Caro Giacomo,
giunge un momento nella vita di un adolescente in cui la parola svanisce. Ogni risposta si riduce a suoni indispettiti, mugugni, o al proverbiale “Niente…”, che risuona tutte le volte che una madre chiede al figlio tornato da scuola: “Che cosa hai fatto oggi?”.
Quel “niente” è il segno più promettente della paura che il seme ha di morire, quel silenzio e quella solitudine sono necessari perché si crei uno spazio, noto come intimità o interiorità, nel quale il seme potrà spezzarsi, quando ne troverà il coraggio. La maggior parte dei semi porta con sé il primo nutrimento per aprirsi, quella polpa che gustiamo spesso come frutto, protezione e cibo per un seme svariate volte più piccolo.
Dopo la fuga fallita il tuo rapimento, Giacomo, sembra spegnersi, le parole azzittirsi, la speranza di futuro ridursi a un ricordo del passato. Inizia un silenzio poetico quasi totale che durerà sei anni, dal 1822 al 1828, riempito quasi soltanto da righe in prosa, tra le più fredde e ironiche dei tuoi scritti. L’esperienza ha spazzato via ogni illusione, ogni seme di futuro. Non c’è alcun destino capace di diventare destinazione, il rapimento si riduce a un sussurro lontano a cui è sempre più difficile prestar fede. Quante volte accade nella vita degli uomini che il grande bagliore del rapimento venga ridimensionato e riposto nell’angolo più oscuro del cassetto dei sogni, come un’illusione, spazzata via dalla realtà. Del grande amore, del grande sogno, del grande futuro… rimane solo un’eco lontana, come un rimorso. Il rimorso del destino perduto.
Eppure, anche se nel corso di una vita nessuna delle nostre cellule rimane la stessa, sappiamo che in noi c’è un nucleo stabile che dura nel tempo, un luogo intatto, originario e originale, da cui sembrano sgorgare il dire e il fare che più sono nostri, da quando siamo bambini a quando siamo vecchi. È un luogo sempre nuovo e rinnovabile, da cui si libera una specie di spensierata sicurezza, il luogo interiore in cui possiamo contenere la vita e sentirci dalla vita contenuti.
La scrittura porta gradualmente lì, nel posto da cui sgorga la sorgente. Anche per questo non trovo strano che l’adolescenza sia età di diari, di scritture ossessive, di sogni da scrittore o da scrittrice, perché scrivere è scendere nel cuore del cuore per imparare ad abitare se stessi e quindi la vita. La penna diventa un piccone, la pagina una luce.
Lo sapevano i tuoi amati “antichi”, Giacomo, per i quali la parola fato e la parola fabula (da cui il nostro “favola”) hanno la stessa origine. Vengono da una radice che indicava il “dire” sacro, il dire degli dèi, il dire autorevole, il dire che si compie. Quando Zeus “dice”, le cose accadono e sono: determina il fato, il destino. Dalla stessa radice veniva la parola del racconto: fabula. Il suffisso -bul si unisce alle radici verbali per indicare lo spazio in cui si realizza quello che la radice indica. Infatti la fabula, il racconto, è proprio il luogo e il mezzo grazie al quale il fato ci raggiunge e si compie. Lupus in fabula per un antico romano significava non che la persona citata arrivasse per una mera coincidenza, ma proprio perché evocata dal discorso. I racconti preparano le cose e le fanno accadere. Senza parola che racconta, in noi non c’è modo di scoprire la nostra storia: è dimostrato che i momenti che passiamo a “sognare a occhi aperti” sono dedicati a ipotesi narrative di cui siamo protagonisti e con le quali modifichiamo il passato o prepariamo il futuro. Il bambino privato delle favole è privato del copione che servirà a costruire la sua storia, per questo vuole ascoltarle a ripetizione, perché quella fabula dice come stanno le cose, costruisce una “metafisica fantasticata”, come la chiamava Vico.
Quando regalai a mio nipote una versione dell’Odissea per bambini, ogni sera, sotto stelle estive, tutta la famiglia si riuniva per ascoltarne qualche pagina. Giulio riempiva la lettura di domande, a volte difficilissime. Sentiva che quella storia lo riguardava, pur essendo così lontana, e per questo ogni sera si presentava puntuale con il libro in mano: “Oggi quanti capitoli leggiamo?”.
Spesso chi non legge fabulae, storie di destini altrui, non sa niente del proprio, e si accontenta del surrogato della fabula: la fama. Anche questo termine ha la stessa radice: è il dire che viaggia di bocca in bocca senza una fonte autorevole; qui la fonte è l’accumularsi di voci orizzontali, non la voce verticale, cioè quella che ha l’autorità dell’altezza (del dio) o della profondità (dell’io). Senza fabula il fato non ha luogo e mezzo con cui venire alla luce e compiersi, e cede il passo al “così dicono tutti”, al “così fan tutti”. Gli ebrei hanno un proverbio che amo: “Dio ha creato l’uomo per sentirgli raccontare storie”. L’uomo, fiato impastato di tempo e carne, è l’unico capace di raccontare la sua fabula, il suo destino e le sue destinazioni. Gli animali fanno versi, le piante foglie, le rocce tacciono. L’uomo racconta. Il linguaggio è la casa del nostro vivere, dove cresce prima di essere messo in pratica.
Un grande regista diceva che la trama strappa un senso al flusso della vita. Quando racconto la mia storia a un nuovo amico o alla persona di cui mi sono innamorato io scelgo certi momenti, nel fare la fabula di me mi posseggo, ho presa su di me. Così la mia essenza si mostra attraverso il racconto. E cosa scelgo se non ciò che mi rende, nel passato, nel presente e nel futuro, me stesso? Se non sono protagonista di almeno un racconto, il mio, svanisco, anzi, sono già svanito.
Tu, Giacomo, dopo la fuga fallita, hai passato molti anni senza “poesie”, ma non senza scrittura. Hai dovuto aspettare quasi altri due anni per lasciare Recanati con il benestare dei tuoi genitori, per iniziare un continuo viaggio di andata e ritorno (Roma, Recanati, Milano, Bologna, Recanati, Pisa, Firenze, Recanati) causato dalla delusione dei luoghi tanto agognati, in cui, a parte qualche rara eccezione, non hai trovato ciò che speravi: né il consenso alla tua arte, né lavori che ti permettessero di mantenerti a lungo.
Il seme del rapimento doveva mettere radici più profonde, la sua crescita sembrava momentaneamente sospesa a contatto col mondo e con le sue intemperie, ci voleva più forza, più radicamento. La prosa diventa strumento di questa ricerca di profondità. Il rapimento viene custodito dalla corazza della freddezza filosofica e razionale, ma pur sempre immaginifica, delle Operette morali, quasi come una coltre di neve sotto la quale la terra sembra morta, ma in realtà riposa per diventare ancora più fertile. Il canto, purificato dalle illusioni adolescenziali, dovrà tenersi equidistante dall’incanto e dal disincanto. Questo è il tempo del silenzio, della notte oscura. Assomiglia a quella fase di un amore in cui sembra finire l’incantesimo che faceva apparire tutto perfetto, eppure è solo l’amore che chiede di crescere e di mettere radici più profonde e pazienti, per una fioritura ulteriore.
È un tempo fecondo, anche se sembra proprio il contrario. L’arte del silenzio è la più dura da imparare, a causa della sua apparente assenza di frutti e di gioia. Pochi sono quelli che perseverano e ne gustano la polpa.
Si sta preparando una primavera migliore dopo un inverno di quasi sei anni, un raccolto ricco, un destino più pieno di destinazione, proprio perché messo alla prova.