Secondo la celebre sentenza con cui Pindaro apre i suoi carmi celebrativi dedicati ai vincitori delle Olimpiadi, ariston men hydor, «ottima è l’acqua». Pindaro non aveva certo in mente l’Oltretomba, quando la scrisse, ma certo è che anche in un’immaginaria cartografia dell’Aldilà degli Antichi l’elemento liquido occuperebbe una posizione di grande rilievo, e con esso si può aprire anche una descrizione dell’Ade. È spesso l’acqua, infatti, il tramite con cui raggiungere il mondo dei morti. Si tratta in effetti di una costante nell’immaginario occidentale, a partire dall’Odissea per giungere all’Isola dei morti di Arnold Böcklin, il piú celebre quadro del pittore svizzero che, per venire incontro allo straordinario successo riscontrato dalla sua creazione, che in una certa misura sembra incarnare una concezione archetipica, dal 1880 al 1886 arrivò a dipingerne ben cinque versioni – una delle quali venne acquistata, qualche decennio piú tardi, da un suo grande ammiratore che si chiamava Adolf Hitler e che la collocò nella cancelleria del Reich a Berlino.
Qual è il nome di questo confine liquido che circonda l’Aldilà? Difficile rispondere per l’Isola dei morti che, a dispetto del suo carattere atemporale e onirico, ha suscitato varie proposte di identificazione: da Pontikonisi («l’isola dei Topi») vicino a Corfú e dunque nell’Adriatico, fino all’inquietante e pittoresco Cimitero degli Inglesi a Firenze, città nella quale Böcklin viveva. Quest’ultimo è davvero un’isola dei morti, ma non circondata dall’acqua quanto, purtroppo, dal traffico incessante di Piazzale Donatello, che in un flusso ininterrotto e assordante di lamiere e gas di scarico lambisce e separa dal contesto cittadino la piccola altura punteggiata di lapidi e cipressi. Per gli Antichi, invece, a lambire il mondo dei morti può essere il caliginoso e tenebroso fiume Oceano di Omero, quello che Apuleio, nella icasticità senza tempo della fiaba, definisce (Metamorfosi VI.18) flumen mortuum, «fiume dei morti». È solo varcando la sua corrente che vivi e morti riescono a raggiungere l’Ade, la cui associazione con l’elemento liquido peraltro non termina qui. Il mito e la letteratura, infatti, hanno diviso le acque infernali in laghi, torrenti, fiumi dai nomi e dalle caratteristiche fluttuanti ma sempre evocative.
Il Tartaro, l’abisso infernale, per Platone è addirittura una sorta di cuore tenebroso, o meglio di immenso polmone, che incessantemente attira e poi riemana tutte le acque del nostro mondo, in un «brulicare di correnti» tra le quali spiccano quattro flussi maggiori, concentrici, che non arrivano mai a toccarsi. L’Oceano è il piú esterno, e poi si susseguono, in un intricato moto a spirale che sprofonda sempre piú in basso nel sottosuolo, il bollente Piriflegetonte (all’origine delle colate di lava sulla superficie della Terra), lo Stige o Cocito, l’Acheronte. Trascinati dalle correnti del Cocito e del Piriflegetonte sono, rispettivamente, omicidi e colpevoli di violenze verso i genitori, mentre nella palude formata dall’Acheronte sostano, per un tempo piú o meno lungo, le anime destinate a tornare sulla Terra sotto nuove sembianze. Si tratta, tuttavia, solo di una tra le visioni del mondo dei morti e dei suoi fiumi. Acheronte, Cocito, Stige e Flegetonte sono variamente evocati, per quanto non necessariamente in quest’ordine e con questa ubicazione, anche nel resto della tradizione, che spesso se ne serve come di una tavolozza degli orrori: basta pensare all’Oltretomba delle Puniche di Silio Italico, in cui con immaginazione barocca il Cocito racchiude vortici di sangue nero, lo Stige trasuda vapori di zolfo e l’Acheronte ribolle nientemeno che di «putredine e veleno rappreso». D’altro canto, quelli dei fiumi infernali sono contemporaneamente nomi parlanti (il primo è legato ad achos, «afflizione», Kokytos significa «lamento», Styx «orrore» e Phlegethon «bruciante») e nomi concreti, riferiti a corsi d’acqua realmente esistenti. In Campania, presso Cuma, era individuato il Flegetonte, che dava origine a sorgenti calde; in Grecia, invece, l’Acheronte e il Cocito si trovavano in Tesprozia, e lo Stige in Arcadia, dov’era identificato con l’acqua gelida che stillava dalla rupe di Nonacri. Di questo liquido si dicevano meraviglie, soprattutto che sarebbe stato letale: con esso, come ricorda Pausania, sarebbe stato avvelenato anche Alessandro Magno. Sull’acqua dello Stige infernale, la palude che costituiva il vero confine del regno dei morti e che si immaginava scandita da nove circoli o spirali, giuravano anche gli dèi, consapevoli della terribile punizione che minacciava gli spergiuri e che è ricordata da Esiodo; nella sua acqua Teti aveva immerso Achille per renderlo invulnerabile.
Una delle geografie piú fortunate e sistematiche è quella che emerge nel canto VI dell’Eneide, in cui tradizioni e visioni spesso vaghe o incoerenti sull’Aldilà e la sua geografia (basta pensare alla struttura paratattica e indistinta che sembra emergere dalle Nekyia dipinta da Polignoto a Delfi) vengono chiarite e organizzate in una struttura che avrà un’influenza immensa nel mondo occidentale. Dopo un vestibolo, in cui sono rintanate mostruose creature e personificazioni di lutti e sventure (dai Centauri alle Arpie, dai Lutti alla Guerra), e dopo un olmo ai cui rami, come altrettanti pipistrelli, stanno aggrappati i somnia vana, pronti a spiccare il volo, Enea giunge cosí all’Acheronte. Il corso melmoso di questo fiume, a sua volta, si riversa nel Cocito, dalle acque «profonde e stagnanti», che sembra a sua volta contiguo alla palude dello Stige.
I fiumi infernali dell’Eneide, peraltro, non finiscono qua. Il Flegetonte o Piriflegetonte, cui come si è visto spesso viene attribuita una corrente di fuoco, in Virgilio va a circondare le mura del Tartaro. Claudiano se lo immaginerà, personificato, come un gigante la cui «ispida barba gronda rivoli ardenti», mentre «su tutto il volto colano incendi». E infine c’è il Lete, il fiume dell’Oblio, intorno al quale si avevano concezioni estremamente differenti. Se per Aristofane costituiva una distesa di acque morte e fangose, e Claudiano parla delle sue «fetide pozze», Virgilio invece gli fa lambire dolcemente le rive verdeggianti e serene del luogo dell’Oltretomba riservato alle anime dei pii. Alle sue acque attinge chi è destinato a reincarnarsi, e con questo gesto dimentica la sua vita, o le sue vite, passate per assumere un nuovo corpo e iniziare nuovamente il ciclo dell’esistenza terrena. Come si è visto già Platone, riecheggiando concezioni orfico-pitagoriche, aveva immaginato che le anime, dopo aver attraversato la calda e arida pianura del Lete, priva di ogni albero e persino di un filo d’erba, si avventassero sull’acqua del fiume Amelete, che induceva l’oblio prima della metempsicosi (Repubblica, 621a).
Impossibile, in ogni caso, cercare di far collimare tutte le idrografie infernali. Un particolare, certo, unisce molte delle descrizioni dei fiumi dell’Aldilà: i flutti dello Stige (o dell’Acheronte) erano solcati dalla barca di Caronte, il traghettatore che, per il prezzo di una monetina, trasportava le anime nel regno delle ombre. Esistono eccezioni, però, come nell’impressionante quadro presentato, purtroppo in condizioni assai frammentarie e precarie, da un papiro riemerso nella regione egiziana del Fayum. Un personaggio innominato, forse un marito tradito, si siede presso cadaveri orrendamente suppliziati sulle «squallide rive» dell’Aldilà, e lí inizia una macabra pesca che lo porterà a recuperare dalle acque il cadavere di una donna. Probabilmente è quello dell’amata che l’aveva tradito: lo coprirà di rampogne e recriminazioni astiose e frustrate. Un’Aldilà, questo, popolato non di anime, ma di corpi esanimi e straziati: una prospettiva materialistica che non è isolata ma ricompare a esempio nella desolata distesa di scheletri evocata da Luciano in uno dei suoi Dialoghi dei morti.
La traversata della palude infernale, peraltro, non era esente da rischi. Lo sapeva bene Psiche che, nel folktale al centro (in ogni senso) delle Metamorfosi di Apuleio, per riunirsi allo sposo Amore accetta di sottostare alle dispotiche e crudeli richieste della suocera Venere, ricevendo come ultimo e piú temibile compito quello di recarsi nell’Oltretomba per ottenere un po’ della bellezza di Proserpina. La ragazza, armata solo di due monetine e di due focacce d’orzo impastate con il miele, intraprende il proprio viaggio, lungo il quale Venere ha disseminato una serie di trappole. In particolare durante la traversata dello Stige un morto emergerà dalle acque livide chiedendo di essere issato a bordo: si tratta di uno stratagemma per strappare dalle mani di Psiche almeno una delle focacce, condannandola dunque a rimanere per sempre prigioniera degli Inferi. L’immagine ripugnante del «vecchio morto», che affiora con le sue mani putride protese verso la barca del traghettatore stigio, potrebbe aver ispirato per vie dirette o indirette il Filippo Argenti di Dante, raffigurato nel canto VIII dell’Inferno mentre allunga le mani, dalla «morta gora» della palude stigia, verso la barca di Flegias, venendone bruscamente respinto da Virgilio. E la fortuna di quest’immagine potrebbe essersi spinta fino a tempi molto piú recenti, giungendo sino agli Inferi, i cadaveri rianimati dalla magia nera, immersi nelle acque oscure di un lago sotterraneo, che circondano la barchetta di Harry Potter e Albus Silente nel penultimo episodio della saga di J.K. Rowling.
Cosa si trovava poi oltre l’Acheronte, o lo Stige, percorso dalla barca di Caronte? Aristofane nelle Rane (v. 195) parla di una «Pietra dei Secchi», o «dei Disseccati», che si troverebbe al capo opposto della palude. Gli antichi commentatori discutevano se si potesse trattare di un richiamo ironico a una pietra omonima collocata ad Atene, frequentemente utilizzata come luogo di appuntamento, e cosí detta perché chi vi attendeva i ritardatari finiva per «disseccarsi», oppure di un rimando alla condizione riarsa e assetata che secondo i Greci caratterizzava i morti. Proprio per saziare la loro arsura i familiari dei defunti usavano versare libagioni sulla loro tomba, talora anche con l’ausilio di tubature di terracotta che convogliavano i liquidi all’interno del sepolcro; da questo dunque sarebbe derivato il nome dell’approdo di Caronte oltre i confini del regno di Ade.
Una volta giunti nell’Oltretomba, le testimonianze ancora una volta propongono scenari discordanti. In genere si parla di spazi ampi, destinati a contenere la massa infinita dei morti: le profonde gallerie labirintiche e claustrofobiche in cui consiste l’Oltretomba evemeristico immaginato da Eforo, situato presso l’Averno e abitato da una popolazione di sacerdoti che rifuggiva dalla luce del sole, rimangono una vistosa eccezione. Omero evoca distese caliginose coperte di asfodeli, i pallidi fiori dei morti; Virgilio oltre il «fango amorfo» e le «alghe verdastre» dell’approdo colloca l’incessante latrare di Cerbero e poi, una dopo l’altra, differenti schiere di morti, secondo uno schema che verrà ripreso e dettagliato da Dante. Nella visione ordinata dell’Eneide, dunque, dapprima si trovano i bambini scomparsi prematuramente e coloro che furono ingiustamente condannati a morte; poi i suicidi; oltre questi si stendono i Lugentes campi, i Campi Piangenti di coloro che sono morti per amore, dove Enea incontra, non senza raccapriccio e un lacerante senso di colpa, l’ombra sdegnosa di Didone. Ancora piú oltre, infine, si trovano coloro che acquistarono gloria in guerra, tra i quali i Greci e i Troiani che poco prima si erano affrontati nella piana di Ilio.
Oltre all’acqua da attraversare, un altro elemento sembra accomunare molte rappresentazioni dell’Oltretomba. Il percorso che si snoda nel regno delle ombre giunge sovente a un luogo in cui le anime sono giudicate alla presenza di uno o piú giudici infernali. L’Assioco, il dialogo falsamente attribuito a Platone che ebbe tanta fortuna nel Rinascimento, parla della Piana della Verità come sede del giudizio; spesso si accenna a una biforcazione nella strada, come nel Gorgia di Platone e nell’Eneide. Una delle due strade, quella a sinistra secondo Virgilio, conduce verso il Tartaro, l’abisso infinito della dannazione, circondato dal Flegetonte infuocato e da una triplice cerchia di mura, in cui si apre una porta ciclopica sorvegliata da una torre di ferro. Il Tartaro offre sovente il pretesto per fornire un elenco, spesso manierato e compiaciuto, di pene e peccatori: Sisifo, Tantalo, le Danaidi, Tizio compaiono, fin dall’Odissea, a comporre una sorta di galleria dei dannati illustri ai quali si affiancano le folle anonime dei colpevoli «di massa», sottoposti a tormenti non meno orripilanti, che talora ricordano in maniera inquietante le rappresentazioni medievali. Basta pensare alle scene evocate da Plutarco nei Ritardi della punizione divina, in cui le anime dei malfattori sono afferrate da daimones con molle e gettate dapprima in un lago d’oro fuso, poi in uno di piombo gelato, e infine in un terzo di ferro appuntito, per poi reiniziare da capo questo ciclo di sofferenza. Per non parlare delle anime dei discendenti di un peccatore, furibonde per le punizioni che a causa sua hanno dovuto subire in vita (non era solo il dio degli Ebrei a minacciare di rifarsi sui figli per le colpe dei padri, «fino alla terza e alla quarta generazione»!), che quando lo riconoscono nell’Aldilà gli si avvinghiano addosso rabbiose e strillanti come un nugolo di pipistrelli. Immagini finalizzate a incutere terrore, e molto efficaci, tanto da rendere il timore dell’Oltretomba e delle sue punizioni come una sorta di ipoteca capace di gravare sull’intera vita umana e di soffocarla nell’ansia: cosí, almeno, secondo la visione di Lucrezio, che con l’arma del materialismo e del razionalismo epicureo cercava di demolire la cappa plumbea delle superstizioni incentrate sull’Aldilà.
Se la strada di sinistra, nell’Oltretomba virgiliano, porta alla dannazione del Tartaro, quella di destra conduce dapprima «alle mura del grande Dite», per poi arrivare ai Campi Elisi. Prima di giungere a questo luogo di pace e serenità, è forse il caso di soffermarsi sulla prima tappa, la città infernale (altrove, come in Apuleio, si parla del palazzo del re degli Inferi) cinta dalle sue mura, che Virgilio immagina siano state forgiate dai Ciclopi. La presenza di una cerchia fortificata nell’Ade, scandita da porte possenti, è spesso evocata negli scritti degli Antichi. Nell’Assioco si parla delle «serrature e chiavistelli di ferro» che sbarrano l’accesso alla strada degli Inferi; Valerio Flacco nelle sue Argonautiche immagina due porte gemelle, una sempre aperta che inghiotte la gran massa dei morti («popoli e re»), e l’altra sprangata salvo che in circostanze rarissime, per far passare eroi di guerra e sacerdoti di inarrivabile pietà. Il concetto delle porte che conducono all’Aldilà, tuttavia, trova il suo massimo sviluppo nei versi didascalici e ridondanti di un altro poeta romano, Silio Italico, che nel suo poema dedicato alla seconda guerra punica descrive ben dieci porte che immettono nel regno dei morti, ciascuna riservata a una categoria particolare. La prima, dunque, è per i condottieri; la seconda per legislatori, statisti e fondatori di città; la terza per i contadini; la quarta per artisti e poeti; la quinta è per i naufraghi, e la sesta per i malfattori, che vengono accolti già sulla soglia dal giudice infernale Radamanto, che commina a ciascuno la pena per le scelleratezze che commise in vita. La settima è per le donne; l’ottava per i bambini e le ragazze morte prima del matrimonio. Vi è poi la porta che conduce ai Campi Elisi, e infine la decima, e ultima, sfavillante d’oro, che è l’unica a condurre fuori dall’Oltretomba: attraverso di essa, infatti, le anime salgono al cielo per ritornare, trascorse migliaia di anni, a occupare corpi mortali. Una suddivisione minuziosa e metodica che ha messo in qualche imbarazzo anche i commentatori moderni delle Puniche, che si domandano se le dieci porte siano il riflesso di una dottrina preesistente, ma che ci sfugge, o il frutto di una laboriosa sistematizzazione da parte dell’autore. Certo un’ipotesi di questo tipo ben si adatterebbe alla figura di Silio Italico, raccoglitore di cimeli letterari e, come ogni collezionista, tendente alla tassonomia. Lo dimostra l’intero impianto della discesa all’Ade di Scipione, in cui l’autore non rinuncia a investire il lettore con una carrellata di pratiche funerarie degna di un trattato etnografico e soprattutto cerca di conciliare le varie tradizioni sugli Inferi che gli giungevano dai suoi modelli, a partire da Omero e Virgilio.
Alle porte degli Inferi, e alle «serrature e chiavistelli di ferro» che le chiudono, potrebbero peraltro essere collegate alcune delle piú icastiche e inquietanti raffigurazioni dell’Aldilà che ci sono giunte dal mondo antico. Una teoria recente, infatti, ha ripreso in esame gli inquietanti martelli branditi dai demoni infernali (tra cui Charun, che nel nome richiama il greco Caronte) che campeggiano affrescati nelle tombe etrusche, in particolare in quelle di Tarquinia. I Romani li avevano recuperati nella macabra messinscena dei ludi gladiatorii, nel corso dei quali i corpi dei combattenti morti erano trascinati via da un figurante che impersonava Dite, dio dell’Oltretomba, munito di un vistoso malleus. Il martello, in queste figurazioni, non rappresenterebbe un’arma, quanto piuttosto il normale utensile utilizzato dai custodi delle grandi porte delle città antiche, che se ne sarebbero serviti per sbloccare i pesanti chiavistelli e le sbarre che chiudevano i battenti. Battenti, è bene sottolineare, che nell’Oltretomba erano destinati a tenere inesorabilmente chiusi dentro i defunti – e che, non a caso, vengono rappresentati divelti e abbattuti a terra nelle icone bizantine che rappresentano la Resurrezione, con l’uscita trionfale di Cristo dagli Inferi. L’etrusco Charun e i suoi fratelli sarebbero dunque innanzitutto i «portinai» della città infernale: un compito di grande responsabilità, soprattutto in un Oltretomba ricco di ingressi come quello immaginato da Silio Italico.
Torniamo, però, al percorso tratteggiato nell’Eneide. Passata la città di Dite, con la sua porta e le sue possenti fortificazioni, Enea giunge infine a quelli chiamati loci laeti e sedes beatae, ovvero ai Campi Elisi, la serena e verdeggiante distesa, percorsa da fiumi e ombreggiata da alberi, nella quale i morti giusti e pii trascorrono la loro esistenza oltremondana, intenti in amene attività. Tra queste Virgilio menziona espressamente un banchetto che ha luogo in un prato, presso un bosco di allori profumati: un’immagine idilliaca, parodiata da Luciano nella sua Storia vera, dove il banchetto dei Beati assume i tratti quasi fiabeschi di una sorta di paese della Cuccagna, con i convitati che, quando vanno a prendere il proprio posto, colgono un calice di vetro da uno degli alberi vicini, e dopo esserselo posto vicino, lo ritrovano istantaneamente colmo di vino.
Anche i Campi Elisi, naturalmente, forniscono l’occasione per liste e carrellate di morti illustri, come quella davvero pirotecnica di Luciano, che giungerà a intervistare lo stesso Omero. Piú posate e convenzionali, naturalmente, le gallerie di ritratti presenti nella letteratura «seria». Nell’Eneide, il nostro filo conduttore, compare anche un vero e proprio elenco di coloro che hanno diritto a risiedere in questa sorta di «resort» esclusivo all’interno dell’Aldilà: guerrieri valorosi, sacerdoti e indovini che vissero religiosamente, benefattori dell’umanità, e tutti coloro che grazie ai propri meriti si acquistarono la memoria dei posteri. Altre tradizioni collocavano le sedes beatae ai confini della Terra, in isole remote e separate dal resto del mondo abitato, e anche nell’Eneide la sensazione di trovarsi di fronte a una «enclave» separata dal resto dell’Oltretomba è accresciuta dal fatto che, stando a Virgilio, lí i defunti avrebbero goduto di un largior aether, ossia di un «cielo piú ampio», nonché di un «proprio sole e propri astri». Questa concezione è ripresa da Claudiano nel Rapimento di Proserpina dove Plutone, ansioso di consolare la disperata fanciulla che ha appena rapito per farne la sua sposa, le anticipa che nel regno dei morti potrà godere di una «luce piú pura» e dell’Elysius sol, il «Sole dei Campi Elisi». Forse anche brani come questi contribuirono, a partire dal Settecento e fino agli inizi del Novecento, allo sviluppo della bizzarra teoria, che godette di un certo seguito anche presso i romanzieri (basta pensare al Viaggio al centro della Terra di Jules Verne), secondo cui il nostro pianeta sarebbe stato cavo. Il suo interno, accessibile da grandi cavità situate in prossimità dei poli, sarebbe stato addirittura abitabile e illuminato da gas luminescenti, se non addirittura da una sorta di sole in miniatura.
Certo è che il sole dell’Aldilà menzionato da Virgilio, che oggi si ritiene possa costituire una reminiscenza orfico-pitagorica, costituí un problema anche per i suoi antichi commentatori. Servio, vissuto agli inizi del V secolo, giunse a ipotizzare nei suoi Commentarii a Virgilio che in realtà nell’Eneide si alludesse alla tradizione secondo cui la sede dei Beati sarebbe stata la Luna: proprio all’orbita del satellite farebbe riferimento il richiamo al «cielo piú ampio». E in effetti nell’Antichità non mancano paralleli, a partire dalla visione presente nel Demone di Socrate di Plutarco, dove lo Stige è identificato con la Terra stessa, vista come «una grande voragine tondeggiante, come una sfera tagliata a metà, terribilmente spaventosa e profonda» da cui provengono «infiniti ululati e gemiti di animali, il pianto di infiniti bambini e i lamenti confusi di uomini e donne». Esattamente una volta ogni centosettantasette giorni, continua Plutarco, lo Stige si solleva e giunge a toccare la Luna: si tratta di una chiara allusione alle eclissi del nostro satellite, che hanno luogo secondo un ciclo costituito da sei fasi lunari, corrispondenti precisamente a centosettantasette giorni. Quando il disco della Luna viene toccato dall’ombra degli Inferi, continua Plutarco, le anime di coloro che sono recentemente trapassati cercano di arrampicarvisi sopra a nuoto, ma solo quelle pure vi riescono, mentre le altre sono respinte e ripiombano giú, «trascinate verso un’altra nascita» in questa valle di lacrime.
Anche l’Aldilà, peraltro, ha un termine e un’uscita: occorre ancora una volta tornare a Virgilio, la piú limpida guida degli Inferi, e non solo per Dante. Al termine del suo percorso, dopo il commovente incontro con l’anima sfortunata del lontano discendente Marcello, Enea giunge infine alle «duplici porte del Sonno», una di corno e l’altra di avorio: la prima riservata all’uscita dei sogni veritieri, la seconda destinata al passaggio delle ombre fallaci. Sarà da quest’ultima che il condottiero troiano risalirà alla superficie, pronto ormai a guidare i Troiani nel Lazio; ma quel che piú conta è qui l’associazione tra sogni e mondo dei morti, fondata sull’esperienza universale di visioni notturne di persone ormai scomparse che con la loro apparizione turbano o rallegrano per qualche istante il sonno dei vivi. Anche le descrizioni che collocavano l’Aldilà negli spazi siderali contemplavano, non a caso, un luogo deputato ai sogni. Nella narrazione di Tespesio, in cui culmina il trattato di Plutarco sui Ritardi della punizione divina, nel cielo compare a un tratto «una profonda voragine che si apriva nello spazio circostante», presso la quale sedevano tre demoni intenti a temperare e mescolare flussi e correnti variegate che scorrevano nell’etere. Si trattava dell’«oracolo comune della Notte e della Luna, che non è limitato a nessun luogo della Terra né ha un’unica sede, ma vaga ovunque tra gli uomini in sogni e apparizioni» in cui verità e menzogna sono variamente mescolati. E questo oracolo dei sogni collocato nell’Aldilà, al quale attingono tutti gli uomini, è davvero l’unica voce profetica che ci parla ininterrottamente dall’Antichità a oggi.
La corte dell’Invisibile: gli abitanti dell’Ade.
In quella che, a dispetto degli oltre cent’anni di vita (o forse proprio per quello) rimane l’opera di referenza piú articolata e autorevole per la mitologia classica, il monumentale Ausführliches Lexikon der griechischen und römischen Mythologie curato a partire dal 1884 da Wilhelm Heinrich Roscher, sotto la voce «Hades» si susseguono ben trentacinque fitte colonne di dati, citazioni, riflessioni e richiami iconografici riguardanti Ade in persona, la divinità da cui prendevano il nome gli Inferi – senza contare che voci a sé stanti sono dedicate ad altre denominazioni greche e latine del dio della morte, come «Dis Pater» e «Pluton». Tutto questo per dire che in queste poche pagine sarebbe impossibile fornire una panoramica, con pretese seppur minime di completezza, sulle figure che popolano l’Aldilà degli Antichi. Ciò però non impedisce di tracciare un ritratto rapido, anche se forse un po’ impressionistico, sui principali protagonisti infernali delle narrazioni contenute in questo volume.
Al primo posto, naturalmente, si colloca il re dell’Oltretomba. Per i Greci era Ade (da loro, e anche da molti studiosi moderni, interpretato etimologicamente come «invisibile»), o anche Plutone, «il Ricco», custode di tesori sotterranei. Per i Romani poteva essere Dite (o meglio Dis Pater, letteralmente «Padre Ricco») oppure Orcus, con un termine utilizzato anche per indicare gli Inferi come luogo, e poi sopravvissuto nell’italiano «orco», degradazione a spauracchio infantile di un’antica divinità. Non è chiaro cosa si collochi alle origini di Orcus, perlomeno dal punto di vista etimologico: forse questo termine è imparentato con parole come orca e urceus («orcio») o il greco hyrche («giara, orcio»). Cosa lega un recipiente di terracotta all’Aldilà? Probabilmente la concezione secondo cui il regno dei morti era come un vorace contenitore di anime (l’appetito è un tratto congenito anche dell’orco delle fiabe…), dotato di un’unica imboccatura, per giunta stretta, che non lasciava fuggire nessuno di coloro che entravano.
Che fosse l’Invisibile, il Ricco, o una sorta di Divoratore, si pensava in ogni caso che Ade fosse fratello di Zeus: non a caso a volte si parlava di «Zeus infernale», come fa Eschilo in un frammento dei perduti Psicagoghi. Nell’iconografia i due in effetti erano estremamente simili, con la differenza che il signore dell’Aldilà, rispetto al fratello che governava l’Olimpo, era rappresentato con un’espressione piú cupa e accigliata: «terribile e oscuramente maestoso» nelle parole del poeta Claudiano, che lo descrive avvolto da una nube di tristezza. Una particolarità, questa, espressa in maniera icastica da Seneca, che parlando di Dite asserisce (Ercole furioso, vv. 724-25): vultus est illi Iovis, sed fulminantis, «ha il volto di Giove – ma quando è in procinto di scagliare fulmini». Uno dei motivi dell’espressione corrucciata di Ade era ben noto. Si trattava del risentimento, spesso affiorante nei testi che lo riguardano (vedi i brani di Claudiano e Stazio), per il fatale sorteggio in cui i tre fratelli figli di Crono si erano spartiti l’universo: a Zeus era toccato il cielo, a Posidone il mare e a Ade la porzione meno attraente, l’oscuro e freddo regno dei morti.
Quasi in una sorta di esilio, Plutone viveva in questa squallida landa senza immischiarsi degli affari dei viventi che, salvo qualche notevole eccezione (come quelle di Orfeo, Eracle, Teseo), ricambiavano il favore e cercavano di tenersene il piú possibile lontani, quasi non tributandogli alcun culto. L’unico mito in cui Ade ha il ruolo di protagonista è quello, trattato tra l’altro nell’Inno omerico a Demetra e nel Rapimento di Proserpina di Claudiano, in cui con il consenso di Zeus rapisce Persefone, la figlia di Demetra, per farne la sua sposa. La convivenza non sarebbe stata semplice (com’è noto alla fine Demetra ottenne che la figlia vivesse con lei per la metà o due terzi dell’anno, per poi tornare presso il marito nell’Oltretomba), ma da allora in poi la regina degli Inferi sarebbe stata Persefone, che i Romani chiamavano Proserpina. La timida ragazza strappata ai prati fioriti della Sicilia, peraltro, dopo essere divenuta première dame degli Inferi aveva indurito il proprio carattere: Apuleio la rappresenta come una subdola complice di Venere nel tentativo di sbarazzarsi di Psiche, inviata in missione nell’Ade dalla terribile suocera.
Ade e Persefone non avevano figli, ma l’Oltretomba non era per questo meno affollato di abitanti mitici. In primo luogo occorre annoverare coloro che avevano il compito di condurre le anime oltre le acque (dello Stige o dell’Acheronte) che circondavano il mondo dei morti. Una tradizione presente già nell’Odissea indicava in Ermes lo psicopompo, ovvero «Colui che scorta le anime»; la figura piú nota era però senz’altro quella di Caronte, il traghettatore, al quale erano destinate le monetine poste nella bocca dei defunti al momento della sepoltura. Il suo ritratto piú celebre, dal quale deriva recta via il dantesco «Caròn dimonio dagli occhi di bragia», è quello dell’Eneide di Virgilio, nel quale è raffigurato come un vecchio «di squallore terribile», dalla barba bianca e incolta, vestito di stracci, «con gli occhi di fiamma». Già in precedenza si è trattato delle attestazioni di Caronte come Charun nella concezione etrusca dell’Aldilà, anche dal punto di vista iconografico; si può ricordare che questa figura, tra tutte quelle di cui i Greci popolavano l’Ade, è probabilmente quella piú longeva. Con il passare del tempo, tuttavia, ha perso il suo ruolo di traghettatore: già in alcuni epigrammi funerari ci si lamentava che Caronte, nella sua insaziabilità, avesse rapito prematuramente alcuni giovani, e questo non fu che il preludio alla sua evoluzione medievale e moderna.
Nel folklore greco fino ai nostri giorni, infatti, Charos o Charondas, com’è chiamato, corrisponde in tutto e per tutto alla Morte che strappa l’anima agli uomini per portarla nell’Oltretomba, concepito come una sorta di carcere di cui Caronte custodisce gelosamente le chiavi. Nei canti e nelle tradizioni raccolte dai folkloristi tra Ottocento e Novecento, Charos è descritto come di colore fosco; si sposta su un cavallo nero; talora ha una moglie (o madre) chiamata Charontissa o Charissa. Spesso Caronte utilizza, letteralmente, i morti per abbellire il suo palazzo sotterraneo, nel quale caso rapisce i giovani piú robusti per usarli come colonne; se vuole crearsi una nuova tenda, usa le braccia degli eroi piú forti come picchetti e le trecce delle fanciulle piú belle come corde; se è in vena di vendemmiare, pesta gli uomini nel suo tino per utilizzarne il sangue come mosto; se vuole mietere, falcia le vite di chi incontra – per non parlare di un macabro canto, trascritto a Itaca nell’Ottocento, che descrive la tavola imbandita per Charontas e Charontissa, la sua sposa, dove i piatti sono rovesciati, i tovaglioli neri, la tavola è piena di teste di bambini piccoli e i due utilizzano come posate le mani dei morti.
Nei testi antichi, tuttavia, Caronte è ancora un semplice, per quanto inquietante, traghettatore sulle livide acque dello Stige o dell’Acheronte. Una volta varcata la palude infernale, le anime passavano davanti a Cerbero, il cane a tre teste incaricato di sorvegliare i morti (per non farli fuggire) e i vivi (per non farli entrare e, all’occorrenza, nemmeno uscire). In quest’ultimo caso, tuttavia, non era difficilissimo ammansire la belva, che aveva un debole per offe e dolci al miele che spesso, e non casualmente, erano alla base delle offerte funebri per i defunti. Focacce al miele, del resto, costituivano il bagaglio anche di chi si recava a consultare l’oracolo di Trofonio, una terribile esperienza di premorte raccontata vividamente da Pausania.
I trapassati poi erano sottoposti al giudizio: talora era lo stesso Plutone a valutare i meriti e le colpe delle anime (cosí nelle rappresentazioni di Silio Italico e Stazio), ma piú spesso si riteneva che vi fossero uno o piú giudici infernali, severissimi e inflessibili, che già in vita si erano segnalati come estremamente giusti e incorruttibili. I testi menzionano Radamanto di Creta, in particolare, e poi suo fratello Minosse ed Eaco (già re di Egina), con giurisdizioni e compiti che tendevano a sovrapporsi e confondersi nei diversi autori. Se nel Gorgia di Platone, infatti, Minosse funge da giudice supremo ed Eaco e Radamanto sono incaricati rispettivamente di valutare Europei e Asiatici, per altri Radamanto governava le isole dei Beati (per esempio nella parodia di Luciano); nell’Eneide Minosse riesamina i casi di coloro che sono stati condannati ingiustamente a morte, mentre Radamanto è incaricato di giudicare le anime malvagie.
Per infliggere le pene alle anime trovate colpevoli, i giudici infernali potevano contare su una sorta di braccio secolare di tutto rispetto: le Erinni, che i Romani conoscevano come Furie; le Pene, soprattutto, personificazione dei castighi, tratteggiate in termini estremamente spiacevoli, mentre sghignazzano di fronte ai tormenti che infliggono alle anime o circondate da cadaveri di suppliziati, nell’Assioco falsamente attribuito a Platone o nel già citato, ed enigmatico, frammento poetico tramandato da un papiro scoperto nel Fayum, in Egitto. A queste figure quasi specializzate di giustizieri e punitori se ne sommavano altre dal ruolo piú indistinto, tra carcerieri, guardiani, e generiche mostruosità prodottesi quasi per generazione spontanea nelle caverne oscure, percorse da miasmi e muffa, dell’Oltretomba. Se Esiodo nella Teogonia cita il Sonno e la Morte – quest’ultima tratteggiata come odioso e spietato demone anche nell’Alcesti di Euripide –, Aristofane nelle Rane descrive Empusa, un demone della notte in grado di mutare vorticosamente forma, passando dalle fattezze di una bella donna a quelle di un bue, di un mulo, e infine di un cane… Nelle Rane l’incontro tra Dioniso ed Empusa si risolve con un grande spavento e una battuta, ma stando a quella sorta di agiografia pagana che è la Vita di Apollonio di Tiana (IV.5) – la biografia di un taumaturgo in odore di pitagorismo vissuto nel I secolo d.C. scritta da Filostrato per venire incontro agli interessi misticheggianti della sua protettrice, l’imperatrice Giulia Domna – Empusa poteva risultare veramente pericolosa. Apollonio l’aveva infatti smascherata a Corinto mentre, sotto le sembianze di una bella fenicia, aveva sedotto un suo giovane discepolo con lo scopo dichiarato di divorarlo dopo averlo «saziato di piaceri»: si tratta, insomma, di un demone antropofago, cosí come l’orribile Eurinomo che campeggiava nel già citato affresco di Polignoto nella lesche degli Cnidi a Delfi. Gli archeologi hanno individuato e scavato i resti di questo edificio, ma purtroppo nulla si è conservato dei dipinti, che raffiguravano la presa di Troia e l’episodio omerico della discesa all’Ade di Odisseo. Li conosciamo nei dettagli, tuttavia, grazie alla minuziosa descrizione (ekphrasis) che ne fa Pausania, il quale ricorda come a spiegare la scena ai visitatori provvedessero anche le guide (exegetai) di Delfi, che si diffondevano su alcuni particolari poco noti, privi di corrispondenze con il testo omerico. Tra tutti spiccava proprio l’inquietante figura di Eurinomo, «uno dei demoni dell’Ade che divora le carni dei morti, lasciando loro solo le ossa», caratterizzato dai denti in bella vista, dalla pelle di avvoltoio gettata tra i piedi, e soprattutto dal colore della pelle «a metà fra il blu e il nero, simile a quelle mosche che mangiano la carne». In questo caso, ad aiutarci a immaginare come apparisse questa creatura sono ancora una volta gli affreschi delle tombe etrusche, dove spesso compaiono demoni arcigni dalla pelle bluastra, probabilmente un’allusione al cosiddetto livor mortis, l’incarnato livido dei cadaveri.
Personificazioni e mostri di ogni genere (gorgoni, arpie, chimere, centauri…) compaiono anche nell’Eneide, e a questi Silio Italico aggiunge avvoltoi e uccelli notturni, come gufi e «strigi» dalle penne grondanti sangue, che hanno nidificato su un grande tasso, albero frequentemente associato all’Oltretomba. La descrizione piú bella della fauna dell’Oltretomba, tuttavia, si deve a Claudiano, uno degli ultimi grandi poeti latini, che nel Rapimento di Proserpina evoca i quattro cavalli neri aggiogati al carro di Plutone, destrieri mostruosi, dalle briglie intrise di sangue, dal respiro mortifero e dalla bava infetta, che goccia a terra guastando il suolo. I loro stessi nomi incutono terrore: Orfneo, «Tenebroso», Ctonio, «Infernale», Nitteo, «Notturno», e infine Alastore, «Punitore». Eppure anche questi cavalli spaventosi, una volta emersi in un fragore di tuono dalle viscere della terra nelle distese luminose e fiorite della Sicilia, rimarranno smarriti – benché solo per un attimo – di fronte alla luce del sole, tanto diversa dalla caligine e dall’oscurità eterna cui sono abituati (Erebos, «Oscurità», era un altro nome degli Inferi). A ricordarci, forse, che per i morti non c’è nulla di cosí spaventevole come il mondo dei vivi.Velique laut plam ex explabore cor as adi cones entotatibus sus unt resed quaestem et explis utatio. Apelit quo in consequi tem di qui nis in con et am qui rent est, sitium sam quidis vid escimust, nita se nulpa quiderunt hillaut aut lis voloris vite suntur?
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