Rapimento, o la chiamata a essere qualcuno

Umilmente domando se la felicità dei popoli si può dare senza la felicità degli individui.

Lettera a Pietro Giordani, 24 luglio 1828

Caro Giacomo,

un antico proverbio dice che “un seme nascosto nel cuore di una mela è un frutteto invisibile”. Per saper vedere le cose racchiuse nel seme, però, ci vuole un senso speciale, il senso dell’originalità: niente di eccentrico e straordinario, è la pura e semplice consapevolezza dell’origine, che ci permette di intuire per che cosa siamo al mondo. Ma il suo manifestarsi è così piccolo che occorre prestare un’attenzione assoluta, perché questa origine ci raggiunga. Ognuno nella vita ha almeno un minuto di nitida chiarezza, luce e gioia d’essere al mondo come portatore di una novità irreplicabile. Questo è l’inizio della felicità, mi hai detto: come possibilità da abitare e far fiorire.

Sono pochi ed essenziali i momenti di rapimento nella vita di un uomo e, in quegli istanti, passato, presente e futuro diventano all’improvviso compresenti, come un seme in cui simultaneamente si riescano a scorgere l’albero da cui proviene, l’albero che genererà e tutte le stagioni in mezzo. Questo senso di ampliamento e contrazione del tempo, cristallizzazione e apertura, è rapimento, contatto con la propria origine e quindi originalità.

È come quando pensiamo, della persona di cui ci siamo innamorati, “mi sembra di conoscerti da sempre” e “voglio stare con te per sempre”. Quando accade, ci sentiamo chiamati a una felicità duratura, non effimera: non siamo più anonimi, finalmente possediamo un nome proprio, che nessun altro può avere.

Per questo, Giacomo, non comincio a raccontare la tua vita dal giorno in cui nascesti, o dalla tua infanzia, come giustamente fanno gli storici, perché i romanzieri hanno un’altra percezione del tempo. Chi narra sa che il tempo ruota attorno a un nucleo, una sorgente, che non è l’inizio, è semplicemente il centro, in relazione al quale il prima è preparazione e il dopo affermazione. Una biografia assomiglia a una linea, ma una vita assomiglia a una spirale, il centro rimane nella stessa posizione e i minuti gli si arrotolano attorno, ora più vicini ora più lontani, in base alla fedeltà alla propria originalità. Quel centro è il rapimento e l’adolescenza ne è lo scrigno.

Proprio in questi termini, quando avevi diciotto anni, tu mi hai descritto il tuo rapimento. Quattro anni prima tuo padre ti aveva dischiuso le meraviglie della sua biblioteca, che gli era costata dieci anni di lavoro e che aveva generosamente messo a disposizione della gente di Recanati e dintorni. Ti immagino seduto allo scrittoio dal quale volevi conquistare l’amore dei tuoi genitori, soprattutto di tuo padre. Piegato alla luce di una candela e con una coperta sulle spalle nei mesi più freddi, guardavi attraverso pagine capaci di raccontare mondi altrimenti inaccessibili dalle vie del borgo natio, come fanno oggi gli adolescenti con la rete.

Come tutti i ragazzi cercavi distrazione dalla noia di giornate tutte uguali e i libri erano l’unica risorsa a disposizione tra quelle mura. Nei libri cercavi la formula per essere felice, come se la felicità fosse una scienza, scavavi tra le pagine come un ragazzino che tenta di dissotterrare il tesoro seguendo gli indizi contenuti nella mappa. E il tesoro arrivò, ma in modo inaspettato, forse proprio per salvarti da quegli anni che ti procurarono un corpo inadatto a respirare bene.

A diciott’anni avvenne qualcosa di imprevedibile: il destino entrò dalle esili pareti del tuo corpo. Avevi voluto conoscere il mondo attraverso una biblioteca e la vita ti richiamò fuori da quelle stanze, in un libro diverso, fatto dalla natura.

Mi piace rileggere le parole che mi hai scritto per descrivere la luce della tua chiamata, fuori dalla biblioteca:

Quando io vedo la natura in questi luoghi che veramente sono ameni (unica cosa buona che abbia la mia patria) e in questi tempi spezialmente, mi sento così trasportare fuor di me stesso, che mi parrebbe di far peccato mortale a non curarmene, e a lasciar passare questo ardore di gioventù, e a voler divenire buon prosatore, e aspettare una ventina d’anni per darmi alla poesia.

(Lettera a Pietro Giordani, 30 aprile 1817)

Queste righe, rivolte a uno degli intellettuali più noti del tuo tempo, a cui avevi scritto proprio per chiedergli consiglio sul tuo futuro, sono la testimonianza del tuo minuto di rapimento, quel contatto vitale con la realtà che ci fa entrare in risonanza come un diapason, fino a capire che quella è la nostra tonalità, che quello spazio è casa nostra, che è lì che vorremmo abitare, perché è lì che ci sentiamo a casa, ovunque nel mondo. Le tue parole, Giacomo, mi hanno fatto capire dove comincia tutto.

Quel rapimento ti portava a rispondere a Giordani – che ti consigliava di dedicarti prima alla tecnica della prosa – che non eri disposto ad aspettare, perché la meraviglia viene prima della tecnica e ne è la causa, e non viceversa. La meraviglia costringe la bocca ad aprirsi e le braccia ad abbandonarsi, e solo dopo mette in movimento parole e azioni.

Non voglio già dire che secondo me, se la natura ti chiama alla poesia, tu abbi a seguitarla senza curarti d’altro, anzi ho per certissimo ed evidentissimo che la poesia vuole infinito studio e fatica, e che l’arte poetica è tanto profonda che come più vi si va innanzi più si conosce che la perfezione sta in un luogo al quale da principio né pure si pensava. Solo mi pare che l’arte non debba affogare la natura e quell’andare per gradi e voler prima essere buon prosatore e poi poeta, mi par che sia contro la natura la quale anzi prima ti fa poeta e poi col raffreddarsi dell’età ti concede la maturità e posatezza necessaria alla prosa.

(Lettera a Pietro Giordani, 30 aprile 1817)

Un adolescente senza meraviglia è un adolescente senza rapimento, come un’arte senza meraviglia è tecnica fredda o provocazione effimera. Quando ci si meraviglia appare uno splendore ancora impreciso, che spinge la nostra attenzione ad andare oltre. Meravigliarsi è, infatti, come presentire o intravvedere un’intera storia in un primo sguardo quando ci si innamora.

L’adolescenza, indipendentemente dai suoi mutevoli confini anagrafici, ha come scopo, Giacomo, questo seme di futuro, questo fuoco che rende lottatori temprati, seppur fragili. Raggiunta la profondità originaria, comincia a zampillare la fonte dell’agire ispirato, tutto il resto è una mascherata, un’imitazione, un contagio effimero. Se non si scava e non la si scova, la ricerca si protrae indefinitamente. Ciò che cerchiamo è già in noi, ma non è attivato per mancanza di contatto con la realtà, e finché non lo troviamo restiamo prigionieri dei due principi che dettano il copione nell’infanzia e nell’adolescenza: il principio di piacere e il principio dell’obbligo, motori che ci spingono ad agire per un dettato esterno e non per un fiorire interno, capace di tutto integrare. La parola “rapimento” in latino si usava per descrivere la corrente di un fiume che tutto assume e supera, per arrivare al mare. Senza essere rapiti, non solo non si arriva al mare, ma si scivola nel sonno o si fugge nel sogno.

Spesso ti capitava di non sentirti all’altezza di quella chiamata, sperimentando l’inadeguatezza che ci prende tutti di fronte alla grandezza di un rapimento rispetto alle nostre reali capacità, la “scontentezza nel provare le sensazioni destatemi dalla vista della campagna, come per non poter andare più addentro e gustar più, non parendomi mai quello il fondo, oltre a non saperlo esprimere” (Ricordi d’infanzia e di adolescenza). Ma ricacciasti la tentazione di pensare che fosse stata solo un’illusione, come fa chi ha troppa paura di costruire una casa fondata sulle stelle. Non solo non potevi abbandonare quel frammento di mondo che ti era stato affidato, ma non potevi abbandonare noi che l’avremmo potuto ricevere in regalo dalle tue parole. Prendersi cura è il fine del rapimento, come quando ci innamoriamo e ci viene affidata una persona. I latini per “curare” usavano la parola colere da cui cultum, da cui il termine “cultura” (l’agricoltura non era altro che il prendersi cura del campo). La cultura non ha nulla a che fare con il consumare oggetti culturali: ci si illude che consumando più libri, più musica, più quadri, si acquisirà più cultura. Conosco persone che consumano tantissimi oggetti culturali, però questo non le rende più umane, anzi spesso finiscono con il sentirsi superiori agli altri. Cultura vuol dire stare nel campo, farlo fiorire, a costo di sudore. Significa conoscere la consistenza dei semi, i solchi della terra, i tempi e le stagioni dell’umano e occuparsene perché tutto dia frutto a tempo opportuno. Nella cultura ci sono il realismo del passato e del futuro e la lentezza del presente, cosa che il consumo non conosce: esso vuole rapidità e immediatezza, non contempla la passione e la pazienza.

Il mondo doveva sapere il prezioso e fragile segreto che avevi scoperto in una semplice primavera, in un semplice cielo notturno dominato dalla luna e dalle stelle. Così fa qualsiasi innamorato: non parla d’altro che del suo amore. Infatti per rinnovare il tuo rapimento regolarmente ti affacciavi nella notte dal tuo scrittoio, dopo aver spento la candela, e non appena la vista si abituava a quella luminosa oscurità sentivi lo spazio e il tempo entrare dentro di te: cominciavi a contare le stelle del cielo, che ai tuoi tempi non era ancora inquinato da altre luci, mentre una brezza calma spirava dal mare nella campagna recanatese e ti accarezzava il volto, e percepivi che quell’infinito era la tua casa. Da te ho imparato, Giacomo, come si guardano le stelle da una finestra mentre il mare, specchio del purissimo azzurro del cielo, respira infaticabile e tranquillo. Da te ho imparato come ci si meraviglia, sovrastati dalle cose non fatte dall’uomo che ispirano quelle che l’uomo può fare. Da subito avevi intuito che la vita va dal meno al più, bastava guardare il fiorire dei semi in primavera: il poeta sa che il futuro delle cose è celato già nella loro origine.