Soq

– Levati dal cazzo! – urlò, e ridacchiò per il modo lezioso in cui il ragazzo saltò via. Gente come quella è convinta di essere padrona di tutto il Braccio, e magari è anche vero, ma sullo scivolo era Soq a comandare.

La velocità e il vento fecero lacrimare gli occhi di Soq. Rise forte, e la risata divenne un ululato che risuonò fino in fondo allo scivolo.

Due rampe parallele scendevano verso il centro da ognuno degli otto Bracci di Qaanaaq. Larghe dieci centimetri, ricoperte di rotaie a levitazione magnetica in miniatura. Una che usciva dall’Hub centrale, l’altra che arrivava dal lato opposto. Ciascuna partiva a un metro e mezzo di altezza, e lungo tutto il chilometro del Braccio scalava gradualmente fino ad arrivare al livello del suolo. Un’inclinazione di un metro e mezzo non è niente di che, ma un essere umano di peso medio può arrivare a raggiungere velocità impressionanti. In teoria chiunque possedesse un paio di stivali da scivolo poteva utilizzarle, ma la maggior parte della gente le aveva abbandonate da tempo lasciandole alle staffette. Le staffette degli scivoli erano una minaccia a malapena tollerata, considerate da chiunque drogati di caffeina assetati di sangue, impegnate in commissioni molto poco legali, con indosso vestiti pesanti per andare più veloci e armate di lamette per sbudellare con noncuranza chiunque passeggiasse al centro del Braccio senza prestare attenzione. La maggior parte delle staffette godeva di questa reputazione e faceva di tutto per incarnarla in pieno.

Soq fece un balzo e raggiunse la fine della rampa. Gli stivali da scivolo avrebbero dovuto sopprimere la repulsione magnetica non appena giunti alla destinazione programmata per permetterti di fermarti in modo calmo e preciso. Come la maggior parte delle staffette, Soq aveva sovrascritto quella funzione. A frenare Soq poteva solo essere Soq. Si librò nell’aria, lasciando la zona cuscinetto e atterrando di botto a fianco di una panchina dell’Hub centrale.

Un uomo, a cui Soq aveva appena sorvolato la testa, urlò, – Fa’ attenzione… – e poi si fermò, non sapendo che genere usare per l’insulto.

Soq era al di là del genere. Lo indossava come la maggior parte delle persone indossano i vestiti. A volte camionista, a volte regina, ma sempre e comunque Soq, sempre la stessa persona, e sempre sotto sotto del tutto indescrivibile.

Nuovo lavoro, sussurrò il suo impianto. Primo Braccio. Numero 923. Busta; solo documenti.

– Assegna a qualcun altro, – disse Soq. – Ho una cena con mia madre e sono in ritardo.

– Ma non ce l’hai una madre, – disse Jeong, l’umano di servizio quel giorno, interrompendo il software di assegnazione automatizzata.

– Come no, – disse Soq, facendosi strada tra il traffico pedonale della sera nell’Hub centrale. – Chiunque ha una madre.

– Così dicono. Ma tu non hai nessuna cena stasera.

– Sono a pezzi, – disse Soq – Non ce la faccio a smazzarmi un’altra corsa tra gli stronzi del Primo Braccio.

– Va bene, – disse Jeong, a cui proprio non importava né in un senso né nell’altro. Aveva fatto la staffetta anche lui, prima che un gruppo di ragazzetti non gli manomettesse gli stivali giocando con un software a impulsi elettromagnetici inchiodandolo sul posto mentre sfrecciava lungo il Sesto Braccio a trecento chilometri all’ora, dislocandogli entrambe le gambe e fratturandogli il bacino. Adesso viveva per interposta persona attraverso i suoi “ragazzi”, inclusi quelli più vecchi di lui. – Ma senti. Ho ricevuto una lamentela per la tua ultima consegna. La signora ha detto che non ha mai visto tanta maleducazione.

– E come no, – disse Soq. – Malefica vecchiaccia americana, se l’è presa quando ha usato il maschile per descrivermi e io le ho detto che non mi piaceva, spiegandoglielo con molta pazienza ed educazione, visto che mi tocca fare questa conversazione molto più spesso di quanto sia umano, e preferivo usasse termini neutri.

– Pazzesco. Il mio screen si è piantato proprio mentre stavo registrando la lamentela. Non sono riuscito a salvarla nella tua scheda. Dovrei proprio farlo controllare.

– Grazie, Jeong. Novità da Go?

– Nessuna, – disse lui. – Ti faccio sapere non appena sento qualcosa.

La linea di assegnazione tornò silenziosa. Soq premette il pollice inguantato sul mignolo e gli stivali si smagnetizzarono. La folla serale là davanti, duecento esseri umani che attraversavano l’Hub centrale, si muoveva soprattutto dai bracci di lavoro a quelli residenziali, anche se come tutto il resto a Qaanaaq il flusso di gente era un affare complicato.

Pessima idea, e Soq lo sapeva, fissarsi così tanto su Go. Non voleva mica dire niente che la donna che molti credevano essere la boss della malavita più potente della città avesse mandato il suo sottoposto ad assoldare Soq per dei lavoretti da freelance. Consegne, pedinamenti, trasferimenti, fare cagnara per permettere a qualcuno di sfuggire a qualcun altro. Non c’erano promesse in quell’ambito lavorativo. Soq era una buona staffetta da rampa, e una buona staffetta aveva molte delle qualità che rendevano buoni tirapiedi – velocità, intrepidezza, mancanza di rispetto per la legge – ma ciò non significava che Go avrebbe chiesto formalmente a Soq di fare parte della sua organizzazione.

Finire sotto l’ala protettiva di una boss era come vincere la lotteria: stupendo, certo, ma probabilmente improbabile, per cui meglio non sperarci troppo.

Smettila di pensarci. Smettila di immaginare il giorno in cui sarai tu a comandare, a incutere terrore.

Una linea dritta, dal Primo Braccio all’Ottavo. Un’ironia che non smetteva mai di divertire Soq, come fosse facile passare dal lusso più sfrenato allo schifo più affollato. Altrimenti come farebbero a spennarci così facilmente?

Il Primo Braccio faceva sempre quell’effetto. Riempiva Soq di rancore. Di rabbia. La rabbia di solito sfumava un pochino quando tornava all’Ottavo. La sola vista dello striscione sopra l’entrata era un conforto: quattro dei più o meno cento caratteri in mandarino che Soq e chiunque altro a Qaanaaq conosceva: 新北希望, Xinbei Xiwàng, Nuova Speranza del Settentrione, il nome che gli sponsor cinesi avevano dato alla loro nuova città, così come avevano fatto quelli thailandesi e quelli svedesi, tre nomi nessuno dei quali aveva attecchito, perché la gente voleva altro, qualcosa che non dovesse niente a nessuno, e così il nome Inuit per un villaggio sulla costa della Groenlandia che era appena stato inghiottito dal mare divenne il nome della città galleggiante. Qaanaaq II, all’inizio, o Q2, e poi semplicemente Qaanaaq quando la città che l’aveva preceduta fu dimenticata.

La prima cosa a colpire Soq fu l’odore del cibo: brodo e basilico, menta e sbobba. I banchetti di cibo erano proibiti nella maggior parte dei Bracci migliori, ed erano l’attrattiva principale per i forestieri che osavano entrare nell’Ottavo. Dopo di che fu la folla a mettere Soq a suo agio, il suo ritmo, la strana atmosfera intangibile di energia e pace. Questa gente non conosceva Soq, ma sapeva che era dei loro. Nessuno sapeva come lo sapessero, ma lo sapevano. Così come Soq sapeva chi apparteneva o meno al Braccio. Era casa sua.

Gente, ammucchiata ovunque. Capsule per dormire impilate tra gli edifici, legate ai pilastri che sostenevano quelli più grandi. Potevano apparire tristi e cenciose, ma erano della nobiltà, in un certo senso. Immobili di livello; i posti migliori, conservati dai tempi in cui l’Ottavo Braccio era come il Sesto è ora. Le donne e gli uomini che vivevano lì dentro erano gli occhi e le orecchie del Braccio, elementi essenziali nel commercio di informazioni.

Più in là lungo il Braccio, Soq entrò nell’ombra dei caseggiati. Un tentativo lungo vent’anni da parte degli azionisti di Qaanaaq di fornire un tetto stabile sopra la testa ai più sfortunati dell’Ottavo, questi enormi edifici formavano la sacca più densa di popolazione. Addirittura più densa della città murata di Kowloon o dei barconi del South Bronx o di qualunque altra realtà prodotta dalle Guerre sommerse. Le pareti esterne riccamente vascolarizzate di tubature rosse, nere e verdi. La maggior parte delle famiglie, poco dopo avere preso in locazione questi spazi più o meno confortevoli, aveva iniziato a costruire pareti e partizioni e ad appendere lenzuola e qualunque altra cosa per affittare spazio ai propri vicini. Nei caseggiati non era insolito che cinquanta persone vivessero in un solo appartamento. Soq aveva avuto degli amici lì, aveva partecipato alle loro feste di compleanno. Aveva visto quanto pieni di risorse fossero gli abitanti: gli impianti cittadini “aumentati” grazie a grovigli di nuove tubature per trasportare acqua e liquami e calore, le linee elettriche sdoppiate, le passerelle e le scale secondarie, le fabbriche clandestine dove nonnette preparavano polpette di pesce o riciclavano circuiti stampati in una stanza dove dormivano dieci operai da ice-boat. E si trattava tuttavia di posizioni relativamente privilegiate, tenute strette da famiglie e associazioni criminali che pagavano gli azionisti in segno di buona volontà nei confronti dei residenti.

Tre ragazzini scalatori fecero dei versi rivolti a Soq. Erano accovacciati tra i pilastri di un edificio, stavano dando da mangiare a una scimmia malconcia. Soq rallentò, cercando di capire se avessero intenzioni ostili, poi decise che si stavano facendo i fatti loro. In genere scalatori e staffette andavano d’accordo, e un sacco di persone erano entrambe le cose, ma alcuni scalatori diventavano cattivi con le reclute a terra, si sentivano tanto superiori.

A tre quarti dall’uscita del Braccio, Soq si fermò a un banchetto di noodles. C’erano piccoli sgabelli e un telone a ogni lato per ripararlo un po’ dal vento. Soq si immerse nelle nuvole di vapore caldo che odoravano di polvere cinque spezie. Casa erano anche i noodles. Casa era cibo e calore. Soq pagò, prese uno sgabello, chiuse gli occhi e meditò sul momento presente, sulla sua pace, sulla sua bellezza. Sul freddo del vento e il calore del cibo e il fatto che chiunque, prima o poi, morirà. Lasciò andare tutto ciò che non aveva, ogni cosa brutta che avesse visto, ogni momento di dolore che aveva sentito quel giorno, il giorno prima, nei giorni a venire.

Sorrise tra il vapore che aleggiava.

– Ehi, Charl! – chiamò, una volta che le prime cucchiaiate di zuppa ebbero raggiunto lo stomaco, e puntò le bacchette verso lo schermo unto che Charl aveva appeso a un lampione. Al telegiornale, nove fazioni militari che avevano richiesto di essere riconosciute a livello globale come il successore legittimo della Repubblica americana. Alcune non erano composte che di una ventina di persone su una barca. – Quanto pensi che ci voglia per un’imbarcazione a tripla alimentazione per viaggiare da dov’era la flottiglia fino a Qaanaaq?

– Più o meno una settimana, credo, – disse Charl, perché Charl adorava questi problemi logistici. – A meno che non abbia un sacco di carburante, in quel caso potrebbe metterci solo un giorno o due. Perché, vuoi andare a saccheggiare?

– No, – disse Soq. – Mi chiedevo solo quando inizieremo a vedere rifugiati.

In realtà stava pensando all’orca. Alla donna che era misteriosamente arrivata con un’orca al seguito, pochissimo tempo dopo il bombardamento alla flottiglia. Tanto per cominciare, com’era che la flottiglia era stata colpita? Alla flotta americana mancavano un sacco di cose – cibo, riparo, carburante, libertà civili – ma certo non le mancavano le armi. La presenza militare globale che aveva reso gli Stati Uniti pre-caduta così potenti, e che aveva contribuito a causarne il collasso, gli aveva lasciato in eredità un assortimento di giocattoli terrificanti. Le navi da battaglia che avevano circondato quei quattrocento rottami galleggianti avrebbero dovuto avere solide capacità di difendere il proprio perimetro… ma forse a chi avrebbe dovuto difenderlo un’orca non era proprio venuta in mente. Un’orca era il modo migliore per portare l’esplosivo sotto al cono.

Soq risucchiò quel che restava dei noodles, poggiò la scodella e si lasciò colpire il viso dal vento. Attraversò il Braccio per raggiungere la distesa dell’oceano aperto.

C’erano duecentomila persone nell’Ottavo Braccio, per chi dava credito alle statistiche ufficiali, cosa che Soq non faceva, e la metà di loro fantasticava ogni giorno di vedere Qaanaaq affondare tra le onde. L’altra metà sognava di conquistarla. Era un miracolo che fosse durata così a lungo.

Soq si chiese a che fazione appartenesse, e decise che apparteneva a entrambe. Dominerò questa città o la distruggerò, le spezzerò le gambe, la spedirò dritta ad affondare nel mare che ci brucia sotto ai piedi.

Scese nell’unico barcone che aveva ancora qualche posto letto. La donna proprietaria della barca a fondo piatto sorrise, riconoscendo Soq, e allungò la piastra per la scansione dello schermo.

La barca era più o meno quadrata, e non era fatta per spostarsi. Era ancorata nello stesso luogo da vent’anni. Sulla sua superficie erano impilate dieci file da dieci cassoni. Un metro quadro e mezzo, con pareti di legno coperte da teloni. I più poveri di Qaanaaq dormivano su barche come quelle, i corpi raggomitolati maldestramente, sotto a un tettuccio traspirante che potevano chiudere per tenere fuori i venti peggiori e mantenere il calore dei corpi. Meno male che Soq non era troppo grande. La gente molto alta se la passava male nei cassoni.

Si sedette. Il cassone era umido. Odorava del deodorante scadente che la proprietaria aveva usato quando chi lo occupava in precedenza se n’era andato la mattina, ma sotto sotto Soq ne sentiva la puzza. Aveva dovuto scegliere se soffrire la fame in un hotel a capsule o starserne con la pancia piena in un cassone, e aveva scelto la ciotola di noodles.

Andava bene così. Provava rabbia per averla dovuta fare, questa scelta.

L’amarezza stava iniziando a ritornare. Quella che fino a cinque minuti prima era stata una frivola fantasticheria, era diventata un desiderio profondo, appassionato. Che vadano affanculo tutte quante, le persone che ci fanno vivere così. Quelle che dormono in letti con metri e metri di spazio vuoto tutto intorno.

Fa’ saltare il geocono per aria e la città diventa inabitabile prima che scenda la notte. Soq fissò lo schermo, scorrendo le foto del cono dall’ideazione alla realizzazione alle periodiche, e ben pubblicizzate, riparazioni. Colonne di sale polimerizzato a difenderlo; e banchi fitti di droni acquatici armati. Duecento miglia di tubature che entravano e uscivano dal cono, senza contare quelle che portavano acqua e calore nel groviglio incasinato della città più sopra. Un milione di valvole per rilasciare calore e pressione. Sistemi dinamici di risposta per andare incontro ai picchi nella domanda.

Che meraviglia; che bersaglio.

Soq si addormentò così, in posizione fetale, sapendo che le ginocchia al risveglio sarebbero state doloranti, sorridendo al suono immaginario di un milione di persone intente a gridare aiuto affogando.

Distruggere questa città, o conquistarla: cosa preferirei fare?