Crescere è creare

Quando altro frutto non ci venga da questa navigazione, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione.

“Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez”, Operette morali

Caro Giacomo,

tu mi hai insegnato che l’energia di un adolescente è chiamata a creare, e che è il processo creativo che conta, non il successo, come spesso siamo indotti a credere. Il senso della vita è il compimento e il compimento è un processo che conosce lotte, cadute, battute d’arresto, come sa ogni scultore che nella materia trova la resistenza necessaria a dare vita alla sua intuizione. L’adolescente riesce a rialzarsi proprio perché ha la forza della sua linfa giovane, l’eccesso di speranza. La smania del successo, invece, cancella la condizione storica dell’uomo, la sua fragilità, la sua temporalità, e lo vuole subito perfetto, pronto, già fatto. Solo il tempo mostra la grandezza di un amore, di un’opera, di un uomo.

Non possiamo eliminare le stagioni che servono al seme: le piogge, le nevicate, i rigori dell’inverno, il vento e le bufere, il caldo e la siccità sono tutti elementi che fanno parte del processo, tutti elementi della vita, di cui il seme ha bisogno, così come ne ha bisogno un adolescente.

Anche tu, Giacomo, hai dovuto affrontare queste intemperie negli anni della tua adolescenza, e strappare le risposte alle pagine dei libri e della natura, precipitando spesso in una solitudine dolorosa e in un silenzio che agli occhi di chi ti circondava era spesso incomprensibile. Anche tu avevi cominciato a pensare che la gloria nelle lettere ti avrebbe guadagnato l’amore che cercavi disperatamente, prima di tutto quello di tuo padre e tua madre. E così iniziasti a impegnare ogni tua risorsa nello studio “matto e disperatissimo”, per dare frutto, per compiere il tuo rapimento poetico. Solo a poco a poco capisti che la meta era creare bellezza, non usarla per affermarti. Creare è il segreto del compimento, e creare è un processo, non un improvviso accadere.

Mi ricordo di una ragazza che aveva capito che il suo rapimento era la moda, ma sapeva che quel sogno era di molti altri. Decise di mettersi alla prova, sottoponendosi alle “intemperie”. Conobbe una sarta, dalla quale passava due pomeriggi a settimana per imparare come si cuce un vestito. Quando finì gli studi liceali, a differenza di tutti gli altri che volevano diventare stilisti, lei già sapeva realizzare un abito, conosceva la fatica e gli errori che ci vogliono, i fallimenti e le frustrazioni, e li aveva accettati tutti come materia del suo rapimento, che si era così confermato: per questo poté scegliere ciò da cui era stata scelta e non improvvisare un sogno preso in prestito da altri.

Mi ricordo di un ragazzo che aveva bisogno di soldi per comprare un computer nuovo e un motorino, ma i suoi non potevano aiutarlo, perciò, nonostante a scuola raggiungesse a malapena la sufficienza in matematica, decise di studiare dei libri sul calcolo probabilistico e imparò le regole del poker online, che gli consentì di procurarsi il denaro che gli serviva. Forse non è un esempio edificante, ma quello che mi ha colpito è l’energia che ci vuole per accettare una sfida del genere, creando la soluzione.

Mi ricordo di una ragazza che al quarto anno delle superiori era già convinta di voler fare la giornalista e, dopo aver scritto a lungo per il giornale scolastico, tese un agguato al direttore del quotidiano principale della sua città, per chiedergli qualche consiglio. Così cominciò a scrivere sin dall’ultimo anno di liceo pezzi di cronaca locale, soprattutto su partite di calcio di infimo livello, in cui da raccontare c’erano più che altro gli improperi all’arbitro. Quelle prove le confermarono la sua strada e durante l’università scriveva già regolarmente per quel giornale.

Potrei raccontartene ancora tanti, Giacomo, di ragazzi capaci di assecondare il loro eccesso di speranza e mettere alla prova il loro rapimento, per scoprire se è frutto di un’illusione della conoscenza di sé o una vera e propria chiamata.

Nessuno di loro ha avuto successo, perché nessuno di loro lo ha cercato. Si sono concentrati sul processo, sul paziente lavoro quotidiano, il fratello maggiore dell’ispirazione, come diceva Baudelaire. Tutte le persone che hanno realizzato il loro sogno hanno capito che il primo passo per custodirlo era andare a bottega come facevano gli artisti di un tempo, mettersi alla prova, imparare l’arte di creare e quindi di crescere. Quando, a dodici anni, Michelangelo Merisi disse a sua madre che voleva fare il pittore, lei gli rispose di sì e lo mandò a bottega dal miglior pittore del tempo. Quel ragazzo divenne Caravaggio.

Come ti ho già scritto, non c’è rapimento senza maestri, senza qualcuno che sappia vedere nel seme la rosa, come accadde a un certo Charles Darwin, uno studente di ventidue anni non particolarmente brillante, nel quale però un professore di botanica aveva intuito uno slancio non comune, scegliendolo come naturalista in una spedizione scientifica.

Moltissimi esempi come questo, anche meno illustri, dimostrano che ciò che conta non è un talento visibile ed eclatante, se c’è tanto meglio; ciò che conta è la fioritura di quella persona e del suo sguardo appassionato sulla realtà, dell’inedito che può realizzare, con l’aiuto dei maestri. Il “talento” anticamente era un’unità di misura molto grande, e l’uso che spesso facciamo della parola è frutto di un’errata interpretazione. In un passo del Vangelo di Matteo (Mt 25, 14-15) è usata per indicare ciò che un ricco padrone, in partenza per un viaggio, affidò ai suoi servi: diede un certo numero di talenti “a ciascuno secondo la sua capacità”. Qui il talento non è un’abilità naturale, innata, come nella nostra interpretazione individualistica, ma tutto ciò che ci dona la vita in base alle nostre capacità: un bicchiere riceve tanto liquido quanto ne può contenere. Il talento non è una sorta di ingiusta distribuzione del destino, è la parte di mondo che possiamo accogliere e di cui possiamo prenderci cura al meglio, non al di sotto e non al di sopra delle nostre capacità. I talenti sono le cose e le persone che ci vengono affidate in base alla nostra abilità di portarle a compimento. A questo sono chiamati tutti.

Anche tu, Giacomo, cercasti dei maestri, persone che ti guidassero nella tua aspirazione, e li trovasti scrivendo loro lettere. Oggi più di allora è facile “andare a bottega” da qualcuno che possa metterci alla prova e farci crescere. Ricordo ancora ciò che mi disse una scrittrice dopo aver letto qualche mio inedito: “Ci sai fare, ma devi imparare la tecnica”, e mi diede alcuni consigli che mi portarono a investire un anno intero nel progetto di scrivere il mio primo romanzo.

Succede così, è come se una luce si posasse sulla testa di una persona e ne rivelasse le possibilità di sviluppo. Solo chi sa vedere quella luce, per mezzo dell’immaginazione, può far fiorire i destini, permetterci di ricevere in dono la vita. C’è un vedere che è credere, perché è sperare, Giacomo, ma sperare richiede di essere disposti a servire la vita che si è intuita nell’altro. Si è poeti quando si ha fede nei talenti, cioè non nelle nostre abilità ma nelle cose che ci sono affidate. Ed esse fioriranno e faranno fiorire noi.

Se la scuola facesse un vero e proprio orientamento basato sull’originalità di ogni ragazzo, se fosse il luogo in cui dispiegare la capacità di ricevere il mondo e andare a bottega, sarebbe quello che deve essere: una fucina di rapimenti, un eros incanalato verso la costruzione di un mondo di speranza.

Crescere non è aver successo, ma è discendere, andare in profondità, dove il rapimento può mettere radici. Creare senza lasciarsi paralizzare dalla paura di fallire è il modo per far sì che il rapimento diventi realtà feconda. Non fa forse così ogni seme? Cerca profondità perché cerca la luce, cerca di morire nella terra perché cerca di vivere nella luce. Ma cosa accade quando l’invisibile resta tale, quando l’originalità di una persona rimane nascosta per assenza di sguardo?