Soq
Soq riusciva a vederla camminare avanti e indietro. Sola nella stanza, un’enorme nube d’ansia infilata in un corpo minuscolo. Evitava di guardare fuori dall’oblò. Fissava gli schermi. Ce n’erano quindici o venti disseminati sui tavoli, e Go continuava a tirarne fuori di nuovi da scatole e cassetti, avviando nuovi software, richiamando le immagini di qualche ulteriore drone. Era impressionante quanto fosse esperta. Non c’erano sottoposti a farlo al posto suo. Se Dao non fosse morto, ci avrebbe pensato lui? Se così fosse stato, sarebbe stato ancora più pazzesco: un sacco di pezzi grossi, senza le persone che di solito fanno tutto al posto loro, si sarebbero sentiti persi.
Per quel che si ricordava, Go era sempre stata lì. Un idolo, qualcuno i cui successi e cadute Soq aveva seguito come gli altri ragazzi del reticolo seguivano i lottatori su trave. La sua stessa carriera, il suo sogno di selvaggia vendetta su quella città di merda, erano stati modellati sulla base di quelli di Go.
Go era impavida; Go era magnifica. Saggia, astuta, assetata di sangue, brillante. Soq non aveva mai avuto dubbi al riguardo. Quello che si chiedeva ora era qualcosa di molto diverso: era un essere umano decente?
Aveva anche altre domande. Domande che non avevano smesso di tormentare Soq da quando aveva iniziato a entrare e uscire dai ricordi di Fill. A cosa serviva fare carriera? Arrivare alla vetta sembrava un obiettivo a sé stante, ma una volta raggiunto cosa si poteva fare?
Per quasi un’ora, aveva controllato, Go aveva fatto il possibile per non guardare fuori dagli oblò. Perché sapeva che là fuori avrebbe visto Soq.
E per quasi un’ora, Soq aveva cercato di bussare alla sua porta. Perché non l’aveva fatto? Era raro che si facesse bloccare dalla paura. Si ricordava della prima volta che aveva allacciato gli stivali, di come aveva orbitato intrepidamente per il reticolo, e senza sforzo aveva salito e sceso la rampa. Lo aveva fatto senza neanche pensarci. La gente si rompeva le ossa ogni giorno sulle rampe; c’era chi moriva. Ma morte e dolore non avevano mai fatto paura a Soq. Non aveva niente; niente che potesse essere portato via; nessun legame.
E ora? Cosa fermava Soq? La scoperta di avere una madre? Un padre? Fantasticherie mielose di una vita familiare come quelle di una volta? Era davvero così debole che avere avuto dei genitori per qualche giorno trasformava Soq in uno di quei ragazzetti con gli occhi enormi del Primo Braccio che aveva passato la vita a detestare?
Bussò. Con vigore.
– Cosa? – disse Go attraverso un altoparlante. Soq la vedeva, incorniciata dall’oblò. Dava la schiena alla porta.
– Hai bisogno d’aiuto, – disse Soq.
– No.
Bussò di nuovo. E aspettò. Sessanta, novanta secondi più tardi, un tonfo sordo dal chiavistello. Soq girò la maniglia ed entrò.
– Per cosa avrei bisogno di aiuto? – chiese Go.
– Da dove iniziare? – disse Soq, lasciandosi cadere su una vecchia poltrona reclinabile. La cosa più vicina a un trono che ci fosse in quella stanza.
– Fai attenzione – disse Go, continuando a dare le spalle a Soq. – Non pensare di avere un qualche tipo di permesso speciale per mancarmi di rispetto.
– Ma in un certo senso è così, no?
Go si voltò con gli occhi sgranati. Soq trasalì alla rabbia nel suo sguardo, ma la rabbia era proprio quello che stava cercando. Rabbia, violenza, qualcosa. Un segno che la sua esistenza avesse un qualche impatto su Go. Si alzò e si avvicinò al tavolo. Guardò dieci singoli schermi che mostravano dieci video diversi girati dal vivo dai droni. Cinque di loro puntavano sulla stessa persona. Un uomo bianco e anziano, anzianissimo, in un grande ufficio. Scheletrico. Camminava avanti e indietro come se fosse il fragile doppelgänger di Go. – L’uomo del video, – disse Soq. – Il cui nipote è stato ucciso.
– Martin Podlove, – disse Go.
– A che organizzazione criminale appartiene?
Go rise. – A nessuna organizzazione. O a quella più grande di tutte, a seconda del tuo credo politico. È un azionista.
Soq fischiò e si acquattò per guardare meglio gli schermi. Un azionista. Come vedere un unicorno. Chi cresce senza niente a Qaanaaq si chiede di chiunque incontri, quest’uomo corpulento è un azionista? E quella donna vestita di stracci? Certo, molti indosseranno vestiti costosi, ma Soq aveva sempre avuto la certezza che la maggior parte di loro indossasse vestiti di merda, per mescolarsi, per somigliare a qualunque altro relitto di Qaanaaq. Su chi dovevano fare colpo, d’altra parte? Erano già i padroni dell’universo.
– Com’è che hai così tanti occhi su di lui?
– Soprattutto microdroni. Fuori dal suo ufficio.
– Non ha mai sentito parlare di tende? Di finestre ionizzate?
– Non gli importa di essere visto. Si crede invincibile.
Cazzo, che strano. Che strano, cazzo. Troppe strade portavano a quel ragazzo, quello che aveva attaccato il frantumo a Soq. La vita non funziona così, pensò, in una città così grande. Tutti questi fili bizzarri e separati che si uniscono. Che formano una trama, una maglia. Una rete. Era in trappola. La rete trascinava Soq fuori dal mare in cui aveva passato tutta una vita, dove si sentiva al sicuro, dove era in grado di respirare, e la luce era troppo violenta.
La vista di Soq si offuscò. Il flusso di immagini riprese. L’appartamento vuoto dove si erano incontrati.
Ma questa volta, aveva studiato. Non aveva intenzione di lasciarsi sopraffare; non aveva intenzione di annegare nell’aria come un pesce. Soq aveva… qualunque cosa fosse il dono di Masaaraq. I naniti. La forza. Il controllo.
Stanze vuote. Così tanto spazio. Una lunga fila di ragazzi bellissimi. Fame; così tante persone affamate.
Un software.
Delle password.
Soq avvicinò la poltrona al tavolo. – Dimmi cosa ti turba, – disse, stupendosi quasi nel sentire quanto fosse autorevole la sua voce, quanto non dubitasse dell’obbedienza altrui, come se sapesse cosa stava facendo: e, ancora più strano, sapere che era davvero così.
– Non posso credere che stia succedendo proprio adesso, – disse Go, in piedi alle spalle di Soq a osservare gli stessi schermi. La sua voce non era infastidita. Era spaventata.
– Cosa? La missione al Ripostiglio?
– Sono nel mezzo di guerra. Non ho tempo di andare a salvare la mammina di qualcuno.
– Perché non spari un missile verso l’ufficio di quel vecchio e la fai finita? La potenza di fuoco ce l’hai.
– Perché ce l’ha anche lui. O almeno, paga una società per la sicurezza abbastanza bene da coprire tutte le eventualità. Soldi e ricchezza e potere non sono che astrazioni per gente come lui. Non avrebbe la minima idea di cosa fare in una lotta corpo a corpo, ma paga dell’altra gente per gestire i suoi problemi. In guerra ci sono delle regole. Delle cose che non si possono fare. Se lo uccido, la sua gente ucciderà me.
Qualcosa brillò nella corrente. Qualcosa di luminoso nel flusso di immagini scialbe. Soq emise un suono strozzato e prese in mano uno degli schermi di Go.
– Cosa stai facendo?
– Non lo so –, disse Soq. – Sto accedendo a qualcosa credo. A un programma.
– Che programma?
– Boh, – disse Soq. – A dirla tutta, non so neanche se esiste. Né se lo so usare. E neanche cosa farei se ci riuscissi.
– Ottimo, – disse Go voltandosi, passando in rassegna tutti gli altri schermi.
– Ho avuto una visione –, disse Soq, e Go non rispose, perché non stava ascoltando.
– Non te ne frega niente della missione al Ripostiglio, – disse Soq. – Se ce la fanno, bene. Se non ce la fanno, bene lo stesso.
Go non disse niente.
– Sei arrabbiata perché Dao è morto?
– Sì, – disse Go imperturbabile.
– Sei arrabbiata con lei. La odi. Masaaraq.
– Sì, – disse Go.
Soq ci pensò su per un istante. Cavalcò una lunga e lenta ondata di immagini, ricordi intrecciati al codice del frantumo. Cercò Go e la trovò. Un centinaio di articoli di giornale; un milione di foto di merda. Una figura leggendaria. Di cui si parlava a bassa voce. Sovrumana; inarrestabile. Priva di emozioni. Era questo l’aspetto più importante del personaggio di Go; l’idea che non provasse niente.
– È lui. Sei preoccupata per lui.
– Può badare a se stesso. Ha un cazzo di orso polare.
– Gli orsi polari possono morire. Non hai idea di quanto quel posto sia armato. E con che tipo di armi.
Go si guardò le mani. – Non solo per lui, – disse infine.
Ci vollero alcuni secondi perché Soq si rendesse conto di stare trattenendo il fiato. Quando se ne accorse, continuò comunque a farlo.
Go rise. – Non te lo puoi immaginare, Soq, – e c’era una tenerezza, nel modo in cui disse il suo nome, che Soq non aveva mai sentito prima. – Avevo pianificato tutto, avevo tutto sotto controllo. Ero sulla buona strada. Niente poteva farmi male. Niente poteva trattenermi. E adesso c’è lui – ci sei tu…
Si interruppe.
Soq chiuse gli occhi. Incredibile, sentire Go esprimere questo tipo di calore, questa umanità, ma anche spaventoso, perché Soq si rendeva conto di quanto la lacerasse, di quanto fosse arrabbiata con se stessa, della guerra che stava combattendo per controllare queste emozioni. – Va tutto bene, – azzardò Soq. – Va bene preoccuparsi di qualcosa che non sia la carneficina finale.
Evitarono entrambi di guardarsi negli occhi. Li puntarono invece sugli schermi dove Martin Podlove continuava a camminare avanti e indietro, dove imperi illegali e patrimoni venivano venduti e comprati sottobanco, dove tabelle e dossier documentavano profitti e perdite. Riempiendosi i polmoni d’aria, Soq allungò la mano e afferrò quella di Go.
La boss si ritrasse. – Non mi conosci. – La sua voce era severa, sempre più fredda. – Non mi conosci per niente.
– Sicura? – disse Soq, ed eccola, la rabbia repressa per tutta la vita, la rabbia che prima d’allora non aveva mai trovato una direzione, la furia cieca che aveva generato migliaia di sogni in cui bruciare Qaanaaq, spezzarle le gambe e vedere un milione di persone congelare a morte nelle acque dell’Artico. La città non era una persona, la città non faceva altro che esistere. Go, d’altra parte, aveva fatto delle cose. Preso decisioni. Forse alcune di queste in buona fede. Forse no. E forse non importavano le intenzioni, se il risultato era terribile. Soq si alzò in piedi. – Dimmi che non ho capito niente. So come lavori. So come sei arrivata fin qui. So come tratti chi lavora per te. So che mi sbudelleresti come un pesce in un secondo senza neanche pensarci, tanto, chi cazzo sono? Hai rinunciato a me anni fa, cancellandomi, tenendomi d’occhio, trovandomi un posto, un lavoro, ma solo se me lo fossi meritato, solo se avessi passato il tuo piccolo test di personalità, se avessi scoperto che ero abbastanza feroce e senza scrupoli. E se non fossi la persona che sono, avresti continuato a ignorarmi fino al giorno della tua morte.
– Non è vero, – disse Go, e la sua voce era dura, ma di una durezza increspata, artefatta. – Ho avuto un ruolo nel farti diventare la persona che sei più grande di quanto pensi. Sono stata molto più presente nella tua vita di quanto tu sappia. Indirizzandoti; plasmandoti. Mi sono presa cura di te per tutto questo tempo. E anche di Kaev, che tu ci creda o no. Pensi che sia stato facile, impedire che si ammazzasse, per sbaglio o volontà, per dieci o vent’anni? C’era sempre qualcuno accanto a lui, un amico che pagavo o uno scagnozzo che doveva tenerlo d’occhio, tirarlo fuori da ogni situazione potenzialmente pericolosa. E ce ne sono state a decine. E sono stata io a farti avere quel lavoro da staffetta. E a pagare l’ufficio Documenti quattro o cinque volte all’anno, così che alla tua agenzia non scavassero troppo a fondo.
– Ci credo, – disse Soq, contenendo la rabbia, perché stavano succedendo troppe cose, troppe cose erano in ballo e c’era troppo poco tempo, e si rese conto che anche questo forse l’aveva preso da lei.
– Non ti parlo certo così perché penso che ti faresti problemi a uccidermi solo perché sei mia madre.
Go inarcò un sopracciglio perfetto.
Un urlo dall’alto. La nave era in posizione, alla base del Ripostiglio.
Soq inserì un’ultima sequenza sul suo schermo e lo diede a Go. – Ti parlo così perché ho qualcosa su cui so che vorresti mettere le mani. E ho delle condizioni da dettare prima di potere anche solo pensare di dartela.