Caro Giacomo,
non desidera qualcosa se non chi ne avverte la mancanza. Questo è essere seme. Questo è essere adolescenti. Ma questa è anche la definizione di Eros che dà Platone nel suo dialogo sull’amore, dove lo immagina come un dio, figlio di Pòros (Ricchezza) e Penìa (Povertà), e lo descrive come potrebbe essere descritto ogni adolescente: “È sempre povero, e tutt’altro che bello e delicato, come dicono i più; al contrario è rude, sempre a piedi nudi, vagabondo, […] perché ha la natura della madre ed è legato al bisogno. D’altro canto, come suo padre, cerca sempre ciò che è bello e buono, forte, audace, risoluto, gran cacciatore”.
Questa condizione di sospensione tra divino e umano, tra finito e infinito, è ciò che caratterizza l’adolescente e lo spinge, con fame e audacia eroiche, da cacciatore, a procurarsi ciò che gli serve per vivere, per essere felice.
Tu, Giacomo, mi hai ricordato che non c’è età più “erotica” e quindi “eroica” dell’adolescenza: il desiderio di aver presa sulla vita porta ad aprirsi al mondo, in cerca di ciò che possa soddisfare la sete. Se questa apertura, piena di speranza, trova un senso a cui votarsi, lo slancio erotico non si ripiega su se stesso, diventando narcisistico o ritirandosi, ma si fa eroico, coraggioso e pronto anche a patire.
Una volta, alla fine di una lezione su Ungaretti della quale ero particolarmente fiero (per inciso, un poeta che ha scritto su di te pagine tra le più belle mai lette), una mia alunna ha alzato la mano. Speranzoso in una bella domanda mi sono sentito dire: “Professore, lei dovrebbe leggere un po’ meno poesia e guardare un po’ più il ‘Grande Fratello’” (non ho tempo di spiegarti cos’è, ti basti sapere che è il contrario della poesia: un posto in cui si vede tutto della vita di alcune persone e quindi si finisce per non vedere più niente, perché mancano il mistero e la profondità). Quella frase mi colpì, non per la sua insolenza, ma per la sua verità bruciante. Tradotta, suonava così: “Professore, per favore può tornare nel mondo piccolo della bruttezza e non farmi sentire che esiste la bellezza? Può non costringermi a scegliere tra il nulla e l’essere? Ora che so che ci sono cose in cui la vita si sente così forte, cose così belle, devo uscire dalla mia comoda indifferenza e prendere posizione: a che punto sono del mio compimento, che cosa voglio dalla vita? Professore, può per favore evitarmi minuti di rapimento, altrimenti devo mettermi in cammino verso un compimento?”.
In base all’esperienza di questi anni di insegnamento, Giacomo, credo non sia un caso che i ragazzi si sentano messi in pericolo proprio dalla poesia. Questo accade perché l’unica “teoria del tutto” che l’uomo possiede è proprio la poesia. Non la poesia dei componimenti poetici, ma la poesia, cioè l’intuizione della “vita come tutto”, il sentimento della fragilità e originalità dell’esistenza, che chiede di starle di fronte con cura e coraggio, anche se a prendere la parola sono il dolore, la sconfitta, la solitudine. Non rinunciare mai alla poesia, anche quando sembrava che la vita non mantenesse le sue promesse, è stato il tuo vero atto eroico, e l’atto d’amore più grande che tu abbia compiuto.
La poesia della vita non è un sentimentalismo dolciastro, ma un eros forte, appassionato e resistente, fatto per mostrarci che tutto è per noi, destinato a noi, come quando ci innamoriamo e il mondo non è altro che la scenografia in cui si muove l’altro, il tatto il luogo per riceverlo, gli occhi il mezzo per guardarlo, le orecchie per udirne la voce, il naso per sentirne l’odore, le labbra per conoscerne il sapore.
La poesia della vita, il suo sentimento forte, mi si mostra quando comincio il laboratorio di poesia con i miei alunni. Prima ancora di provare a far scrivere loro delle poesie, devo educarli alla poesia, al singolare, come modo – erotico ed eroico – di stare al mondo. Devo far capire loro che non è un giochino sentimentale per perditempo e illusi, o un compito sterile imposto dalla scuola, ma un esercizio di meraviglia e quindi un modo per aver presa sulla vita o per consentire alla vita di aver presa su di noi, scoprendo cose che altrimenti rimarrebbero nascoste. Per questo il laboratorio inizia con degli esercizi ripetuti di uso dei cinque sensi, come quelli che si fanno in palestra per allenare, di volta in volta, muscoli diversi. Chiedo loro, per esempio, di osservare il volto di un compagno per tre minuti e di descriverlo su carta (è l’origine di nuove amicizie e addirittura di alcune storie d’amore…), di ascoltare una melodia e tentare di trasformarla in immagini e parole, di odorare fiori diversi cercando di determinare le componenti del loro profumo, di toccare la consistenza di oggetti ignoti dentro una scatola e descrivere ogni dettaglio, di gustare a occhi chiusi pezzetti di cibo; li invito a fare esercizi di silenzio a casa (dieci minuti zitti a occhi chiusi concentrando l’attenzione su qualcosa da cui sono stati colpiti durante la giornata), ad associare un’emozione all’evento che l’ha generata e ai pensieri a cui si è saldata… Sono tutti esercizi di “ulteriorità”, per scoprire che la realtà è profonda più delle superfici e che, lasciandola entrare attraverso i sensi e interrogandola con mente e cuore, ci rivela il segreto dell’istante pieno e ricco, per evitare quelli che Montale ha definito “gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede”.
Poi chiedo loro di scrivere poesie basate sull’assoluta attenzione prestata alla realtà: i dettagli di una passeggiata di ritorno a casa da scuola, con lettura successiva di Città vecchia di Saba; i dettagli nella figura di una persona amata, come la loro madre, con lettura di Per lei di Caproni; i particolari che apparentano la loro identità profonda a un animale, con lettura dell’Albatros di Baudelaire; le emozioni della domenica pomeriggio, verso il crepuscolo, con lettura della tua Sera del dì di festa… Il gioco funziona sempre.
Inoltre così i ragazzi capiscono quanto sia difficile strappare la vita alla vita, con l’attenzione e le parole, e il testo di un poeta letto dopo questa fatica li ispira e colpisce come un fulmine di bellezza, perché è riuscito a dire in modo “inevitabile” ciò che loro hanno semplicemente balbettato. Li vedo aprirsi e trasformarsi a questo metodo di stare al mondo, così corrispondente al loro adolescenziale venire alla luce, toccare per un attimo il cosmo delle cose attraverso quello delle parole. Allora cominciano ad aver sete di quelle parole perché dicono la verità, e non subiscono le figure retoriche come un elenco stilato dall’ufficio burocratico per la poesia, da imparare tristemente a memoria, ma le studiano come la logica di questo cosmo, il rito di questo corteggiamento del mondo, che sembra confidare il suo segreto solo a chi lo accoglie con coraggio.
Quando leggiamo in classe i frutti di questi esercizi di meraviglia, ci stupiamo degli esiti diversissimi, che tradiscono il modo che ciascuno ha di interpretare la realtà. Sono sempre molto significativi gli animali in cui i ragazzi si identificano nei loro versi incerti: dalla seducente tigre che si nasconde nella foresta al pinguino imbranato che non sa se appartenere al mare o alla terra. Mi colpiscono sempre i dettagli che ciascuno coglie in una passeggiata di ritorno a casa (devo confessarti, Giacomo, che questa idea l’ho rubata a te, perché tra le poesie che volevi scrivere avevi appuntato anche questo titolo: Storia di una passeggiata): “Non credevo ci fossero così tante cose nel tragitto da scuola a casa” ha esclamato una volta un mio studente. Ricordo la poesia in cui un ragazzo raccontava di allungare ogni giorno il percorso di ritorno per sentirsi finalmente libero sul suo motorino dopo una mattinata in classe: ripeteva ossessivamente all’inizio di ogni strofa “giro e rigiro”, usando l’anafora in modo istintivo ma da quel momento consapevole, perché rispecchiava alla perfezione il sentimento della sua vita: giro e rigiro, libero come il vento che mi accarezza il viso, senza meta, senza costrizioni. Quante storie, quanta vita, quanto amore restano incastrati nell’indifferenza sensoriale, eppure proprio dalla capacità di cogliere le differenze dipende la nostra possibilità di essere “rapiti” dalla vita.
Quello che ognuno coglie è il prodotto del suo modo unico e irripetibile di rapportarsi al mondo, il segnale di un rapimento che è già sommessamente in atto e che le parole rivelano. Le poesie che i ragazzi compongono sono l’esito, cristallizzato, di piccole chiamate, e quando le hanno davanti agli occhi si stupiscono: “Ma tutto questo era dentro di me?” ha esclamato una volta una ragazza. Allora faccio leggere loro quello che direbbe Ungaretti: “Poesia / è il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti dalla parola / la limpida meraviglia / di un delirante fermento”. Sì, era già dentro di te, ma solo a contatto con ciò che era fuori di te è fiorito in parola e adesso un’oasi abitabile è stata strappata al deserto dell’indifferenza.
Non era forse quello che accadeva a te, Giacomo, quando scrivevi poesie, a partire da una frenesia, un’ispirazione, che poi richiedeva una paziente opera di trasformazione in parola?
Io non ho scritto in mia vita se non pochissime e brevi poesie. Nello scriverle non ho mai seguito altro che un’ispirazione (o frenesia), sopraggiungendo la quale, in due minuti io formava il disegno e la distribuzione di tutto il componimento. Fatto questo, soglio sempre aspettare che mi torni un altro momento di vena, e tornandomi (che ordinariamente non succede se non di là a qualche mese), mi pongo allora a comporre, ma con tanta lentezza, che non mi è possibile di terminare una poesia, benché brevissima, in meno di due o tre settimane. Questo è il mio metodo, e se l’ispirazione non mi nasce da sé, più facilmente uscirebbe acqua da un tronco, che un solo verso dal mio cervello.
(Lettera a Giuseppe Melchiorri, 5 marzo 1824)
O, come dice un altro poeta: “Nel processo compositivo il poeta impiega sia il modo razionale che quello intuitivo. Curiosando tra gli appunti di un poeta troviamo molte crocette e segni, molti ripensamenti: che cosa è successo? Semplicemente il poeta ha corretto i propri impulsi iniziali. Nel processo compositivo egli arriva a fondere il razionale con l’intuitivo, affermazione e negazione. Il poeta, in altre parole, è l’animale più sano: combina analisi e intuizione – analisi e sintesi – per giungere al risultato, alla rivelazione. Per questo la poesia è il più efficace acceleratore mentale. Leggerla e scriverla offrono lo strumento di conoscenza più rapido, il più economico che io conosca” (Iosif Brodskij, Conversazioni).
I miei studenti sperimentano così questa gioia di accelerare la mente, di abitare ogni particolare, di ricevere il mondo e di indirizzarlo al suo compimento. Tutto questo è la poesia, e solo dopo vengono le poesie. E me lo hai insegnato tu, Giacomo, che sei stato fedele al tuo rapimento di poeta, prima ancora che di scrittore di poesie, perché la poesia, l’orecchio del mistero e della meraviglia, non è solo dei poeti: poeti sono tutti quelli che “fanno” (poiein è il fare che traduce l’invisibile in qualcosa di visibile), che ricevono tutta la ricchezza che la vita può offrire, ne accolgono la fragilità e incompiutezza e si impegnano a proteggerla e portarla a termine proprio attraverso il loro “fare”: dal giardiniere all’insegnante, dalla madre al medico. Erotismo ed eroismo sono le due tonalità della vita che vive, perché solo la passione spinge a superare la fatica che serve per portare al compimento di cose e persone.
Ma che cosa accade, Giacomo, quando la vita muore, perché questo eros eroico è minacciato o addirittura soffocato?