano, il modo in cui le sue braccia intorno a lui passarono dall’essere rigide e incerte all’essere affamate e decise quanto le sue. Non ebbe bisogno di chiedere, Perché non me l’hai detto?, perché tutto aveva perfettamente senso.
– Mi dispiace così tanto, – disse lei.
– Non ce n’è bisogno, – disse lui, incamminandosi senza lasciarla andare, portandola dentro la sua cabina sapendo che non avrebbe voluto che i suoi sottoposti sentissero quello che dovevano dirsi. Che si sarebbe pentita persino di avere permesso loro di vederli baciarsi. – Ma anche a me.
Gli occhi di Go si riempirono di lacrime. Le parole uscirono veloci, tra i singhiozzi, frasi annodate tra loro come se le stesse tenendo da parte da anni. – Non volevo abbandonare Soq. Non volevo abbandonare te. Ma avevo già fatto delle scelte, allora. Avevo preso questa strada. Mi ero fatta dei nemici, persone che vi avrebbero uccisi entrambi. Jackal stava già affermando il suo potere, aveva gente dalla sua parte. Avevo intenzione di abortire. Avrei dovuto. Ma ti amavo troppo. Amavo chi ero insieme a te. Sapevo che non saremmo mai potuti stare insieme, ma quello che avevamo poteva… non so… continuare a esistere.
– Shhh, – disse Kaev. Vide Soq che fingeva di giocare con l’orso polare. Faceva il possibile per non guardare verso di lui, o verso Go.
– L’ho fatto per salvarvi la vita. Rompere con te, nascondere Soq da entrambi.
– E ha funzionato, – disse Kaev. – Siamo vivi! Tutti e tre.
Go scosse la testa. Quando le parole le uscirono di bocca, uscirono così veloci che lui fu certo che avessero passato anni a riecheggiarle in testa. – Non me lo merito. E non merito te. Jackal è morta da un pezzo. Sono dieci anni che nessuno attenta seriamente alla mia posizione. Il pericolo era passato. Avrei potuto cercarti in qualsiasi momento. Ma non l’ho fatto. Perché quando ti ho lasciato – quando ho lasciato entrambi – mi ha fatto così male. Ho giurato che niente mi avrebbe mai più fatto così tanto male. Ho costruito un muro intorno alle mie emozioni. Non ho mai permesso a nessuno di entrarci. Non stavo pensando in grande. Ero così concentrata sui miei piccoli obiettivi – salire la scala, un passo alla volta. Volevo solo restare aggrappata al piolo che avevo in mano, e al massimo riuscire ad arrivare a quello successivo.
Kaev le baciò la fronte. – Va tutto bene.
– Lo so. Ma voglio che tu sappia perché ho fatto quello che ho fatto.
– Dimmelo.
– I boss della mala pensano sempre in piccolo, – disse lei, allontanando un braccio ma avvolgendo l’altro più stretto intorno alla sua vita. Insieme si voltarono a guardare fuori dall’oblò, il profilo frastagliato e verde della città. – Sono solo piccoli capitalisti obbedienti, non molto diversi dai CEO di un’azienda. Vogliono fare soldi, e far soldi per i loro amici. Io voglio di più.
– Cosa vuoi?
Socchiuse le labbra. Kaev conosceva quello sguardo. Lo sguardo che hai quando stai per dire qualcosa che hai sussurrato a te stesso mille volte ma mai pronunciato ad alta voce.
– Voglio una città in cui le persone non siano costrette a fare quello che ho fatto io.
– Mi sembra decisamente una buona ragione. Tutto qui? È per questo che mi hai fatto inzuppare quei tizi?
Go annuì.
– Un azionista, giusto?
Annuì di nuovo.
– Stai giocando col fuoco. Sono loro a mandare avanti la città. A comandare sulle Intelligenze Artificiali che la governano.
La città scintillava. L’orso polare stava lasciando che Soq gli si arrampicasse sul dorso, con l’espressione di un genitore paziente. Alla fine del loro Braccio, fiamme di metano grandi come edifici disegnavano parabole fino in cielo, suscitando le urla di gioia degli spettatori che le attendevano ogni sera.
– Voglio te, – disse Go. – E Soq. E Qaanaaq. E possiamo farcela. Voglio pensare in grande.
Anch’io voglio pensare in grande, pensò Kaev, ma non c’era bisogno di dirlo perché, se c’era una cosa che aveva imparato negli anni passati a essere un cretino col cervello danneggiato, era che le parole intralciavano più spesso di quanto non aiutassero.