Caro Giacomo,
in quest’epoca si parla tanto di adolescenti, ma si parla troppo poco con gli adolescenti. Parlare con un adolescente non è articolare un elenco di “devi” o “dovresti”. Non guadagna la fiducia dei ragazzi chi la cerca scimmiottando la loro adolescenza, ma chi partecipa alla loro vita, scegliendo volta per volta la giusta distanza. Solo chi vive il suo rapimento genera rapimenti e provoca destini: solo se io so che cosa ci sto a fare al mondo metto in crisi positiva un adolescente, che non vuole gli si spieghi la vita, ma che la vita si spieghi in lui, e vuole avere a fianco persone affidabili per la propria navigazione. Se un adulto fa l’adolescente di ritorno inganna i ragazzi: penseranno che diventare adulti è desiderare di tornare indietro o provare rimpianto per qualcosa che non si ha più. Vorrebbero essere sicuri di se stessi e invece dobbiamo aiutarli a essere sicuri di essere se stessi, cominciando ad accettare ciò che sono e non caricandoli di “io” immaginari e irraggiungibili. Per questo in noi devono trovare chi è sicuro di essere se stesso, fragilità comprese, inadeguatezze comprese, fallimenti compresi, insomma limiti compresi. Anche tu, Giacomo, lottavi per non rinunciare a quella sicurezza di essere te stesso, alla tua vocazione.
Questa generazione di adolescenti è più rapida delle precedenti, entra in contatto con molto più mondo in meno tempo, conosce più cose della mia, ma ha anche un punto debole: ha meno criteri di decodifica dei messaggi, non sa da dove si prenda il mondo, indossa la realtà spesso al contrario, come una maglietta in cui non si distingue il davanti dal dietro, l’esterno dall’interno. Trova la soluzione a furia di provare e riprovare, se non si scoraggia prima. Abbiamo dato loro tutto per godere la vita, ma non abbiamo dato loro una ragione per viverla. Abbiamo scambiato la felicità con il benessere, i sogni con i consumi.
Il risultato è una generazione spesso perduta in un deserto di noia, a caccia di oasi di senso, intrappolata in miraggi emotivi necessari a risarcire una profonda solitudine, non quella feconda del poeta che si allontana dal mondo per ritrovarsene poi più innamorato e arricchito, ma quella di chi si sente abbandonato da tutto e di cui io sono testimone quando raccolgo le confidenze di ragazzi che mi conoscono solo attraverso i miei scritti. Allora mi chiedo: ma accanto a loro non c’è nessuno che li osserva? Noto una tendenza alla resa nell’età fatta per l’eroismo; infatti quelli che non hanno ancora rinunciato a lottare sentono fortissimo il dolore di qualcosa che era loro dovuto ma che hanno perduto, senza sapere bene come: una sorta di smarrimento. Eppure questo dolore, se decidono di non ignorarlo o lasciarlo prosperare, è la loro salvezza perché acuisce la sete, le domande. Una volta un collega mi ha criticato dicendomi: “A scuola bisogna seminare dubbi, non certezze”. Non credo che a scuola l’alternativa sia tra dubbi e certezze, ma tra libertà e schiavitù. Non si tratta di seminare certezze, bensì di incoraggiare l’uso della libertà in direzione di ciò che è vero, bello e buono per ampliare il raggio d’azione del vero, del bello, del buono, le tre cose che rendono una vita appassionata e appassionante. E se non avessimo un minimo di certezze perché insegnare Shakespeare, Omero e Dante? Perché le leggi della fisica? Perché la vita delle stelle e delle cellule? Lo facciamo perché pensiamo che questo serva a orientarsi nel mondo, ad abitarlo, anche quando si fa inospitale.
Ricevo centinaia di domande “impossibili” dai ragazzi, perché quelle domande sono anche mie e anche io sono in viaggio verso le risposte, che arriveranno solo a patto di tenere vive le domande: la vita non è mai avara di risposte quando si rimane aperti a lei con domande precise.
“Perché deve accadere tutto questo?” mi ha chiesto una ragazza con la madre malata di tumore.
“Come si fa a scoprire un sogno per la vita?” un ragazzo roso dalla noia.
“Come faccio a non buttare la mia adolescenza?” un ragazzo arrugginito dal consumismo.
“Come faccio a tornare a innamorarmi? Non ci riesco più” mi ha chiesto a tu per tu una ragazza con il tormento di una violenza subita e mai rivelata a nessuno, neanche ai genitori.
“Come impegnare le proprie risorse migliori in un mondo in cui prevale il più furbo e spregiudicato?” un ragazzo deluso.
“Come sopportare il fatto di non essere bella?” una ragazza con poca stima di sé.
“L’amore per sempre è solo un’illusione o è possibile?” una ragazza con i genitori che si odiano.
“Perché dovrei smettere di tagliarmi se è l’unico modo per evitare il dolore ancora più profondo che mi accompagna?” mi ha chiesto una ragazza autolesionista.
“Come si fa ad appassionarsi alle materie scolastiche se i professori sono i primi a non crederci?” Penso che questa sia una delle domande più frequenti: cercano testimoni della bellezza, non insegnanti senza fede nella bellezza.
“Come fa a credere in Dio?” Me lo chiedono in moltissimi, senza vergogna, anche davanti a centinaia di coetanei.
I genitori spesso sono spiazzati perché, come capita a me, nemmeno loro hanno la risposta per molte di queste domande, e quindi scantonano nelle procedure, nei doveri, negli impegni, negli oggetti. Ma il risultato è già la domanda. Il segreto è che i ragazzi sappiano di non doverne portare da soli il peso e si cominci insieme il viaggio che condurrà alle risposte.
L’adolescenza è la tappa dell’informe che cerca la forma, del caos che cerca l’ordine, della speranza che cerca l’esperienza e dell’impossibile che cerca il possibile. Proprio tu, Giacomo, consapevole di questa tappa come altri mai, attraverso i personaggi dei tuoi canti hai dato forma di domanda all’informe sperare e temere, non offrendo risposte, ma vivendo le domande, senza spegnerle. Sono quelle di Saffo e del pastore errante, di Nerina e di Silvia, del passero solitario e del viandante confuso… Le parole della tua poesia sono strumenti che aiutano ad affrontare la vita di tutti i giorni, ad abitarne luci e ombre, proprio perché riescono a dare voce al grido del cuore silenzioso. Hai snodato una specie di filo di Arianna nel labirinto della vita. E non è importante quanto sia complesso il labirinto, ma quanto forte e lungo è il filo per affrontarlo, e il compito meraviglioso di uno scrittore è raccontare sia il labirinto sia il filo.
Raccontami come hai fatto a inoltrarti nella vita, nonostante i tanti snodi dolorosi a cui ti ha costretto. Come sei rimasto fedele al tuo rapimento, come hai continuato a sperare senza perderti, schiacciato dai limiti che la vita ti impose? Come hai fatto a tenere vivi tutti i punti interrogativi delle tue poesie?