Caro Giacomo,
tu mi hai mostrato l’essenza dell’adolescenza, raccontandomi la tua. Mi hai fatto conoscere il coraggio che ci vuole per acconsentire al fatto di essere nati, per accordare consenso all’assoluto involontario di essere qui, soprattutto quando se ne vive la fragilità. Il coraggio di avere un destino e farsene carico, cioè cogliere se e per cosa valga la pena vivere. Mi hai spiegato che questo consenso non si accorda in un istante, come per il rapimento, ma richiede la pazienza delle stagioni: è arte che si impara in una vita intera.
È necessario lasciarsi prendere dall’eccesso di speranza che caratterizza questa tappa, e che spesso gli adulti minimizzano o criticano.
Infatti quella speranza a volte i ragazzi la perdono a causa di noi adulti. Hanno paura perché non riescono a vivere i loro sedici, diciassette anni nel modo in cui dici tu, Giacomo, con “certa e tranquilla speranza”. Vivono immersi in narrazioni disperanti che hanno la meglio sulla realtà, sull’esplorazione del possibile, perché spesso chi dovrebbe testimoniare il futuro è privo di destino: provoca vocazioni solo chi ha trovato e vive la propria. In questi anni di insegnamento e incontri, ho visto ragazzi già annoiati, stanchi, corrosi dalla monotonia, arrugginiti, dagli occhi spenti, quasi vecchi. Non la maggioranza, ma c’erano. Ma tu mi hai insegnato che serve poco per ravvivare quel fuoco nascosto tra la cenere: basta, per esempio, citare le parole di un poeta, di uno scrittore, magari proprio le tue, per scoprire ciò che dà consistenza alle speranze, ciò che rende reale l’invisibile: l’invisibile della statua nell’idea, dell’albero nel seme, della cattedrale nello schizzo, dell’amore in un primo sguardo.
Mi hanno colpito le parole di una studentessa di quindici anni che attraversava un momento di particolare fragilità e alla quale avevo prestato un libro adatto alla situazione, il diario di Etty Hillesum, una ragazza ebrea che racconta la sua maturazione a contatto con l’orrore nazista, che le spezzerà il corpo ma non lo spirito. Etty trasforma ogni cosa in vita, perché ogni cosa nell’interiorità, in particolare in quella femminile, può diventare vita feconda. Trasforma in vita persino la sua morte, chiudendo il diario con una frase che porto scolpita nel cuore e nella testa: “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”. Dopo aver letto il libro, quella ragazza mi ha scritto: “Volevo ringraziarla per avermi prestato un libro tanto prezioso: se prima mi limitavo a vedere il bianco e il nero nella vita, ora le sfumature fanno parte di me. Certo mi è impossibile non vedere, di tanto in tanto, cose che mi rattristano, ma non oso più incolpare la vita di questo, non la considero più ingiusta o cattiva. Semplicemente vivo le situazioni spiacevoli e affido a Dio il mio dolore. Etty è così simile a me che leggendo per la prima volta le sue parole mi sono sentita finalmente Bene (con la B maiuscola), era come se quelle parole fossero lo specchio dei miei pensieri. Ho segnato su un quaderno quasi ogni frase che mi è sembrata vicina a me e a ciò che sto provando in questo momento ed è stato liberatorio, come ammettere che quel dolore c’è e che anche qualcun altro lo ha vissuto. Etty e io siamo così vicine che avrei tanto voluto parlarle, dirle proprio quelle cose che io vorrei sentirmi dire. Mi ha insegnato molto, con la sua giovane irrequietezza, forza, fede, ma soprattutto con il suo amore inarrestabile per la vita”.
Ancora una volta la lettura aveva creato uno spazio e un tempo in cui gli uomini si incontrano, costruiscono legami e trovano le parole per definire se stessi, soprattutto nei momenti di passaggio. L’uomo, oltre a essere, è divenire, e l’adolescenza è divenire più di ogni altra tappa. E la si vive appieno proprio attraversando fino in fondo la crisi che la riempie di interrogativi.
Vengo tempestato di domande, sia come insegnante sia come scrittore, e in questi anni le sto raccogliendo per generi e argomenti. Che cosa mi chiedono i ragazzi?
Come si fa a vivere, come si fa a sognare, come si fa ad amare, come si fa a trovare Dio, come si fa a trovare la propria strada, come si fa a non soccombere di fronte al dolore… Così mi sono convinto che gli adolescenti non hanno domande: sono domande. Riformulano con i loro silenzi gli stessi “perché” reiterati tipici dei bambini, ma su un piano diverso: il bambino chiede come mai ci sono le stelle, l’adolescente chiede come ci si arriva, perché la speranza è desiderio (de-sidera, distanza dalle stelle), la sua mancanza è un disastro (dis-astro, assenza di stelle).
Ricordo ancora con grande malinconia una chiacchierata con una diciassettenne. Ero in una città per la presentazione del mio secondo romanzo. Alla fine dell’incontro una donna mi si è avvicinata e mi ha detto che questa studentessa non aveva potuto partecipare, benché ci tenesse tanto, perché era ricoverata in ospedale. Soffriva di anoressia ed era un momento molto delicato. Quella donna mi chiedeva di andare a trovarla. Andammo subito.
Minuta, fragilissima, aveva due occhi non del tutto spenti e ancora pieni di possibilità, nelle quali però non credeva più. Non mi permetteva di parlarle di speranza, di futuro, di bellezza. Non credeva in tutte quelle cose per cui era fatta la sua età e per questo era lì, ricoverata, a rischio della vita, spirito abbattuto in un corpo di farfalla. Ho sentito davanti a me un muro invalicabile, il cuore di quella ragazza si era rintanato da qualche parte, in un’oscurità che nessuna luce riusciva a raggiungere. Allora sono rimasto un po’ in silenzio con lei e poi le ho raccontato dei miei progetti e dei miei sogni, e di qualche brutta figura per farla ridere. Ci siamo salutati con un abbraccio e le ho detto semplicemente che nessuno avrebbe potuto prendere il suo posto, che ciò che al mondo poteva fare, poteva farlo solo lei, e che lei era stata un dono per me, in quei pochi minuti. Una lacrima le ha inumidito la guancia, quasi si concedesse un lusso. Non ho saputo più nulla, ma spero che quella timida lacrima fosse il segno di una speranza, di un nodo che cominciava a sciogliersi.
Ho ricevuto tante lettere di ragazzi distrutti da insegnanti capaci di dire a un esame andato male: “Non sarai mai buono a fare nulla”, o davanti a una classe numerosa il primo giorno di scuola: “Siete troppi, vi diminuiremo”. Ragazzi poi riaccesi e salvati da altri, che hanno fatto emergere qualità prima insospettabili. Mi ricordo di una ragazza, delusa dalle lezioni di una sua professoressa, che durante l’intervallo faceva un corso di italiano in corridoio con l’insegnante di un’altra sezione, che rimaneva lì, disponibile a quesiti e curiosità. E lei amava l’italiano più di ogni altra materia proprio grazie a quelle lezioni da corridoio. O ancora di quel ragazzo, precipitato in un gorgo di noia e senso di inutilità, che, spronato da un insegnante a dedicarsi agli altri, il giorno in cui entrò in un centro per bambini cerebrolesi sentì rinascere in sé la vita, di cui per la prima volta comprese la fragilità e preziosità.
Anche tu, Giacomo, invocavi l’aiuto di qualcuno che sapesse accogliere quel tuo modo di essere e lo guidasse. Qualcuno che ti amasse così com’eri e ti permettesse di riceverti come neanche tu eri capace di fare con te stesso. Non ti bastava una biblioteca per essere felice (così come oggi non basta la rete, anche se sembra contenere il mondo intero), per questo cercavi amori e amicizie, come fa ogni adolescente. Ma i primi furono solo sogni impossibili, quasi gesti muti lanciati a ragazze di famiglie che gravitavano attorno alla vostra – come Maria e Teresa, che sarebbero diventate la tua Nerina e la tua Silvia – o a donne mature e di bellezza prorompente, come la contessa Lazzari. Amori in cui desiderio e immaginazione facevano tutto. Le amicizie, invece, ti sembrarono l’unico modo di dare seguito ai tuoi desideri, perché ti avrebbero aperto le porte alla repubblica delle lettere e quindi alla celebrità. Per questo cominciasti a scrivere agli intellettuali di spicco del tempo, e grande fu la tua sorpresa quando Pietro Giordani prese sul serio il tuo talento e la tua solitudine. Dopo un’adolescenza passata in compagnia dei nomi sul frontespizio dei libri, il richiamo della realtà si faceva forte. I tuoi genitori, Monaldo e Adelaide, non erano riusciti a comprendere la tua fragilità e gioivano nel vederti immerso nei tuoi studi, perché era ciò che doveva fare il primogenito di casa Leopardi, senza cogliere che era altro quello che cercavi. Ti mancava l’affetto, il calore, ti mancava quello di cui ogni adolescente ha più bisogno: sentirsi amato.
“Il tuo cuore agitato, sente sempre una gran mancanza, un non so che di meno di quello che sperava, un desiderio di qualche cosa anzi di molto di più” (Zibaldone, 27 giugno 1820). C’è sempre una gran mancanza nel cuore dell’uomo, e ancor più in quello di un adolescente che si è sentito poco amato.
Solo esperti del cuore umano, i maestri, possono curare e guidare un cuore acceso senza che si ripieghi su e contro se stesso, perché non possiamo volere meno amore di quello che ci spetta.
Una volta, alla fine di un incontro con studenti delle superiori durante il quale avevo parlato di questi temi, una professoressa, forse preoccupata dall’entusiasmo dei ragazzi, disse: “L’adolescenza è importante, però non sopravvalutiamola”. Quelle parole tradivano forse la paura di entrare nell’arena educativa rispettando questa tappa per quello che ha di eccesso e quindi di fatica. Noi adulti vorremmo controllare l’adolescenza, credendo sia una scorciatoia per educare, ma questa fase della vita, con la sua sete di libertà, non vuole controllo, bensì apertura, accettazione, affermazione, destinazione, obiettivi, che fanno da limite naturale all’eccesso in modo che possa trovare i confini entro cui definirsi e, soprattutto, la sua forma più vera. Quando Padre Puglisi organizzava quelli che lui chiamava campi vocazionali li intitolava infatti: “Sì, ma verso dove?”. Una frase che contiene l’affermazione totale di ciò che ogni ragazzo è, ma anche la sua tensione verso qualcosa (la parola ad-olescente indica tensione verso una pienezza).
Tuttavia, in assenza di rapimento, chiamata, destinazione, l’educazione si rifugia nel controllo, nell’obbligo, nei divieti, che infatti i ragazzi non capiscono.
Sei stato tu a insegnarmi, Giacomo, proprio con la tua sofferenza, a guardare i miei studenti senza pretendere di controllarli, senza sottovalutare i loro sedici o diciassette anni, ma prendendo sul serio quell’eccesso, a volte destabilizzante, e indirizzandolo: fu un eccesso mal riposto a rovinarti la salute, fu un eccesso ben indirizzato a salvarti la vita. È nell’eccesso dell’adolescente che si mostra e si nasconde il fuoco della speranza o della disperazione.
Uno crea, l’altro distrugge. Uno serve ad ammorbidire, forgiare e temprare l’acciaio, l’altro a bruciare boschi e biblioteche.
Ma è lo stesso fuoco.