Conservare l’infanzia senza essere infantili

Non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita.

Lettera a Pietro Giordani, 17 dicembre 1819

Caro Giacomo,

perché l’adolescenza conduca al rapimento è necessario che sia già il compimento della tappa precedente: l’infanzia. Se si sottovaluta o addirittura si trascura una tappa della vita, si rischia di passare il tempo a recuperarla in altre età, con gli squilibri che questo comporta. Per vivere appieno l’adolescenza bisogna fare un passo indietro e scoprire cosa non possiamo perdere dell’infanzia, senza per questo essere infantili.

Mi hai scritto che l’infanzia di un uomo è come quella di un popolo, e se è menomata quell’età è menomata tutta la capacità creativa e di crescita di un bambino, di un popolo, perché creare e crescere sono la stessa cosa. Mi hai scritto che nulla nell’infanzia ci è indifferente, e questo è il segreto di quell’età, ogni pezzo del mondo è casa da esplorare, amica o no che sia la stanza da aprire:

Imperocché quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna […] quando i colori delle cose quando la luce quando le stelle quando il fuoco quando il volo degl’insetti quando il canto degli uccelli quando la chiarezza dei fonti tutto ci era nuovo o disusato, né trascuravamo nessun accidente come ordinario, né sapevamo il perché di nessuna cosa, e ce lo fingevamo a talento nostro, e a talento nostro l’abbellivamo; quando le lagrime erano giornaliere, e le passioni indomite e svegliatissime, né si reprimevano forzatamente e prorompevano arditamente.

(Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica)

Quando eri bambino amavi rifugiarti nella soffitta del nobile palazzo della gens leoparda, dove giocavi con la luce e le ombre, schermando con una coperta il fulgore del mattino che entrava dalla finestra e lasciando penetrare raggi e trame di luce che, simili a ragnatele, facevano da sfondo ai personaggi di un teatro interiore che finalmente potevano muoversi anche all’esterno. Era già chiara la tua vocazione di ricerca della luce nell’ombra, dell’ombra nella luce, sapevi intrecciare e l’una e l’altra, e intuivi che la verità sarebbe emersa da quel gioco crepuscolare. La tua infanzia è durata fino agli undici anni, età in cui ti rifugiasti in biblioteca per divorare lo scibile umano con la curiosità che fino a quel momento avevi rivolto alle cose della natura, ai giochi, ai fratelli. Eri un bambino dal sorriso dolce, a volte malinconico, occhi celesti e meravigliati aperti sul mondo e quindi anche sulle sue ferite, che si nascondono solo a sguardi superficiali. Infatti una delle cose che non sopportavi era il momento in cui i tuoi genitori interrompevano i giochi con i tuoi amici perché tornassi a casa: la fine di quell’incanto festoso ti rattristava sino alla prostrazione e alle lacrime. L’immaginazione piena di incanto di quell’età, capace di trovare un gioco in ogni cosa, l’avresti poi paragonata a quella degli uccelli, non a quella “profonda fervida e tempestosa, come ebbero Dante, il Tasso; la quale è funestissima dote […] ma quella ricca, varia, leggera, instabile e fanciullesca” (“Elogio degli uccelli”, Operette morali).

Molte delle crescite mutilate del nostro tempo, Giacomo, credo derivino proprio dal non coltivare questa immaginazione nei bambini, stanchi di usarla perché vedono troppo, stanchi di desiderare perché possiedono troppo, perché nelle loro giornate, nel loro corpo, nel loro cuore e nella loro testa non c’è più uno spazio libero. L’immaginazione dipende dalla privazione, perché è proprio l’essere privato di qualcosa che invita il bambino a esplorare qualcos’altro, la negazione del secondo gelato lo porta a scoprire il mazzo di chiavi scosso dal papà davanti ai suoi occhi, ad afferrarlo e portarlo alla bocca, conoscendo così un nuovo tratto di realtà, trampolino per altre storie e ricerche. Il desiderio si sposta, la privazione (ora una perdita, ora una mancanza) ha generato una domanda, la realtà ha risposto in maniera imprevista, e questo è fonte di nuove creazioni, di nuova crescita.

Pensa che nel futuro da cui ti scrivo, per spiegare ai bambini delle elementari come si fa il pane, li si porta in un museo di scienze naturali, dove c’è una grande sala in cui è riprodotto un campo di grano: finto, con l’odore del grano finto, mosso da un vento finto. Un campo di grano ridotto a effetto speciale. Conosco una bambina convinta che le uova crescano sugli scaffali del supermercato. Abbiamo perso qualcosa nel contatto con il paesaggio, con le cose della natura, che mai ingannano, come rispose Aristotele a chi gli chiedeva dove avesse imparato tutte le verità che sapeva: “Dalle cose, perché non mentono”. Sono gli uomini a mentire e a fingere.

Tu, invece, per tutta la tua infanzia ti nutristi della bellezza e della verità della natura, e così i tuoi versi sono abitati da oggetti conservati nella memoria con i colori e la purezza dell’immaginazione del bambino che eri stato, risposte a privazioni che la vita ti avrebbe imposto. Un poeta non si improvvisa a diciott’anni, ma a diciott’anni scopre che vuole mantenere intatto lo sguardo fanciullesco che rischia di perdere. Per questo la tua poesia, diversamente da quella dei tuoi contemporanei e conterranei, accoglie anche le cose più note, quotidiane e fragili: passeri, pastori, greggi, artigiani, lune, donzellette, fiori, garzoncelli, artigiani, canti…

Pochissimi riconobbero la tua grandezza, proprio perché sapevano ragionare solo da adulti, non tolleravano che la poesia si facesse con queste piccolezze. Tu invece, coerente con la tua infanzia, facevi dei tuoi versi un atto di fede alle cose: avevi fiducia nel quotidiano, nell’istante, come ogni bambino. Rinnovasti così la poesia, sorprendendo il tempo presente e a venire, trovando parole nuove per le cose di sempre, che avevi visto da bambino e che ora volevi curare, nominandole, rinnovandole come meritavano, rendendole capaci di evocare un paradiso perduto, o forse promesso. La tua poesia è capace di restituire speranza anche nella malinconia, perché trova e racconta la bellezza di cui sono intrise le cose, e nessuno spera se non convive con la bellezza in ogni istante, anche nel più oscuro.

Solo la bellezza crea speranza nel cuore e nella mente dell’uomo. La modalità in cui lo fa è duplice: maestà e semplicità. Sembrerebbero in contraddizione, ma in realtà sono solo due manifestazioni della pienezza, del compimento, della fioritura dell’essere. Io spero tutte le volte che il profilo di una montagna si staglia netto nel cielo e tutte le volte che un sorriso svetta su un volto trasformandone i tratti; spero tutte le volte che l’orizzonte di un mare unisce cielo e terra come una cerniera e tutte le volte che una carezza unisce due persone mostrando a un essere, in quel contatto, che la sua fragilità è una meraviglia; spero tutte le volte che un bosco fitto sembra confidare a chi vi passeggia il segreto di decenni di paziente compimento e tutte le volte che più fitto è un battito di ciglia a causa di uno stupore, di un amore.

Che cosa è più maestoso di una stella e più semplice della sua luce? La vita non è mai povera, povero è il nostro sguardo, incapace di leggere la realtà su più livelli, perché non sono attivati i nostri spazi interiori più profondi. La realtà risponde solo a chi le corrisponde, e chi corrisponde per eccellenza a questa maestosa semplicità è il bambino.

Come possiamo coltivare l’immaginazione per conservare intatto l’incanto del paradiso perduto o promesso? Come hai fatto tu a mantenerla viva per una vita intera, facendo scaturire da lì ogni verso che hai scritto?

Come scrittore mi capita di sentirmi chiedere spesso come faccio a inventare così tante cose, personaggi, episodi, trame, intrecci. Dove si trovano? Che cosa alimenta la mia immaginazione, che i più considerano una specie di magia capace di sconfiggere l’imbarazzo della pagina vergine?

La domanda confonde fantasia e immaginazione; la prima è di pochi, la seconda è di tutti quelli che la coltivano ed è strumento indispensabile di crescita e di vita, come l’acqua per un seme. Mentre però i bambini mescolano l’immaginazione con la fantasia, gli artisti sanno distinguerle e attingono più all’immaginazione, che è semplicemente un modo di guardare con attenzione, usando appieno i sensi: il contadino che vede la rosa nel seme ha immaginazione, non fantasia. L’immaginazione non è altro che continuare il profilo nascosto delle cose verso il loro compimento, a forza di considerarle con calma attraverso i cinque sensi. Non è fuga dal reale, ma piena immersione e penetrazione del reale.

Una luna, un passero, un gregge, una ragazza, una siepe, un cespuglio di ginestra ti bastavano, Giacomo, per farvi risuonare il canto dell’universo intero, come solo i bambini sanno fare quando le loro scope sono cavalli, i loro cappelli elmi, le loro matite spade.

Mi hanno raccontato di una bambina delle elementari che aveva un comportamento iperattivo durante tutta la giornata scolastica e in una sola ora trovava se stessa: quella di disegno. In quell’unico momento di armonia tra sé e il mondo circostante si tuffava nel foglio con assoluta naturalezza e il corpo si accoccolava tutto nella creazione artistica. Un giorno la maestra aveva già annunciato la fine dell’ora e ribadito di consegnare, ma la bambina continuava a disegnare, china sul suo foglio, come chi è immerso in un tempo e uno spazio diversi da quelli degli umani. La maestra, spazientita da quell’insubordinazione, si avvicinò per vedere cosa stesse combinando la sua piccola alunna.

“Sto facendo un ritratto di Dio” spiegò lei, senza alzare lo sguardo dal foglio.

La maestra sorrise e con ironia rispose: “Ma Dio nessuno sa come è fatto, nessuno l’ha mai visto”.

La bambina rimase in silenzio per qualche secondo, poi, continuando a disegnare, disse: “Se aspetta un attimo, lo vedrà”.

In questi tempi, in cui gli oggetti vengono prodotti dalle macchine, tendiamo a dare per scontato il processo di creazione, ci dimentichiamo che non solo nella loro presenza, ma anche e proprio nella pazienza, nella resistenza al tempo, nella storia delle cose sono celati il loro valore e la nostra possibilità di comprenderle (amarle e conoscerle insieme): un pittore non dipinge ciò che ha visto, ma ciò che vedrà alla fine, così come un uomo amerà la donna che avrà imparato ad amare. Si crea per scoprire perché lo si è fatto, e ogni difficoltà che si frappone tra noi e il fine concepito all’inizio è necessaria per dare consistenza all’invisibile, per crescere.

Il prodotto del lavoro non è più importante del lavoro stesso: questo lo sanno una madre incinta, un contadino che semina e un artista che cerca la strada per dare carne alla sua intuizione. Gli artisti conoscono, trovano e scoprono facendo. Così come i bambini, per i quali gioco e conoscenza del mondo sono la stessa cosa. Purtroppo poi la scuola li induce a dissociare quasi del tutto fare e conoscere, addestrandoli a una conoscenza esclusivamente intellettuale del mondo e dell’uomo, che li costringerà a recuperare, solo da grandi e solo se avranno coraggio, tempo e fortuna, un rapporto “naturale” con il mondo e l’uomo. Basti pensare a Einstein, che a scuola otteneva risultati scadenti in matematica, o a Picasso, che diceva di aver dovuto reimparare a dipingere, da adulto, come un bambino.

L’arte non imita la natura nel senso che cerca di copiarla, imita piuttosto il processo con cui la natura cresce, tentando di condensare, rendere visibile e abitabile ciò che in natura resta spesso disperso o nascosto dal flusso continuo del vivere, “tanto più che il poeta ha scelti gli oggetti, gli ha posti nel loro vero lume, e coll’arte sua ci ha preparati a riceverne quell’impressione, doveché in natura, e gli oggetti di qualunque specie sono confusi insieme, e in vederli spessissimo non ci si bada […] e bisogna poi perché producano quei tali sentimenti andarli a prendere pel loro verso” (Zibaldone, 1818). L’architettura confina lo spazio aperto e lo rende a noi vivibile secondo il suo scopo, come quando entriamo in un tempio greco, in una chiesa romanica, in una cattedrale gotica, in un grattacielo moderno. Le tele di Van Gogh ci permettono di abbracciare in uno sguardo il mistero di una notte di stelle. Mozart ha strappato al silenzio il suo segreto e allo scorrere inarrestabile del tempo un senso. I poeti hanno inventato metafore necessarie a nominare eventi indicibili come un cuore che si scalda, dilata, rimpicciolisce, spezza, trema.

Questa è una delle tue più grandi lezioni per me, Giacomo. Non hai mai smesso di immaginare, cioè di essere fedele alle cose per portarle alla loro pienezza, e quindi di creare, perché sapevi che creare era il modo di comprendere il mondo e l’uomo e farli crescere fino al compimento, cioè alla felicità.

O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita tornerà ad esser cosa viva e non morta, e la grandezza e la bellezza delle cose torneranno a parere una sostanza e la religione riacquisterà il suo credito; o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto.

(“Frammento sul suicidio”, Appendice alle Operette morali)

E se questo, Giacomo, imparassimo a farlo tutti, la nostra vita non sarebbe più felice?

Grazie per avermi ricordato che l’immaginazione non è cosa da poeti, ma da uomini che fanno di ogni azione poesia, cioè compimento: è poesia un amore fedele, è poesia un piatto gustoso, è poesia una spiegazione appassionante. Questa lezione mi serve tutti i giorni in classe, quando devo mettere la mia immaginazione al servizio dei volti acerbi dei miei alunni, per vedere l’invisibile che si cela dietro il loro ancora informe essere al mondo. Questa è la poesia del mio mestiere: immaginare il loro compimento, sapendo che solo alla fine scoprirò cos’era ciò che avevo intuito in quei capolavori di carne e spirito. Loro sono la mia biblioteca di inediti.