Riparare è sinonimo di amare

Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando.

Zibaldone, 1819-1820

Caro Giacomo,

recentemente ho parlato con una donna di cento anni, lucidissima ed elegante, che indossava la sua età con totale naturalezza e una punta di orgoglio, come chi conosce i segreti dell’arte di riparare. Diceva di aver cominciato a capire qualcosa della vita intorno ai novant’anni, quando, costretta dal corpo a rallentare, costretta dagli occhi a rinunciare ai libri e dal buon senso a spegnere la televisione, si era soffermata per ore a ripensare a quanto le era successo in quasi un secolo. Aveva tirato fuori dai meandri della memoria tutti gli episodi e i ricordi che, come una sostanza più pesante, si erano depositati dopo un certo tempo sul fondale del suo mare interiore. E mi confidava che quel sedimento era fatto di una sola cosa: amore, l’amore dato e quello ricevuto. E lei lo chiamava bellezza, la bellezza di aver costruito qualcosa che resta: il peso di una vita. “Ciò che sai amare è il tuo vero retaggio […] Ciò che tu sai amare non ti sarà strappato” dice Ezra Pound nel Canto 81, e quella donna centenaria era giunta alla stessa conclusione. Il suo retaggio era ben fondato, architettonicamente stabile, indistruttibile, come un futuro anteriore: qualcosa che resterà ma è già avvenuto. Una dimora in cui abitare e far abitare.

Tu, Giacomo, hai raggiunto la stessa consapevolezza molto prima, perché hai bruciato le tappe della vita e a trentotto anni ne avevi cento, non semplicemente perché al tuo tempo si diventava vecchi più in fretta, soprattutto se minati nel corpo come lo eri tu, ma anche perché le età sono interiori prima che esteriori.

E quello che tu hai saputo amare, il retaggio che non ti sarà strappato, è la poesia, o meglio, la sua essenza: l’arte di riparare l’incompiutezza delle cose, prendendone il peso sulle proprie spalle, come si fa con un bambino stanco di camminare ma ormai vicino alla cima.

Il canto, dopo essersi inabissato sotto la roccia dell’esperienza, era riaffiorato come un fiume carsico verso la fine degli anni Venti. Era tornato come esigenza del cuore, ma di un cuore maturo, quello che vede il limite delle cose e lo accetta con coraggio, per renderlo occasione di fecondità.

La tua poesia supera l’incanto adolescenziale e il disincanto della maturità nelle profondità del canto di riparazione. Nonostante tutte le cicatrici, tu canti. Anzi, proprio grazie a esse.

Proprio là dove il pensiero si era sfinito non trovando più sbocco, la poesia riprende vigore e si innalza in modo diverso sulle macerie. Solo la poesia riscatterà la giovinezza perduta, solo la poesia preserverà la fedeltà a te stesso, Giacomo, al tuo rapimento originario, cresciuto grazie a tutte le sconfitte:

Uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù; è di assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia de’ miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; è di commuover me stesso in rileggerli, come spesso mi accade, e meglio che in leggere poesie d’altri: oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello ch’io fui, e paragonarmi meco medesimo; e in fine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da sé compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui.

(Zibaldone, 15 febbraio - 15 aprile 1828)

Questo voglio poter dire anche io, alla fine della mia vita.

Lasciando decantare la tua vita, era il canto a restare. Allora è proprio del canto che adesso dobbiamo parlare, il tuo retaggio, perché è “la cosa bella” che hai fatto al mondo. Avevi fatto qualcosa di simile alle stelle che contemplavi nelle tue passeggiate notturne e da cui avevi imparato la lezione della meraviglia: l’esserci di una cosa bella al mondo, anziché la distruzione, la fuga e la sconfitta. La bellezza c’era anziché non esserci, la bellezza che resiste al tempo, benché tu ne fossi il fragilissimo autore.

Ciò che sai amare decanta e si fa storia. Quella signora mi disse nel suo bellissimo italiano “sicilianizzato” che alla tenera età di novant’anni “l’amore arroccò”, e si riferiva a un Amore eterno, quello che “move il sole e l’altre stelle”, che a poco a poco l’aveva sedotta, superando gli ostacoli del suo cuore, dove si era insediato come mai aveva fatto: questo era il retaggio indistruttibile dei suoi cento anni di vita, la scoperta che prima che amare dovremmo lasciarci amare, prima che raggiungere l’infinito dovremmo lasciarci raggiungere dall’infinito. Quel retaggio non le sarebbe stato tolto, neanche dalla morte.

L’uomo ha l’altezza dell’infinito, ma con le sue sole forze non è all’altezza di raggiungerlo, può solo riceverlo, accoglierlo e corrispondergli. È poeta, Giacomo, chi accoglie, ospita la vita e si impegna a ripararla. La poesia non è decorazione, abbellimento, magia lanciata sul mondo, non è incantesimo che nasconde il limite. Ma non è neanche disincanto, perché non si può far poesia se non c’è eros per le cose fragili, senza speranza non si scriverebbe nemmeno una riga. La poesia è canto dell’infinito incastonato nel limite, innesto dell’invisibile nel visibile.

La poesia è un’etica ed estetica del quotidiano a tutti accessibile e da tutti praticabile, qualsiasi cosa si faccia nella vita: il nostro compito è trasformare la ripetitiva prosa quotidiana in versi, fare ogni giorno una cosa bella al mondo, portando a compimento o riparando un’incompiutezza. Questo cercano i tuoi versi, con i quali ripari chi invece non riesce a fiorire e perde fiducia. La tua vocazione alla bellezza è la chiamata che ci invita tutti, quotidianamente, a riparare la morte che minaccia la nostra originalità e quella altrui.

Questo è il tuo retaggio. Il buono e il bello fatto al mondo, a qualsiasi costo. Questa la tua storia.

Il resto è scoria.