Caro Giacomo,
qualche mese fa ho ricevuto la lettera di una ragazza che mi confidava di non riuscire a smettere di tagliarsi le braccia. In quei momenti finalmente sentiva pace, il dolore la portava alla concentrazione assoluta, all’esistenza, offuscando tutto il resto, tutta la paura e il senso di soffocamento per la vita dai limiti troppo angusti che le era capitata. Quella ragazza costringeva se stessa a “sentire” per essere al mondo, per avere un mondo. Ferendosi, cercava di costruire un rapimento doloroso e artificiale. La sua vita ritrovava i sensi e quindi un senso, almeno momentaneo.
Le ho risposto di smetterla, di pensare a me tutte le volte che voleva tagliarsi e di scrivermi, di ricordare che quel dolore aveva generato la sua lettera e che questo sarebbe potuto accadere di nuovo. Le ho suggerito di conoscere il mondo e il suo dolore con le parole, un cosmo di parole, anziché precipitare nel caos del sangue. Le ho detto che tenevo a lei e al suo sangue, e non volevo che neppure una goccia andasse sprecata, ma che venisse trasformata e impegnata per un’altra causa. Da quel giorno ha cominciato a migliorare, tramutando il sangue in parole, il dolore in lettere.
Anche le nostre lacrime sono la sostanza liquida e salata del caos, prezzo da pagare alla nostra fragilità che si apre e viene ferita. Tu conoscevi bene il sapore delle lacrime, perché lo avevi imparato sin da bambino. Mi hai raccontato che una volta tua madre rise di te perché ti trovò che piangevi a dirotto. Solo tuo fratello minore, Pietruccio, cercò di consolarti accarezzandoti il viso. Quanti pianti di adolescenti vengono derisi come malattia passeggera, esagerazione ormonale, quando invece sono la profondissima constatazione del semplice fatto di “essere uomo”, come tu spiegasti a tua madre, la consapevolezza di essere fragile e soggetto a tutta l’insufficienza della vita, paragonata alla sovrabbondanza del desiderio. Tu avevi chiaro sin da giovanissimo che ci vuole misericordia per la condizione dell’uomo. Solo chi conosce il pianto per il fatto di essere al mondo, può consolare gli altri, come hai fatto tu trasformando le tue lacrime in versi, in poesia la tua fragilità.
Il mondo che riusciamo a vedere dipende dalla cura che ci prendiamo dei nostri sensi. Chi sente poco vive poco, chi sente troppo vive troppo, chi sente male vive male… I sensi non sono organi inerti e autonomi, sono il grande dono che il corpo ci fa per accogliere la realtà. Ma se questi filtri sono inadeguati, per poco uso o per troppo uso di uno rispetto agli altri, che mondo entra nel nostro cuore e nella nostra testa?
Chi sente male può finire col farsi e fare male, pur di sapere d’esser vivo. Non tutti infieriscono su se stessi, come quella ragazza, molti scelgono il sangue degli altri.
Come si fa a uccidere, torturare, seviziare un bambino, una donna o un altro uomo se ne sentiamo la vita? Quando non si “sente” la vita, si dà spazio a quella che una donna dal cuore pensante ha chiamato “la banalità del male”, riferendosi sorprendentemente a un carnefice nazista, Adolf Eichmann: “Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza d’idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo. E se questo è ‘banale’ e anche grottesco, se con tutta la nostra buona volontà non riusciamo a scoprire in lui una profondità diabolica o demoniaca, ciò non vuol dire che la sua situazione e il suo atteggiamento fossero comuni. […] Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza d’idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo” (Hannah Arendt, La banalità del male).
L’uomo che spezza la vita altrui non è semplicemente un pazzo, ma uno che sente pochissimo, disprezza la sua vita e finisce col disprezzare quella degli altri. Se non sento più il reale e le sue tonalità di valore cado nell’uniforme, nel luogo comune, nella chiacchiera vana, e l’ideologia inevitabilmente si sostituisce alla realtà. Tu sapevi, Giacomo, che la felicità è la capacità di accogliere tutto attraverso i sensi, costi quel che costi, limiti compresi, anzi a partire dai limiti, dalla siepe che è anticamera dell’infinito, sua necessaria premessa. Il tentativo, più o meno consapevole, di rimuovere i limiti è causa di infelicità, freddezza, noia.
Ma dove la vita si è persa? A quale bivio abbiamo sbagliato strada e abbiamo lasciato che i nostri sensi si addormentassero? Come risvegliarli? Tu diresti: con la poesia, cioè con l’eros della vita, con la sua stessa ferita.
Quella ragazza che si ferisce mi ha fatto capire che l’adolescenza è il primo passo consapevole, e per questo vertiginoso, verso l’acconsentire d’esser nati, l’accettare che la vita è data, con le sue gioie e i suoi drammi. L’adolescente si lascia a poco a poco alle spalle il pensiero magico e onnipotente del bambino, la fantasia non lo difende più, la vita entra dentro di lui in modo nuovo e più pieno, ferendolo. Può quindi scegliere di ritirarsi oppure di guardarla in faccia e chiedersi per cosa valga la pena “patire”, cioè vivere, cioè sperare. Non sto parlando di masochismo sacrificale, ma del normale spaccarsi del seme per poter diventare rosa: se il seme non si lascia aprire da sole, terra, acqua, accogliendo il suo destino, rimane sterile. Se invece trova la ragione per rompere il guscio, si lascia ferire ed entra nel mondo con la sua fioritura e si sperimenta come dono di colori e sapori per gli altri. Il prezzo da pagare è un dolore, una morte “apparente”, ma in realtà è “più vita”. Non è forse questo che quel taglio inferto a se stessi vorrebbe imitare? Un dono che non riesce a farsi dono.
Che la vita sia tale quando si sa e si fa dono, cioè spazio e tempo dedicati agli altri, l’ho capito meglio dai molti ragazzi che mi hanno raccontato, felici, di aver cominciato a donare il sangue dopo aver letto il mio primo libro, o a prestare servizio di volontariato dopo aver letto il terzo. Gli adolescenti non provocati dalla vita, non posti di fronte a delle ragioni per darsi ma solo a delle proposte per consumare, non riescono a percepire la grande sfida che riempie una vita di senso, come scrive Dante nel Convivio: “A l’adolescenza dato è quello per che a perfezione e a maturitade venire possa”.
Ma come si fa, Giacomo, a dare corso a questo slancio del rapimento e a mettersi in viaggio verso un compimento? E qual è mai questo compimento?