Caro Giacomo,
non sempre, anzi forse raramente, la strada del fuggire è la stessa del cercare. Anche per questo la maturità è trovare il coraggio di cercare, più che di fuggire. Quando un ragazzo scopre il suo rapimento si sente chiamato a sperimentare se la sua originalità può veramente arricchire il mondo.
Qualche tempo fa un adolescente mi confidava che, pur di far capire ai genitori che la sua esistenza aveva bisogno del loro sguardo per fiorire, che la loro assenza era intollerabile, come i loro silenzi, aveva passato una notte fuori casa. Li aveva costretti così ad aver paura di perderlo, a riconsiderare le fondamenta su cui stavano costruendo il rapporto con lui. Da quel giorno qualcosa era cambiato.
Anche tu, Giacomo, decidesti che l’unico modo di vivere integralmente la tua vita e mettere alla prova il tuo fuoco era ribellarti ai limiti che ti imponevano la famiglia e il paesello in cui eri nato e fuggire. L’ho capito quando ho letto la lettera che scrivesti a tuo padre il giorno in cui decidesti di partire di nascosto, e che affidasti a tuo fratello Carlo perché gliela consegnasse a cose fatte. È la lettera di un ragazzo che scappa di casa raggiunta la maggiore età, e credo contenga tutto quello che c’è da sapere su di te. Ecco che cosa gli scrivesti, in righe che spero mi perdonerai se ho reso più vicine, in aspetti superficiali, alla lingua del nostro tempo:
Papà,
sebbene dopo aver saputo quello che ho fatto questa lettera ti potrà sembrare indegna di esser letta, a ogni modo spero che avrai la bontà di non rifiutare di sentir le prime e ultime parole di un figlio che t’ha sempre voluto bene e soffre infinitamente di darti un dispiacere. Tu conosci me, e conosci la mia condotta, e forse quando vorrai aprire gli occhi, vedrai che in tutta l’Italia, e sto per dire in tutta l’Europa, non si trova altro giovane, che nella mia condizione, in età anche molto minore, forse anche con doni intellettuali inferiori ai miei, abbia avuto la metà di quella prudenza, privazione da ogni piacer giovanile, ubbidienza e sottomissione ai suoi genitori che ho avuto io. Per quanto tu possa disprezzare quei pochi talenti che il cielo mi ha concesso, tu non potrai non ascoltare quanti uomini stimabili e famosi mi hanno conosciuto e hanno riportato di me il giudizio che sai e non devo ripetere. Tu non ignori che quanti mi hanno conosciuto, persino quelli che sono perfettamente concordi con i tuoi principi, hanno giudicato che io dovessi riuscire in qualche cosa di straordinario, se mi fossero dati quei mezzi che, oggi come ieri, sono indispensabili per fare riuscire un giovane che dia anche mediocri speranze di sé. È sorprendente come chiunque abbia avuto anche superficiale conoscenza di me, immancabilmente si sia meravigliato che io viva ancora in questa città, e come tu solo fra tutti, sia di parere contrario e irremovibile.
Scrivi le cose che ogni figlio che scappa di casa scriverebbe a un padre (o a chiunque si prenda cura della sua educazione) incapace di vedere la sua originalità e di incoraggiarne il fiorire in un contesto diverso da quello ristretto in cui è cresciuto. A onor del vero, proprio quella casa, quella campagna, quei notturni e quei libri, nella quieta stagione dei sedici e diciassette anni, avevano dato la possibilità al tuo genio di aprirsi e andare in profondità, in altezza e in ampiezza, tanto che adesso quel genio si sentiva imprigionato e non gli bastava più “fingere” l’infinito oltre la siepe. Doveva liberarsi. Ma tuo padre non voleva, Giacomo. Non ti restava che fuggire e, parlando proprio della libertà che ti è necessaria per dare pieno compimento alla tua vita, continui così:
Certamente sai che non solo in una città un po’ viva, ma persino in questa, non c’è quasi giovane di diciassette anni che dai suoi genitori non sia seguito, al fine di sistemarlo in quel modo che più gli conviene: e taccio poi della libertà che tutti hanno alla mia età, e io di quella libertà ne ho ricevuto appena un terzo a ventun anni.
Cos’è, Giacomo, la vita, se non provvedere al proprio destino? Che cosa l’amore se non trovare un custode valido e affidabile di quel destino? Come si fa a vivere senza annoiarsi se non si dà pieno corso a quel destino, trasformandolo in destinazione?
Ma lasciando stare questo, benché io avessi dato prova di me, se non m’inganno, abbastanza rara e precoce, tuttavia solamente molto dopo l’età consueta, ho cominciato a manifestare il mio desiderio che tu provvedessi al mio destino, e al bene della mia vita futura nel modo segnalato dal parere di tutti. Io vedevo parecchie famiglie di questa medesima città, molto meno agiate della nostra, e sapevo poi di moltissime altre di altre città, che scorto anche solo un leggero barlume d’ingegno in un figlio, non esitavano a far grandissimi sacrifici per sistemarlo in maniera adeguata a far fiorire i suoi talenti. Sebbene molti credano che il mio intelletto mandi più che un barlume, tu tuttavia mi giudichi indegno dei sacrifici di un padre, né ti pare che il bene della mia vita presente e futura valga qualche cambiamento ai tuoi piani familiari. […] Quando domandai che mi concedessi qualche mezzo per trovarmi da vivere in maniera adatta alle mie circostanze, senza essere a carico della mia famiglia, fui accolto con risate, e tu non hai creduto che le tue amicizie o cure si dovessero impiegare per questo tuo figlio. Io sapevo bene i progetti che tu avevi su di noi, e sapevo anche che per assicurare la felicità di una cosa che io non conosco, ma sento chiamar casa e famiglia, tu esigevi da noi due il sacrificio, non di beni né di cure, ma delle nostre inclinazioni, della gioventù e di tutta la nostra vita. Dal momento che questo sacrificio da me e da Carlo non avresti mai potuto ottenerlo, non mi restava nessuna considerazione di questi progetti, e non potevo accettarli in nessun modo.
Tuo padre non volle provvedere a una tua sistemazione altrove. Forse non comprendeva fino in fondo quei tuoi talenti e quelle tue aspirazioni, forse non ti riteneva capace di autonomia fuori dal borgo, forse non aveva i soldi o tua madre non gli consentiva accesso a quelle finanze che aveva pazientemente dovuto mettere in ordine. Tu, Giacomo, lo vivevi come il sacrificio di te stesso sull’altare di genitori ciechi o semplicemente con progetti “più sicuri”. Ma la tua chiamata alla poesia e all’amore (sì, perché cercavi anche una donna da amare e che ti amasse) sfidava la sicurezza, preferendole la verità e il rischio.
Forse tuo padre pensava di proteggerti, forse ti amava più di quanto tu percepivi dalle sue scelte. Vedi, Giacomo, ci sono padri che generano biologicamente e poi si dimenticano di generare anche spiritualmente i propri figli, li lasciano orfani di senso, ma non è il tuo caso. Monaldo ne aveva fin troppo di senso da darti, tanto da dettarti il copione della tua vita – dovevi, in quanto primogenito, ereditare casa Leopardi, le tenute e la biblioteca, le rendite per poterti dedicare ai tuoi scritti come un intellettuale libero da altre incombenze –, ma non riusciva a vedere il copione scritto di tuo pugno, e così inaridiva il tuo genio, che si ribellava.
La noia per te era divenuta insopportabile. Non la noia superficiale, quella del “non so cosa fare”, dell’assenza di emozioni forti, ma la privazione del destino e della destinazione, quello stato di angoscia di chi sa di essere fuori posto, di chi sa che non sta vivendo abbastanza, che non sta dando pieno corso alla sua vocazione. Avevi cominciato a scrivere, perché la scrittura è il luogo in cui si supera il limite e si combatte la propria incompiutezza, riparando ogni possibile inadempienza e raccontando come sarebbe dovuta o potuta andare. Cos’era per te scrivere, se non vivere? Non è forse “vita” il termine più frequente nei tuoi canti? In essi vivevi a tal punto che il corpo non sopportava più quell’esilio, e il genio gli chiedeva di seguirlo oltre la siepe delle facili sicurezze.
Eppure tu hai lasciato per tanti anni un uomo del mio carattere, o a consumarsi in studi micidiali o a seppellirsi nella più terribile noia, e per conseguenza, malinconia, derivata dalla solitudine e da una vita mai spensierata, sopratutto negli ultimi mesi. Non tardai molto a rendermi conto che nessuna possibile e immaginabile ragione potesse farti cambiare proposito, e che la fermezza straordinaria del tuo carattere, coperta da una continua dissimulazione, e apparenza di cedere, era tale da non lasciar la minima ombra di speranza.
Ora volevi prendere la tua vita in mano da solo: farti carico della tua sorte. La tua è la libertà del seme, che decide di marcire abbandonando le vecchie abitudini e sicure convinzioni per dare pienezza alla sua natura e al suo rapimento. Più sicuro è stare sottoterra e dentro la scorza del proprio io, ma senza libertà. Libero è l’uomo che assume la propria sorte come dono e compito, e rimane fedele a se stesso, perché ne va della possibilità di offrire agli altri la sua essenza, contrastando la vile prudenza che ci rende simili ad animali che hanno come unico obiettivo la conservazione della specie: allora sì che saremmo fatti solo per la morte. Tu, Giacomo, riflettendo sulla natura umana, avevi capito che è sì animale, ma è anche altro, è capace di sollevarsi su quell’animale e superarlo: è un embrione di infinito, un “qui” in cerca di un “oltre”.
Tutto questo e le riflessioni fatte sulla natura degli uomini, mi hanno persuaso che io benché sprovvisto di tutto, non dovevo confidare se non in me stesso. E ora che la legge mi ha reso responsabile di me stesso, non ho voluto più tardare a farmi carico della mia sorte. Io so che la felicità dell’uomo consiste nell’esser contento, e perciò più facilmente potrò esser felice chiedendo l’elemosina, che in mezzo agli agi che posso godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci raffredda e lega e rende incapaci di ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa vita infelice senz’altro pensiero. So che mi riterrai pazzo, come so che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome. E poiché la carriera di quasi ogni uomo di gran genio è cominciata dalla disperazione, non mi preoccupa che la mia cominci così. Preferisco essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi, tanto più che la noia, fonte per me di depressione mortale, mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo.
Queste righe per me, Giacomo, sono un capolavoro: rendono abitabile persino la disperazione. Il genio comincia con una disperazione che in realtà è speranza, è lasciare il porto sicuro per entrare in mare aperto e navigare verso un nuovo continente dell’anima tutto da scoprire e abitare. Hai scritto i tuoi versi migliori lasciandoli scappare dalle tue notti oscure. Caro Giacomo, è qui che ti sento mio amico fraterno, quando scrivi “preferisco essere infelice che piccolo”, “soffrire piuttosto che annoiarmi”. Libera dal mito della sicurezza, dell’equilibrio, della comodità, la vita è nelle tue mani e pulsa e fa paura e torce le viscere e genera lacrime e insonnie. Ma questa è la vita, e il suo contrario non sono l’infelicità e la sofferenza, ma la pusillanimità e la noia che ne consegue. La ristrettezza di chi rimane seme e non dà frutto, di chi non si impegna per amore. In costui prevale la paura di soffrire sulla voglia di vivere, il cuore si indurisce, come un uccello che tenga le ali chiuse per timore del loro peso, per l’assurda paura di essere fatto per volare. Grazie, Giacomo. Ti prometto che non sarò mai piccolo e annoiato, piuttosto infelice e sofferente, ma fedele alla vita.
Nel tuo caso, questo significava abbandonare le sicurezze della casa paterna, dove la grandezza veniva misurata con calcoli e metro, sulla base dell’utile:
I padri sono soliti giudicare i loro figli più favorevolmente di quanto li giudichino gli estranei, ma tu al contrario mi giudichi più sfavorevolmente di ogni altra persona, e quindi non hai mai creduto che io fossi nato a niente di grande: forse non riconosci altra grandezza che quella che si misura coi calcoli e con il metro. Ma riguardo ciò molti sono d’altra opinione; quanto a me, siccome il disperare di me stesso non può altro che nuocere, così non mi rassegno all’idea di vivere e morire come i miei antenati.
Poi chiedevi scusa per il denaro che avevi sottratto per poter sopravvivere, almeno nei primi tempi. Non era così facile fuggire da Recanati e arrivare fino a destinazione, per questo avevi dovuto chiedere un passaporto di nascosto, ma eri disposto a tutto pur di non morire di disperazione, nel momento della vita fatto per la speranza:
Avendoti spiegato le ragioni della mia scelta, resta che io ti domandi perdono del disturbo che ti reco con questa lettera e con quello che porto con me. Se la mia salute fosse stata meno incerta avrei voluto piuttosto andar mendicando di casa in casa che toccare un centesimo tuo. Ma essendo così debole, e non potendo sperar più nulla da te, per le frasi che ti sei lasciato uscire a bella posta più volte disinvoltamente di bocca a questo proposito, mi vedo obbligato, per non espormi alla certezza di morire in mezzo alla strada il secondo giorno, di comportarmi nel modo che ho fatto. Me ne duole moltissimo, e questa è la sola cosa che mi turba nella mia scelta, pensando di far un dispiacere a te, di cui conosco la somma bontà di cuore, e le premure per farmi viver soddisfatto nella mia condizione. Io te ne sono grato con tutta l’anima, e mi pesa infinitamente di sembrare affetto da quel vizio che detesto più di tutti, cioè l’ingratitudine. Soltanto la differenza di opinioni, che non era in alcun modo conciliabile, e che doveva necessariamente condurmi o a morir qui di disperazione, o portarmi a questo passo che io faccio, è stata la causa della mia disavventura. È piaciuto al cielo per mio castigo che il solo giovane di questa città che avesse pensieri un po’ più che locali, toccasse a te, e che il solo padre che giudicasse questo figlio come una disgrazia, toccasse a me. Quello che mi consola è il pensare che questo è l’ultimo dispiacere che ti do, e che serve a liberarti dal continuo fastidio della mia presenza, e dai tanti altri disturbi che la mia persona ti ha recato, e molto più ti causerebbe in avvenire.
Ma promettevi che avresti restituito quei soldi, Giacomo, e supplicavi che lui ti ricordasse non come un malfattore, ma pur sempre come un figlio, che non rinnegava del tutto l’amore per chi gli aveva dato le origini:
Mio caro papà, se mi permetti di chiamarti con questo nome, io m’inginocchio per pregarti di perdonare questo infelice per natura e per circostanze. Vorrei che la mia infelicità fosse stata tutta mia, e nessuno avesse dovuto risentirsene, e così spero che sarà d’ora innanzi. Se la fortuna mi farà mai padrone di nulla, il mio primo pensiero sarà di rendere quello di cui ora la necessità mi costringe a servirmi.
L’ultimo favore che ti domando è che se mai avrai un ricordo di questo figlio che ti ha sempre amato, non lo scacci come odioso, né lo maledica; e se la sorte non ha voluto che tu potessi lodarlo, non rinunci almeno a concedergli quella compassione che non si nega neanche ai malfattori.
Con l’uscita di casa finisce l’adolescenza, si abbraccia la vita senza rete, si affronta il destino. Dopo aver dato corso all’eccesso di speranza è venuto il momento dell’esperienza, e del suo eccesso.
È tempo di inaugurare un’altra tappa: la maturità.