Sul treno che la notte del 29 ottobre 1922 portava da Milano a Roma Benito Mussolini, il duce del Partito fascista, invitato nella capitale dal re Vittorio Emanuele III per ricevere l’incarico di formare il nuovo governo, viaggiava il giornalista americano Edgar Ansel Mowrer, il corrispondente in Italia del «Chicago Daily News».
Nei giorni precedenti, il giornalista era a Sofia per intervistare il re di Bulgaria, ma era rientrato precipitosamente in Italia perché il suo giornale gli aveva ordinato di recarsi subito a Roma, dove si preannunciavano importanti avvenimenti. Mowrer aveva prenotato un posto sul direttissimo 17, che partiva da Milano alle 20.30. Alla stazione trovò un assembramento di gente, e pattuglie di carabinieri che lasciavano passare solo chi aveva il biglietto di viaggio. Poi, in mezzo a una folla di giovani armati in camicia nera, scorse Mussolini. Lo conosceva dal 1915. Gli si avvicinò e gli chiese: «Signor Mussolini, mi dice cosa succede?». «Non lo sapete?» gli rispose. «Vado a Roma per instaurare il fascismo.» «Congratulazioni» soggiunse il giornalista. E salì sul treno con il duce trionfante delle camicie nere.1
Un americano in Italia
Mowrer aveva incontrato Mussolini la prima volta a Milano il 1º maggio 1915, il giorno stesso in cui era arrivato in Italia provenendo dalla Francia.
Aveva ventitré anni e dal 1911 viveva a Parigi, dove era andato a studiare con l’ambizione di diventare uno scrittore. Come molti giovani americani, era stato affascinato dall’effervescente metropoli francese. «Parigi era la civiltà, la prima che io avessi visto» scrisse nelle sue memorie.2
L’Europa viveva allora l’epoca bella della modernità trionfante. Nel continente più ricco, più colto, più civile e più potente del mondo, da oltre quarant’anni regnava la pace. E il giovane americano condivideva con milioni di europei la convinzione che il progresso della civiltà occidentale, guidato dalla ragione, dopo aver conseguito la vittoria su molte malattie che per millenni avevano falcidiato gli esseri umani, avrebbe sconfitto anche la passione degli uomini per la guerra.3
Poi, improvvisamente, il 1º agosto 1914 il regno della pace fu travolto dalla Grande guerra. Mowrer vide i soldati francesi partire per il fronte, ma non pensò di arruolarsi, come fecero altri giovani americani che si trovavano in Europa, perché si sentiva estraneo alle potenze in conflitto. Un mese dopo, mentre era a Londra in visita dalla fidanzata Lilian, una giornalista inglese, gli pervenne dal «Chicago Daily News» la proposta di andare in Belgio come corrispondente di guerra. Accettò e così ebbe modo di assistere personalmente alla tragedia di un paese neutrale invaso dal più potente esercito del continente, che lo assoggettò a una spietata occupazione.
L’esperienza in Belgio modificò l’atteggiamento del giovane americano verso il conflitto europeo: quando tornò a Parigi per Natale, era diventato un fervente fautore della guerra contro gli Imperi centrali. Il 27 aprile 1915, in seguito alle voci di un prossimo intervento dell’Italia nella guerra contro l’Austria pervenute alla redazione parigina del suo giornale, gli fu proposto di andare come corrispondente a Roma o a Vienna. Scelse Roma solo perché la fidanzata era innamorata dell’Italia e, in quanto inglese, si sentiva in guerra contro l’impero austro-ungarico.
Il 1º maggio Mowrer era a Milano. La città era invasa da manifestazioni e scontri fra neutralisti e interventisti. In una Casa del popolo ascoltò oratori socialisti che imprecavano contro la guerra. Più tardi, in un’altra piccola sala, sentì «un focoso tribuno, completamente calvo», incitare gli ascoltatori a sostenere l’intervento dell’Italia per conquistare Trento, Trieste e la Dalmazia, oppure a unirsi a lui per fare la rivoluzione.4
Quando finì di parlare, Mowrer si presentò all’oratore. Era Mussolini. Il quale, parlando in francese, spiegò al collega americano che all’inizio della guerra, come dirigente socialista e direttore del quotidiano del Partito socialista «Avanti!», aveva decisamente osteggiato l’intervento dell’Italia, ma in seguito aveva sentito l’appello della patria, si era dimesso da direttore dell’«Avanti!» e aveva fondato un proprio giornale, «Il Popolo d’Italia», votato alla causa dell’intervento e della grandezza dell’Italia. Per questo motivo era stato espulso dal Partito socialista. Ora, aggiunse Mussolini, piacesse o no agli italiani, il paese stava per entrare in guerra, e consigliò al giornalista americano di andare ad ascoltare il discorso che Gabriele d’Annunzio avrebbe tenuto a Quarto il 5 maggio.
Il giorno dopo Mowrer era a Genova. Seduto di fronte al mare, in uno splendido tramonto, si rese conto che ignorava tutto dell’Italia. Gli erano familiari i nomi di alcuni musicisti italiani e di Benedetto Croce, ma «dell’Italia moderna, della sua storia, dei suoi problemi, delle sue aspirazioni e della sua cultura» non sapeva «nulla». E non capiva come fosse possibile che una minoranza potesse imporre al governo di gettare il paese nella più grande guerra di tutti i tempi, sostenendo, in nome di un «sacro egoismo», che l’Italia doveva liberare le province irredente dal dominio austriaco ed estendere i propri confini fino alla Dalmazia.
A Quarto, Mowrer ascoltò il poeta, che si era proclamato vate della nuova Italia. Il personaggio non gli piacque: «piccolo, patetico istrione, super raffinato e ultrarozzo allo stesso tempo, un decadente primitivo».5 Tuttavia, di d’Annunzio lo colpì la capacità di entusiasmare la folla fino al delirio con la sua elaborata retorica. Al giornalista americano non era mai capitato di vedere tanta gente sedotta da un’oratoria così ampollosa. Fu il suo primo incontro con il nazionalismo italiano.
Pochi giorni dopo Mowrer era a Roma. Fu subito affascinato dai monumenti dei suoi venticinque secoli di storia. Nella pensione in cui alloggiava ebbe come prima insegnante d’italiano una marchesina, nazionalista e fervente interventista ma tutt’altro che orgogliosa delle antiche glorie italiane, perché, diceva, appartenevano ai secoli in cui l’Italia era divisa e asservita. Il giovane americano fu da lei iniziato alla conoscenza della lingua italiana attraverso la lettura della Divina Commedia.
Quando divennero amici, la donna palesò la sua arrabbiata sofferenza nel vedere l’Italia e gli italiani troppo condiscendenti, se non peggio, verso gli stranieri, mentre lei, nata in Piemonte, era fiera di appartenere a una regione che non si era mai sottomessa a principi forestieri e aveva combattuto per liberare l’intera penisola dagli stranieri e unirla nell’indipendenza. E ora la marchesina si proclamava interventista non solo perché desiderava liberare gli italiani delle province irredente, ma perché voleva che gli italiani, combattendo, si dimostrassero degni di essere una grande nazione.
La donna ammirava Mussolini e d’Annunzio, credeva a ogni loro parola, e leggeva entusiasta la stampa nazionalista, che l’americano considerava invece insopportabilmente fanatica. Tuttavia, dalle loro conversazioni, Mowrer capì che le motivazioni dell’interventismo italiano erano più profonde del desiderio di liberare Trento e Trieste e di conquistare la Dalmazia: la guerra doveva dimostrare al mondo che l’Italia era una grande potenza. Probabilmente la marchesina echeggiava nelle sue conversazioni quel che Mussolini scriveva in quei giorni sul suo giornale: «Il regime della neutralità, come tutti i regimi di rassegnazione e di rinuncia, minaccia di “decomporre” l’organismo della nazione. La neutralità ci ha incarogniti, invigliacchiti, divisi, demoralizzati. Ci ha reso calcolatori, egoisti, freddi, cinici. Tutte le “tare” del carattere italiano sono in questi mesi “scoppiate” alla superficie ... Se la neutralità continua ancora, l’Italia di domani sarà la nazione abietta e maledetta; una nazione condannata, senza autonomia e senza avvenire; i cantastorie, i ruffiani, gli affittacamere, i lustrascarpe, i suonatori ambulanti continueranno a rappresentare l’italianità per il mondo, e il mondo dei vivi regalerà ancora un po’ di compassione e molto disprezzo a noi, vinti senza combattere ... a noi, morti prima di nascere».6 Gli interventisti, proseguiva Mussolini, erano la prova che la «vecchia Italia degli schitarranti e dei cantastorie non è tutta l’Italia: c’è un’Italia nuova che i tedeschi non ignorano perché l’hanno vista laboriosa, prolifica, sobria, tenace nelle miniere della Westfalia e della Lorena ... Questa nuova Italia ha trentacinque milioni di abitanti nei suoi confini; ne ha sei milioni dispersi per il mondo. Domani, quando la grande parola sarà detta, tutti formeranno un blocco granitico e formidabile».7
Alla guerra con gli italiani
Nei giorni successivi Mowrer assistette alle manifestazioni interventiste nel centro della capitale, ascoltò le infiammate orazioni del poeta-vate, che incitava il popolo romano a insorgere contro il Parlamento, a picchiare i neutralisti, a far fuori Giolitti, da lui ribattezzato con disprezzo il «boja labbrone». E quando l’Italia entrò in guerra, Mowrer brigò per poter raggiungere subito il fronte come corrispondente, e ci riuscì, grazie alle amicizie che intanto si era fatto a Roma fra i politici e i militari, superando i divieti opposti ai giornalisti dei paesi neutrali.
Per tutta la durata del conflitto, fu sul fronte dove combattevano i soldati italiani, che gli parvero «impetuosi di slancio ma, nello stesso tempo, privi di entusiasmo».8 Sposò Lilian, e la coppia si stabilì temporaneamente a Vicenza. Alla fine di ottobre del 1917 il giornalista fu testimone della rotta di Caporetto, e rimase a Udine fino all’arrivo degli austriaci, riuscendo poi a raggiungere il nuovo fronte italiano, che era arretrato sul Tagliamento. Nei mesi successivi collaborò con un professore universitario americano, Charles E. Merriam, inviato in Italia su incarico del presidente Woodrow Wilson, «per convincere gli italiani che essi non erano soli ed erano un valido alleato nella lotta vittoriosa delle democrazie».9 Fra i mezzi di convinzione vi era il sostegno finanziario ai giornali italiani che incitavano il paese alla resistenza dopo Caporetto. Mowrer pensò a «Il Popolo d’Italia», e andò a trovare Mussolini nella modesta sede del suo giornale a Milano.
Mussolini era stato al fronte, dove si era comportato da buon soldato, meritando il grado di caporale, ma nell’agosto del 1917 era stato congedato in seguito alle ferite riportate dall’esplosione accidentale di un lanciabombe. Focosamente impegnato a spronare il governo e il paese alla resistenza e alla riscossa, il direttore de «Il Popolo d’Italia» fu lieto della proposta di un sostegno finanziario da parte del governo americano. Mowrer temeva che avrebbe chiesto una somma spropositata; invece si accontentò di proporre una cifra modesta, subito accettata dall’inviato di Wilson. Mowrer non seppe se la sovvenzione fu versata, anche se in seguito, durante la guerra, ebbe ancora occasione di incontrare Mussolini.
Mowrer si sentiva ormai impegnato a sostenere in ogni modo la riscossa degli italiani. Per far conoscere agli americani la parte importante che aveva l’Italia nella Grande guerra, dall’intervento fino alla resistenza dopo Caporetto, e indurre il suo governo a sostenere maggiormente lo sforzo bellico italiano, nei primi mesi del 1918 scrisse un libro intitolato Soldati della Terza Italia, dedicato «ai soldati italiani di cui racconta le imprese», ma non trovò un editore disposto a pubblicarlo.
Nell’ultimo anno di guerra, Mowrer fu ancora sul fronte italiano, e partecipò persino a qualche azione contro gli austriaci insieme ad alcuni ufficiali italiani divenuti amici. Con il comandante Luigi Rizzo fece un’avventurosa incursione notturna a Trieste a bordo di un MAS, e nel giugno del 1918 seguì l’offensiva che aprì all’Italia la strada verso la vittoria finale. Ma non poté essere presente alla battaglia di Vittorio Veneto perché all’inizio di ottobre cadde gravemente ammalato e fu sul punto di morire: aveva preso la «spagnola», l’influenza che fra il 1918 e il 1920 fece più vittime della Grande guerra. Per le sofferenze patite, pensò al suicidio, ma fu dissuaso dalla moglie, anch’essa ammalata. Mowrer giaceva ancora in un letto d’ospedale quando un’infermiera, che lui aveva scherzosamente soprannominato Mrs Macellaia, gli diede la notizia dell’armistizio.
Fortunosamente guarito, all’indomani della fine del conflitto Mowrer riprese il suo lavoro di corrispondente da Roma, dove fece amicizia con vari giornalisti e intellettuali, fra i quali Giuseppe Prezzolini, da lui definito «critico acutissimo».10 Viaggiò spesso in Europa, dalla Francia ai Balcani alla Turchia, per seguire le tormentate vicissitudini dei trattati di pace, le tensioni e i conflitti del dopoguerra.
Dopo l’orrenda carneficina di massa, Mowrer aveva sperato nell’avvento di un’epoca migliore: invece, assistette al violento riesplodere degli antagonismi nazionalisti fra vecchi e nuovi Stati, fra vincitori e vinti, al quale si aggiunsero la violenza degli antagonismi di classe, infiammati dalla rivoluzione bolscevica, e il dilagare del fanatismo politico di estremismi paramilitari di destra e di sinistra.
Tuttavia, in quello stesso periodo, quando non erano all’estero, Mowrer e la moglie si immersero nello studio della cultura italiana «dai misteriosi Etruschi fino a Benedetto Croce». Inoltre fecero frequenti viaggi nella penisola per vedere «quanto era possibile di quel che offriva l’Italia, dai laghi del Nord alla Sicilia». Percorsero a piedi il Veneto, gli Abruzzi, la Campania e la Puglia. «In breve», ricordò più tardi Mowrer, «se dimentichiamo la politica, sia nazionale che internazionale, la vita in Italia negli anni immediatamente dopo la Grande guerra fu una continua soddisfazione.»11
Italia sempreviva
Mowrer si affezionò all’Italia e agli italiani: lo dichiarò lui stesso nella prefazione al libro Immortal Italy (Italia immortale), scritto nel 1921 e pubblicato negli Stati Uniti all’inizio del 1922. Era un corposo volume di oltre quattrocento pagine, in cui il giornalista narrava le vicende italiane dall’Unità ai primi anni del dopoguerra, ed esponeva con franchezza le sue osservazioni sugli italiani, affiancando a elogi sinceri e non retorici critiche severe ai loro costumi, alla loro mentalità, alle loro abitudini, al loro modo di vivere, a vari aspetti della società italiana, della vita politica e dello Stato.
Nella prefazione precisava però che le critiche erano il frutto della sincerità di un osservatore, che in passato aveva egualmente criticato altri paesi compreso il suo, perché era convinto che analizzare senza pregiudizi i difetti di una nazione fosse un modo per fornire un contributo razionale alla loro cura. Del resto, il libro era dedicato «agli italiani di qualsiasi stirpe o partito, che sono riusciti, tra l’intolleranza di mezzo mondo, a preservare nel loro paese un’oasi di libertà sociale e intellettuale».
Mowrer definiva l’Italia la terra «dove i sogni diventano realtà».12 Rivolgendosi ai suoi connazionali, il giornalista li esortava a studiare e a visitare l’Italia, perché «vedere e conoscere l’Italia significa capire perché Dio, guardando la sua opera, disse che era buona».13
Il fascino dell’Italia, spiegava Mowrer ai lettori americani, scaturiva dal suo passato, dalle sue millenarie tradizioni, dalla suggestione tuttora viva delle sue tramontate glorie, dalla bellezza delle sue città e dallo splendore dei monumenti e delle opere d’arte disseminate ovunque nella penisola nel corso dei secoli. L’affascinante unicità dell’Italia, fra tutti i paesi europei, consisteva nella contemporanea presenza, entro lo spazio fisico della penisola, di una grande varietà di oggetti, di idee e di costumi, molti dei quali, per il giornalista americano, erano meritevoli di ammirazione.
Prima di tutto, il clima e il paesaggio. Il clima temperato di molte regioni consentiva solo in Italia di condurre «una vita veramente umana». La penisola era ovunque bella nei suoi scenari naturali, i più vari che si potessero immaginare, dalla cresta delle Alpi alle falesie degli Appennini fino alle zone palustri, simili alle paludi della Louisiana.14
Il giornalista metteva continuamente a confronto l’Italia con gli Stati Uniti. Osservava che i paesaggi italiani erano meno maestosi di quelli americani, ma li superavano per la perfezione dell’ambiente naturale e delle trasformazioni che l’uomo vi aveva introdotto. Così come decisamente superiori alle città americane, tutte senza storia, sempre moderne e continuamente modificate dalle esigenze della modernità, erano le città italiane, venuste di storia e armonizzate con la natura circostante, così che nulla sembrava più naturale del modo in cui sulla cima delle colline fiorivano i villaggi.
Il clima, la natura, le città erano belli perché vari, come varia era la popolazione italiana. «Anche se una comune personalità italiana prevale lungo tutta la penisola, ancora più tipica dell’Italia è la ricchezza dei caratteri locali.»15 La varietà dei tipi umani, prodotti dalla diversità delle condizioni naturali e dalle diverse civiltà che si erano succedute nel corso della storia, rendeva straordinariamente singolare la popolazione della penisola: fra tutti i popoli di razza bianca, affermava Mowrer, gli italiani erano «quanto di più vicino vi sia a ciò che noi chiamiamo civiltà».16
Anche i difetti che gli stranieri riscontravano negli italiani, avvertiva Mowrer, erano quelli di un’umanità altamente civilizzata, esaurita da un eccesso di vitalità, eppure capace di un «inatteso risveglio», com’era accaduto più volte nel corso della sua storia. Nei tempi più recenti, proprio quando agli stranieri gli italiani apparivano condannati a un declino irrevocabile, come all’inizio dell’Ottocento, la «terra dei morti» era risorta come nazione, per iniziativa di una minoranza energica ed eroica, che aveva compiuto il «miracoloso prodigio» di dare agli italiani l’unità politica e l’indipendenza di uno Stato sovrano, dopo quattordici secoli di divisione e asservimento allo straniero. «Una nazione capace di risvegliarsi due volte da un sonno simile alla morte» affermava Mowrer «merita l’epiteto di immortale.»17
Dall’antica Roma al Rinascimento, la storia d’Italia trascendeva l’ambito della penisola perché le sue vicende avevano un valore e un significato non solo italiano e neppure soltanto europeo, ma universalmente umano: «Francia, Spagna, Olanda, Inghilterra, Germania, per quanto abbiano contribuito alla creazione di valori umani, sono rimaste entro la loro dimensione nazionale, ciascuna con il proprio nazionale splendore, ma certamente mortale, mentre l’Italia è differente; ha una dimensione nazionale, ma nello stesso tempo ha qualcosa che la supera: ha una più vasta spiritualità, che la rende evidentemente immortale».18
Clima, natura, storia, umanità: per Mowrer tutto contribuiva al fascino unico dell’Italia, che, dopo i lunghi secoli di declino che avevano oscurato le glorie di Roma, del Medioevo e del Rinascimento, appariva ancora tanto vitale da indurre il giornalista americano a pensare che un giorno essa avrebbe nuovamente elettrizzato il mondo: «Il suo spirito universale, così largamente umano a confronto col gretto nazionalismo delle altre nazioni, sarà il più potente mezzo di salvezza, perché gli italiani portano nel loro sangue il destino di tutta l’era cristiana».19
Italia universale
Nello stesso anno in cui Mowrer pubblicava negli Stati Uniti Immortal Italy, usciva in Inghilterra il libro di un altro americano intitolato The Revival of Italy (Il risveglio dell’Italia). Il libro esordiva affermando che la vocazione universale alla realizzazione della salvezza nell’unità del genere umano era presente nella storia d’Italia fin dall’epoca di Augusto: ciò «assegnava all’Italia, negli ultimi duemila anni, un ruolo profetico unico, paragonabile a quello avuto da Israele nei secoli precedenti la nascita di Cristo».20
L’autore, George D. Herron, era un teologo protestante sessantenne; negli ultimi decenni dell’Ottocento era stato negli Stati Uniti il principale esponente del Vangelo Sociale, un movimento religioso che professava un cristianesimo impegnato a promuovere il miglioramento delle condizioni di vita e l’emancipazione delle classi lavoratrici. Herron aveva militato nel Partito socialista americano, ma nel 1901, in seguito al divorzio dalla prima moglie e al matrimonio con una donna molto più giovane – cosa che suscitò scandalo fra i membri della sua Chiesa –, aveva lasciato gli Stati Uniti e si era stabilito a Firenze, dove rimase fino al 1914.
Dopo l’inizio della Grande guerra Herron si era trasferito in Svizzera, facendosi promotore dell’intervento degli Stati Uniti. Divenne un informatore sulla situazione europea per i governi americano e britannico, ai quali riferiva le sue conversazioni e gli scambi epistolari con intellettuali e accademici tedeschi, e operò come emissario del presidente Wilson per sondare la possibilità di una pace mantenendo contatti sia con i rappresentanti dell’imperatore Carlo d’Asburgo sia con rappresentanti degli slavi. Dopo la fine della guerra, deluso dal Trattato di Versailles e dalle dure condizioni imposte alla Germania, manifestò la sua protesta nel libro The Defeat of Victory (La sconfitta della vittoria), pubblicato nel 1921.
The Revival of Italy, scritto dopo aver soggiornato in Italia nel 1920, fu l’ultimo dei molti libri pubblicati da Herron prima della morte, avvenuta nel 1925. Mentre lo scriveva, a Roma il teologo ebbe colloqui con il primo ministro Giolitti, con il ministro degli Esteri conte Carlo Sforza, con Benedetto Croce, ministro della Pubblica istruzione, con altri membri del governo, e con Giuseppe Prezzolini, suo amico fin dai tempi del soggiorno fiorentino.
Herron dichiarava di essere «un amante piuttosto che un critico dell’Italia, un avvocato piuttosto che un giudice», perché era convinto che l’Italia fosse l’unica nazione veramente devota alla causa della riconciliazione fra le classi e le nazioni, «con uno slancio sufficiente a prevenire la catastrofe definitiva della nostra civiltà».21
La missione dell’Italia, secondo il teologo protestante, derivava dalla specifica qualità della sua popolazione, che dall’epoca di Augusto fino al tempo attuale era sempre stata alla ricerca di un principio unificatore dell’umanità, un principio romano nella sua origine, ma universale nel suo valore, nel suo significato e nel suo scopo: realizzare una società dove autorità e libertà saranno congiunte nello svolgimento di «un divino corso della vita umana, dove il singolo e l’umanità camminano con lo stesso passo nell’ascesa verso l’alto».22
Questa ricerca, per Herron, era la vocazione storica dell’Italia. Di tale vocazione, purtroppo, gli italiani non erano sempre consapevoli, anche se era stata proclamata dalle voci più autentiche dell’anima italiana, da Virgilio a Carducci: le voci di san Francesco e di Dante, di Mazzini e di Cavour. Di Mazzini soprattutto, che aveva concepito la rivoluzione italiana con una dimensione non solo nazionale, e neppure soltanto europea, ma universale: la libertà e l’unità italiane dovevano essere le matrici della libertà e dell’unità del genere umano. Per Herron la vocazione universale dell’Italia tornava ad essere una speranza per tutta l’umanità, dopo la tragedia della Grande guerra, quando le nazioni, depresse e smarrite, cercavano una via di salvezza fra la «reazione più dura della storia», perseguita da un capitalismo finanziario internazionale completamente «impazzito», e la «potente illusione» della rivoluzione bolscevica. Herron vedeva la salvezza dell’umanità nel «risveglio dell’Italia».23
Dal Risorgimento in poi, una nuova Italia, risorta dopo secoli di asservimento e di assopimento morale, aveva compiuto enormi progressi, dimostrando la perenne vitalità del suo popolo. «Oggi in Italia pullulano le voci di una nuova primavera nazionale, che ha le sue fonti nell’antica Roma, fonti sempre fresche: la primavera del popolo italiano sembra inesauribile.»24 E con enfasi crescente Herron esaltava la perenne giovinezza degli italiani: «Avete dimenticato che gli italiani non invecchiano mai. E se voi inaspettatamente li vedete giovani e freschi, come se non ci fossero stati gli anni della battaglia e della morte e del tradimento, rinascere liberi e indomiti, voi vi sentite in presenza di un popolo amato da Dio».25 Gli italiani erano stati sempre così, e la causa della loro perenne giovinezza, osservava Herron, era dovuta «proprio a ciò che per noi è motivo della principale accusa nei loro confronti: l’italiano non si è mai sottomesso al dio della pura efficienza. Non ha mai sottoposto la sua vita a criteri materialistici, non ha mai accettato che il valore di un uomo o di una nazione consista nell’abbondanza delle cose che l’uno e l’altra possiedono, non hanno mai considerato l’esistenza della razza umana dedita solo alla produzione e al consumo di beni materiali».26
Nell’Italia attuale Herron vedeva gli albori di un nuovo Rinascimento testimoniato dalla diffusione popolare della cultura, perché le questioni sociali, le questioni della guerra e della pace, le questioni di politica estera avevano costretto gli intellettuali a usare un linguaggio comprensibile, mentre una nuova passione per la lettura e la conoscenza si diffondeva fra i giovani, aprendo orizzonti umani più vasti. Herron concordava con «il più illustre filosofo italiano Benedetto Croce» nel ritenere che il nazionalismo imperialista fosse stato vinto dall’idealismo mazziniano, che aveva radici cristiane, perché in Italia, «più che in qualsiasi altro paese, regna uno spirito di simpatia e di stima per le altre nazioni».27 L’internazionalismo spirituale era un antico abito mentale dell’Italia, come rivelava la sua storia: «saggezza politica, equilibrio, buon senso, orrore per le esagerazioni, sono parti integranti del carattere italiano». E Herron condivideva ancora con Croce la convinzione che, per la sua tradizione storica e per le condizioni attuali dell’anima nazionale, il popolo italiano fosse «altamente qualificato per promuovere lo sviluppo di una società universale».28
Herron intravedeva una nuova rinascita anche nella pittura e nella scultura, ma non nel futurismo e nel cubismo, per i quali secondo lui non vi era più molta passione in Italia, bensì nella tradizione italiana, non come imitazione ma come autentico ritorno allo spirito degli antichi, stimolato dai centenari di Leonardo e Raffaello. Inoltre riteneva che la nuova letteratura italiana non avrebbe seguito d’Annunzio nella malattia decadente con l’apologia del piacere e della brutalità, perché ora «l’italiano cerca verità spirituali e sociali, e questa ricerca ha oggi il suo profeta in Giovanni Papini, il quale, appartato, dedica lunghi mesi per preparare una storia di Cristo che si rivolgerà al popolo». Nel campo filosofico, prevaleva l’idealismo di Croce e Gentile, e di giovani come Guido De Ruggiero, che immergevano la filosofia nella vita riconoscendo che Dio si manifesta nel mondo.29
Herron ammirava Papini perché aveva abbandonato il futurismo, la politica, il nazionalismo, per farsi apostolo di un ritorno dell’Italia, dell’uomo e delle nazioni a Cristo, altrimenti nulla avrebbe salvato la civiltà e l’Italia dalla disgregazione. Fra i laici, oltre ai grandi filosofi idealisti, Herron ammirava Giovanni Amendola, che aveva lasciato una promettente carriera filosofica per dedicarsi alla politica, con l’intento di immettere nella realtà una spiritualità nazionale, e il teologo augurava a «un uomo così dotato di poter realizzare il suo proposito, e non essere sopraffatto dalle forze maligne che attendono, su una dimensione universale, di impossessarsi del potere politico».30 Fra i cattolici, oltre al neoconvertito Papini, Herron ammirava lo storico delle religioni Ernesto Buonaiuti, che univa «un grande fervore spirituale e un genuino spirito critico e una superiore dottrina», e il frate francescano Padre Pio, «che vive umilmente da asceta presso Foggia esercitando una crescente influenza sull’Italia cattolica. Un vero figlio di san Francesco. Egli vive meravigliose esperienze mistiche, e manifesta straordinari ma reali fenomeni spirituali, come le stigmate. Una possente energia spirituale rinnovatrice si irradia dalla sua persona sui visitatori».31
Dal nuovo Rinascimento italiano, Herron aveva motivo di confermare la sua convinzione sulla missione dell’Italia nel mondo sconvolto dal primo conflitto mondiale. Ispirandosi a Mazzini, il teologo vagheggiava per la Terza Italia la missione di promuovere la civiltà universale di una Terza Roma come alternativa salvifica alla dissoluzione della civiltà cristiana minacciata dal bolscevismo. L’«Italia immortale» poteva indicare una nuova via di salvezza per l’umanità. Il «nuovo Rinascimento» dell’Italia sarebbe divenuto un nuovo Rinascimento per tutte le nazioni.