Sibilla
1939
All’inizio non se ne accorsero. Erano nascosti dal limo variopinto dell’utero, quei filamenti rossi che marezzavano lo strato bianco della vernice caseosa, e loro erano distratte dai pianti della bambina e dall’impellenza di recidere il cordone blu ritorto che la legava alla madre. Le levatrici la passarono a sua nonna, che si chiamava Giovanna. Lei la prese, vide che era femmina e con il mignolo le tracciò una croce sulla fronte sporca. Solo a quel punto Giovanna guardò meglio: che cos’è? Peli. Volute lunghe, scure e appiccicose di peli che ricoprivano tutta la superficie della pelle macchiettata della sua prima e unica nipote. Le levatrici si affollavano ancora tutte intorno al corpo naufragato della madre, prendendosi cura di lei, mormorando come il mare, i gemiti della bambina come quello stesso mare che s’infrangeva. Giovanna la fasciò stretta e passò il fagotto a colei che l’aveva portata in grembo. La madre, che si chiamava Adriana, abbassò lo sguardo verso la faccetta pelosa e svenne immediatamente. Giovanna afferrò la bambina un attimo prima che ruzzolasse giù dal letto. Le levatrici si misero a ridere. Quante scene! La peluria sarebbe caduta. La piccolina aveva semplicemente dimenticato di mangiarla quando era ancora nella pancia.
Al suo risveglio Adriana venne implorata con insistenza di allattare. Prese la bambina tra le braccia. Sembrava che i peli sul suo corpo fossero diventati già più lunghi e più scuri. In mezzo a quella matassa Adriana riuscì a intravedere a stento un buco viola che si apriva e si chiudeva, dal quale proveniva un miagolio. E va bene. Proviamoci. Le sue dita litigarono con le labbra della neonata sul capezzolo finché lei non si attaccò e iniziò a succhiare rumorosamente. I peli che aveva in faccia tremavano al ritmo imposto dalla bocca e Adriana li accarezzò, piangendo sommessamente per quanto erano caldi.
Giovanna e Adriana infagottarono la bambina, la portarono a casa e la tennero lì. Aspettarono. Malgrado le rassicurazioni delle levatrici, però, i peli non caddero e non si consumarono. Così iniziarono a tagliarli, Giovanna con grande solerzia, Adriana con timida prudenza. Ricrescevano fitti e rapidi, come se si dipanassero dall’ombelico o dal ciuffo che aveva sul petto, un tubo oscuro lungo il quale lo sguardo di Adriana spesso vorticava mentre la allattava, domandandosi di chi o cosa fosse la colpa di quella maledizione.
Il padre della bambina si chiamava Giacomo Gavuzzi e c’erano buoni motivi per sospettare che nelle vene gli scorresse sangue pazzo. Nel 1888 suo padre, un albergatore di nome Pietro Gavuzzi, era partito dall’Italia alla volta dell’Inghilterra per imparare il mestiere. A Londra aveva preso moglie e nel 1899 se l’era portata, incinta, nel cuore dell’Africa. Lina era nata durante il viaggio, nel bel mezzo del Kalahari. Giacomo era nato sei anni dopo. Dopo un periodo al Grand Hotel Bulawayo e poi al Victoria Falls Hotel, Pietro se li era caricati di nuovo tutti e li aveva trascinati ancora una volta in giro per il mondo: di nuovo al Savoy a Londra, e poi al Plaza a Buenos Aires. All’inizio degli anni Venti la famiglia Gavuzzi aveva finalmente fatto ritorno in Piemonte.
Tutte quelle migrazioni quando erano così piccoli avevano dotato i giovani Gavuzzi di una mondanità raffazzonata. Erano ricchi, ma la loro istruzione lasciava a desiderare e le loro maniere ancora di più. Quando Lina fu in età da marito sposò un notabile di Alba e si trasferì nella casa della famiglia di lui, Villa Serra. Il fratello minore, Giacomo, non si sistemò mai. Senza radici, irrequieto, diventò un perdigiorno di professione. Come altri ad Alba con la testa vuota e le mani in mano, Giacomo passava le giornate a sbronzarsi e a riprendersi dalle sbronze, quasi sempre a casa della sorella, dove sapeva che sarebbe stato servito e riverito. Fu così che conobbe Adriana, che lavorava in quella casa come domestica. Non fu una relazione seria: tutti sapevano che Giacomo aveva piantato il proprio seme in più di una donna ad Alba. Tra di loro Adriana fu l’unica a dare alla luce una bambina ricoperta di peli.
Forse la colpa non era di Giacomo Gavuzzi. Adriana, però, giurò che non avrebbe dato alla loro figlia, come si usava fare, il nome della madre di lui, Ada, che in ogni caso non era un nome di origine italiana ed era troppo riconoscibile in una cittadina piccola come Alba, oltre che sospettosamente simile al suo. Invece la chiamò come una carta dei tarocchi che aveva trovato a Villa Serra mentre lavava i piatti. Era attaccata alla base di un calice che aveva rovesciato per riversarne il residuo sciropposo di Barbera. La carta era grande e spiegazzata e raffigurava una dama robusta con un cappello di piume che rimproverava un aristocratico. Una scritta dai caratteri ornati nella parte superiore recitava «contrarietà» e, in quella inferiore, «dispiacere».
Nell’attimo stesso in cui Adriana lesse le scritte sentì il pugno nodoso, che la stringeva da dentro, della prima contrazione. Sussurrò una parolaccia e si fece il segno della croce. Prese fiato e continuò a lavare i piatti mentre veniva scossa dalle contrazioni finché non fu chiaro che era arrivato il momento che stava aspettando. Era ora di raggiungere la casa al confine della cittadina dove le levatrici assistevano le donne meno abbienti. Mentre andava verso la porta sul retro della cucina, Adriana decise: o meglio, la decisione si prese da sola. Chiamare una bambina Dispiacere significava evidentemente attirarlo a sé, perciò scelse la parola sul dorso della carta. «sibilla».
La piccola Sibilla crebbe amata e nascosta. Viveva con la madre e la nonna in un vecchio capanno di caccia in mezzo ai boschi, dal quale non aveva il permesso di uscire. C’era una sola stanza, ma per motivi pratici Sibilla dormiva in un letto tutto per sé, con un lenzuolo bianco che si aggrovigliava tutte le notti e un cuscino che si alzava con lei tutte le mattine, avendolo il suo intrico di capelli avvolto in una rete come un pesce. I peli crescevano sottili, lisci e scuri, di un marrone che ambiva a essere nero. Emanavano calore, lucentezza e odore, un misto di quello che mangiavano e del sapone di sego che usavano.
A quattro anni Sibilla aveva ormai imparato lo schema generale della crescita dei suoi peli. Quelli che aveva in testa e sulla faccia erano gli stessi, come se lo scalpo semplicemente proseguisse sulla fronte e sulle guance, costeggiando gli occhi e le labbra. I peli delle braccia, delle gambe e del busto erano più lunghi. Ogni giorno crescevano fino a eguagliare la sua altezza: se li si teneva sollevati dal corpo formavano una sfera. Aveva poi alcune chiazze glabre che amava e che enumerava tutte le sere quando andava a dormire, un rosario di misericordia: ombelico, capezzoli, orecchie, piante dei piedi, palmi delle mani, gli spazi tra le dita dei piedi e delle mani. Non lo aveva ancora capito, ma anche i suoi genitali erano implumi.
Quando la madre di Sibilla era al lavoro era sua nonna a occuparsi di lei. Giovanna la lavava e le dava da mangiare, la sfrondava come un giardiniere zelante e bruciava il mucchio giornaliero di peli all’esterno del capanno per concimare i pomodori del suo orto. Giovanna insegnò a Sibilla i numeri, le lettere e tutto ciò che sapeva a proposito di quello che si vedeva dalla loro unica finestra: il fiume Tanaro; l’imponente castello di Monticello d’Alba con le sue torri – squadrata, rotonda e ottagonale; le Alpi in lontananza. Giovanna raccontava alla nipote storie che avevano per protagonista il contadino Gianduja, con il suo cappello a tricorno, la giacca rossa e marrone e il boccale di vino, la duja, l’amata Giacometta sempre in braccio.
Man mano che Giovanna invecchiava e la sua mente e i suoi occhi iniziavano ad annebbiarsi, spesso si dimenticava di tagliare i peli a Sibilla. Invece sistemava la nipote a terra tra le sue ginocchia e le ungeva, le pettinava e le intrecciava i peli per ore e ore, canticchiando canzoni popolari. A volte suddivideva i capelli di tutto lo scalpo per poi legarli ai mobili a formare una ragnatela, Sibilla un placido ragno nel mezzo di essa. Quando le trovava così, Adriana le guardava male e poi andava a preparare la loro misera cena. «Giochetti», mormorava con desiderio e disgusto.
Verso la fine della guerra un esercito di partigiani occupò Alba e proclamò una repubblica partigiana contro Mussolini. I partigiani – paesani e disertori dell’esercito – occuparono le case dei più abbienti e durante una rissa tra ubriachi a Villa Serra il marito della signora Lina finì infilzato dalla punta di un pugnale. Lina piombò in un dolore terribile e autodistruttivo. I domestici si allontanarono, tutti tranne Adriana. Lei aveva bisogno dello stipendio e si sentiva legata alla famiglia: Giacomo non lo avrebbe ammesso e Lina non vi aveva mai fatto cenno, ma la piccola Sibilla aveva il sangue dei Gavuzzi. Così Adriana continuò a fare le pulizie a Villa Serra e a occuparsi della signora Lina finché la vedova non emerse dal suo lutto.
Dopo l’occupazione partigiana, che ebbe breve durata, i fascisti riconquistarono Alba e anche loro presero ad autoinvitarsi nelle ville, alla ricerca di pasti caldi e donne pulite. Essere nuovamente costretta a fare da padrona di casa – stavolta per la fazione opposta – risollevò lo spirito di Lina. Non aveva convinzioni politiche a cui dare voce, perciò fu felice di accogliere i fascisti benestanti, che la riempivano di doni e complimenti. Quando la guerra finì, continuò a dare feste a Villa Serra. Era un modo per dimenticare. Da ormai quattro anni viveva solamente per il gusto del whisky e per il piacere di vedere la sua casa distrutta tutte le sere da gruppi di estranei. Adriana si disponeva a farla risorgere con pazienza tutte le mattine, raddrizzando i mobili ribaltati, asciugando le chiazze bagnate e grattando via quelle secche. La vita sarebbe proseguita in quel modo se la signora, con un commento distratto, non ne avesse rotto l’equilibrio.
Una mattina Adriana stava facendo le pulizie in salotto mentre Lina si aggirava nella stanza, cercando pigramente una sigaretta e facendo rotolare i calici da vino rovesciati che al suo passaggio urtava con l’orlo della vestaglia verde.
«Tu», disse la signora, interrompendo le sue peregrinazioni per lanciare un’occhiata incuriosita alla domestica. «Tu non sorridi più».
Adriana stava aprendo una tenda bordeaux e nascose un sospiro sotto il fruscio della stoffa e lo sferragliare del binario. Ci pensò su. Quand’era stata l’ultima volta che aveva sorriso?
«Il tuo lavoro è sempre lo stesso. Tu pulisci». La signora prese una forchetta sporca da un tavolo e la spostò su un altro tavolo. «Il mio lavoro è sempre lo stesso. Io sporco perché tu possa pulire». Prese un piatto sporco dal secondo tavolo e lo spostò sul primo. «È un buon sistema, no?».
«Sissignora». Adriana pensò all’anatra putrefatta che aveva trovato in bagno qualche minuto prima e alla fila di formiche che la studiavano, unendosi una a una al piccolo mucchio galleggiante delle compagne morte.
«E allora». La signora si lasciò cadere su una poltrona. «Più ramazza e meno piagnistei».
«Sissignora». Adriana si inginocchiò per lavare la finestra.
«E sei anche ingrassata». La voce della signora si fece più stridula. «Hai partorito?».
«Sì...». Adriana rimase in silenzio mordendosi il labbro.
Sibilla aveva ormai nove anni. Un conto era fingere che la bambina non fosse una Gavuzzi, ma... La signora adesso stava bofonchiando una sequela di vecchie lamentele: che suo marito era stato ucciso da quei bruti e... Adriana puliva meccanicamente la finestra mentre teneva lo sguardo fisso sulla valle, che era piena di case e fitta di alberi, cancellati per metà dalla nebbia. Pensò alle sopracciglia di Sibilla, che erano più scure del resto dei peli della fronte e avevano la stessa identica forma di quelle di Giacomo e anche della signora. Abbassò il braccio e chiuse gli occhi. Era possibile che la signora non sapesse neppure che Sibilla esisteva? Senza accorgersene Adriana oscillò in avanti e andò a sbattere contro la finestra con la fronte, producendo un piccolo tonfo.
«Oh!», esclamò la signora sorpresa.
Adriana aprì la bocca per parlare, ma al posto delle parole ne uscì un pianto spezzato. Si mise a singhiozzare.
«Oh», esclamò la signora irritata.
Adriana si affrettò a scusarsi, ma la signora era già in piedi e stava uscendo dalla stanza, facendo rovesciare una ciotola di nocciole con lo strascico della vestaglia. A Villa Serra non c’era posto per il dolore di nessun altro. Adriana si lasciò andare lo stesso a un pianto violento e liberatorio, godendosi la sua solitudine. Quando si asciugò gli occhi e si guardò intorno sbattendo le palpebre, la luce di mezzogiorno aveva ormai riempito la stanza.
Si riscosse e sistemò il resto del salotto. L’ultima cosa che pulì fu la scrivania, che lucidò fino a rendere i graffi del ripiano aghi sparpagliati che scintillavano. Poi cercò nei cassetti una penna e un foglio e scrisse un messaggio.
Mia carissima signora,
sì, ho avuto una bambina ha nove anni ma è deforme non è una figlia del Signore onnipotente nostro salvatore perciò non sorrido ma il mio comportamento l’ha turbata l’ho capito perciò la imploro di farmi rimanere al suo servizio.
Per sempre fedele, Adriana
Adriana fissò il biglietto, poi lo piegò varie volte, cercando di renderlo il meno appariscente possibile, ma più lo piegava più le sembrava gonfio e stupido. Alla fine, mettendosi in bocca il dito tagliato dalla carta, si ritrasse da quell’ammasso che si rifletteva silenziosamente sulla scrivania.
Quanto alla bambina deforme, Sibilla aveva iniziato la sua giornata come al solito. Si svegliò sentendo la nonna che russava e vedendo una macchia confusa che lentamente si cristallizzò in un boschetto. Si alzò dal letto uscendo dalla rete di peli, poi se li avvolse intorno alla vita e andò frusciando verso il focolare. Sua madre aveva preparato la colazione prima di andare dalla signora. Sibilla si sedette e si spostò i peli della faccia dietro le orecchie. Mangiò la pappa di cereali a bocconi minuscoli per evitare di inghiottire anche qualche pelo e guardò fuori dalla finestra. Stava... piovendo? Sibilla aguzzò la vista e soffiò verso l’alto: un refolo di fiato le sollevò i peli e le consentì di vederci meglio.
Sibilla aveva osservato attentamente i capelli e i peli altrui. La nonna aveva dei riccioli bianchi e crespi che le si drizzavano sulla testa quando pioveva, formando un’aureola intorno alla sua faccia corrucciata. E la mamma diventava più pelosa quando lavava i panni, perché la peluria che aveva sulle braccia si scuriva quando le immergeva nell’acqua. Tutto ciò era rassicurante. Anche loro hanno i peli, pensava. I miei sono soltanto più lunghi. A Sibilla, però, i suoi peli non piacevano. Aveva la sensazione che fossero una parte di lei, ma anche che fossero separati da lei. Che poi era quello che la nonna le aveva detto quando lei le aveva chiesto da dove venivano i bambini. Questo era stato più utile di quello che le aveva detto la mamma, ovvero: «Sono sicura che non vorresti saperlo».
Sibilla, però, voleva saperlo eccome. Lei voleva sapere tutto. Con il tempo aveva imparato a mettere insieme le cose che già sapeva, per vedere come s’incastravano. Per esempio: la mamma non sorrideva e lavorava sempre. Oppure: la nonna non ci vedeva bene e neppure lei ci vedeva bene, ma non per lo stesso motivo. Oppure; c’erano pericoli diurni e pericoli notturni e provenivano tutti dall’esterno. Sibilla però voleva uscire lo stesso, più di ogni altra cosa. Chiedeva tutti i giorni alla nonna se poteva farlo, sperando che prima o poi le sue preghiere si insinuassero nelle crepe sempre più ampie della mente dell’anziana.
Quel giorno, per esempio, Sibilla voleva sapere se fuori stava piovendo davvero. Si voltò per domandarlo alla nonna, ma lei stava dormendo ancora, le sopracciglia aggrottate in un’espressione leggermente sorpresa, le rughe che tremavano tutte le volte che fischiava russando. Sibilla giocherellò con la pappa di cereali che aveva nel piatto. Di solito la nonna non dormiva fino a tardi in quel modo. La sera prima, però, la nonna e la mamma avevano litigato furiosamente. Sibilla si era svegliata sentendo le loro voci: si stavano strillando addosso dall’altra parte della stanza. A quanto pareva la nonna pensava che Sibilla dovesse passare più tempo fuori; la mamma pensava che fosse troppo rischioso. Pericolo, pericolo, la bambina sta crescendo, sole e aria, mai e poi mai, non lo sai, ma certo che lo so – le voci salivano sempre di più per poi spezzarsi – tu non hai idea di quello che le farebbero...
Sibilla lanciò uno sguardo scuro attraverso i peli che le scendevano sugli occhi, mettendo insieme un po’ di cose. Fuori casa era uguale a dentro, solo non così sicuro. Ma se la nonna pensava che potesse uscire, non doveva essere così pericoloso... Sibilla si ritrovò davanti alla porta del capanno, come se vi fosse stata trasportata. Ne fissò la superficie ruvida. La chiave girò (uno scatto, un’occhiata dietro di sé). Il pomello girò (un cigolio, un’altra occhiata). La porta si aprì. Sibilla e il mondo s’incontrarono per la prima volta.
Su Villa Serra aleggiava un odore di marcio. Adriana raccolse il cappotto, la borsa e i pensieri. Questi ultimi, come al solito, erano rivolti alla figlia. A volte aveva la sensazione che Sibilla fosse ancora dentro di lei e spesso sognava il momento in cui era nata: le levatrici che la tiravano fuori, le lunghe ciocche nere da cui penzolava come una marionetta che si dispiegavano lentamente... Adriana rabbrividì e si scrollò di dosso quell’immagine mentre chiudeva la porta sul retro e scendeva i gradini a passi pesanti: era grassa. Quando era successo?
Fuori da Villa Serra gli alberi avevano iniziato a fare i capricci, scuotendo le cime frondose: stava per arrivare un temporale. Adriana disse una parolaccia sottovoce, sfiorandosi poi la testa e il seno con le dita. Non imprecava mai ad alta voce, ma solo sussurrando, e poi si faceva sempre il segno della croce per annullare quanto aveva detto. Lo faceva da quando era piccola, ma nessuno se n’era mai accorto prima di Giacomo.
Adriana lavorava a Villa Serra da qualche settimana la prima volta che lo aveva incrociato, dal macellaio. Giacomo era appoggiato al palo del banco e stava fumando. Adriana lo aveva salutato con la deferenza dovuta al fratello della signora e, sebbene lui avesse risposto al saluto, lei aveva colto un’incertezza nel suo sguardo: prima della guerra a Villa Serra c’erano molte giovani domestiche. Aveva iniziato a mercanteggiare con il macellaio sul prezzo di un taglio di carne. Quando lui si era rifiutato di farle lo sconto, Adriana aveva imprecato sottovoce, le dita strette che sfioravano la fronte e il petto. Giacomo se n’era accorto e aveva riso.
«Che cosa affascinante», aveva biascicato dalla sua posa rilassata. Quello era stato l’inizio.
La fine era arrivata qualche mese più tardi ed era stata squallida. Era stata la stessa storia di sempre: Giacomo si era allontanato; Adriana aveva cercato di trattenerlo. Era ricorsa persino alle stregonerie, ognuna più disperata della precedente. Aveva scritto il suo nome su un foglietto e lo aveva messo sotto un sasso. Aveva raccolto il suo seme e lo aveva mescolato all’impasto di una torta che poi aveva mangiato. Si era messa tra una candela e una parete e aveva recitato una formula magica alla propria ombra: tutte le altre donne sono come fango, io sono bella come la luna. Si era strappata qualche capello, aveva raccolto quelli di lui e poi li aveva intrecciati insieme. A Adriana non faceva piacere ricordare quest’ultima stregoneria: lei che raccoglieva di nascosto i capelli dal pettine di Giacomo mentre lui era nell’altra stanza, la sua attaccatura che si ritirava in pallidi vicoli ciechi, la bella treccia d’amore che diventava una palla di pelo dentro la sua tasca. La cosa peggiore di tutte era stato l’orrore negli occhi di Giacomo quando l’aveva scoperta, che si era trasformato in una specie di rimorso stranamente pacifico quando lei gli aveva confessato di essere incinta.
«Non puoi lasciarmi», gli aveva sussurrato stringendogli il braccio. «Non puoi lasciare tuo figlio!».
Lui aveva alzato le sopracciglia per poi abbassarle. «Quale figlio?». Si era voltato e si era acceso una sigaretta.
Sibilla si fermò sulla soglia del capanno guardando il cielo. Era di un azzurro intenso con qualche nuvola bassa, orlata dallo sfavillio del sole. Fu colpita soprattutto dalle dimensioni del cielo. Da dentro non sembrava così grande. Il vento le accarezzò i peli della faccia, poi le fece il solletico, poi improvvisamente le girò intorno e si mise a soffiare da dietro, sollevandole i peli del corpo che iniziarono a fluttuarle davanti. Lei rimase immobile, le braccia attaccate ai fianchi, mentre i peli le turbinavano davanti, tirandola, costringendola ad avanzare trotterellando dietro di loro finché non si ritrovò fuori casa.
Finalmente poteva vedere! A destra c’era l’orto con i pomodori della nonna: pomi di polpa rossa, gialla e verde che penzolavano dai rampicanti. A sinistra c’era la valle: ville terrazzate e grovigli di noccioli in lontananza. Il sole infilava le dita tra le nuvole. Come se fosse stata chiamata da qualcuno, fece un passo in avanti. E per tutta risposta la porta si chiuse dietro di lei. Si voltò e tirò il pomello, ma la porta rimase chiusa: da fuori bisognava spingerla. Ma come faceva a saperlo Sibilla, che non era mai stata dall’altro lato della porta – di nessuna porta – prima di allora?
Gemette e tirò inutilmente. Sopra di lei il sole infilò di nuovo le dita dentro una nuvola e sulla valle piombò l’oscurità. Si voltò in preda allo sconforto e si ritrovò in mezzo a un ciclone. Vortici di vento spostavano i suoi peli avanti e indietro, sotto e intorno a lei. Si accucciò avvicinandosi al corpo nudo tutti i peli che poté.
Quando Adriana raggiunse i tornanti della strada che portava al bosco si tirò su il colletto del cappotto per proteggersi dal vento. Quel cappotto glielo aveva dato la signora. Probabilmente un giorno lei lo avrebbe passato a Sibilla e avrebbero dovuto infilarle i peli nelle maniche in modo da farli uscire dai polsini come lo spaventapasseri che teneva lontani gli uccelli dai pomodori dell’orto. Adriana sbuffò. Che spreco!
Lei amava quel cappotto: era caldo, di lana, e la fodera era di seta viola. Di tanto in tanto, in un breve attimo di amnesia al risveglio, ne intravedeva la parte interna lucida dal gancio della parete su cui era appeso e il suo sguardo scivolava famelico lungo la stoffa. Le ricordava la parte interna scivolosa del labbro di Giacomo. Che fosse stata quella la causa della sua rovina, quel desiderio di toccare cose bellissime con la mano, con la lingua? Forse era stata la sua arroganza, la convinzione di avere il diritto di toccare qualcosa in generale.
Iniziò a piovere. Dopo essersi tirata il colletto del cappotto sulla testa Adriana si rifugiò sotto la copertura degli alberi, lanciando occhiate guardinghe ai vigneti terrazzati al di sopra della strada. La pioggia ci metteva poco a rendere il terreno del sentiero un fiume di fango. Pensò alla leggenda che Giovanna amava raccontare a Sibilla, a proposito della villa e del borgo vicino al Castello di Monticello, di come un anno le piogge erano state così intense che le strade erano diventate un fiume di fango che era colato giù per poi infilarsi nelle case dei contadini, e di come quei bifolchi dei poveracci e quei balocconi dei signori avevano passato tutta la notte a insultarsi finché...
Adriana mise un piede in una pozzanghera. Imprecò e si fece il segno della croce. Continuando ad avanzare, con l’acqua che entrava dal buco sull’alluce e che faceva cic ciac, iniziò a calcolare se poteva permettersi il calzolaio, le dita che fremevano in quell’enumerazione spettrale. Ormai costava tutto tantissimo. La guerra aveva invaso il mondo di mancanze. Aveva reso tutto raro e, per questo motivo, prezioso.
Sibilla respirava affannosamente. Avrebbe voluto tornare in casa e aspettare che la nonna si svegliasse, ma con quel vento impetuoso aveva paura di alzarsi in piedi.
Di tanto in tanto i suoi peli prendevano a sventolare e lei li riarrotolava lentamente. Dopo un po’ non fu più così brutto starsene rannicchiata al vento, ad aspettare. Esaminò i fili d’erba che aveva tra i piedi e che erano diversi dai ciuffi avvizziti che sua madre aveva portato in casa per mostrarglieli. Il cielo era diventato grigio, ma quell’erba di fuori era del verde più verde che avesse mai visto e tremava nel vento come la faccia addormentata della nonna.
Quando finalmente il vento calò, Sibilla si alzò e si avvolse i peli intorno alla vita, incrociando le braccia per tenerli ben tesi. Poi prese ad avanzare con cautela cercando di non inciampare nei peli che tendevano un’imboscata ai suoi piedi e seguì il sentiero erboso. Dapprima tenne lo sguardo fisso a terra, poi man mano che acquisì sicurezza iniziò ad alzarlo, ad annusare e a sentire più rumori. Dopo qualche minuto di camminata si ritrovò in un boschetto di alberi alti con i tronchi ruvidi e i rami appuntiti. Girò intorno a uno di essi. Emanava un profumo pepato. Si spostò i peli dalla faccia per poterne leccare il tronco.
Si accorse delle gocce di pioggia che le picchiettavano sulla sommità del capo solo quando venne colpita da una goccia più pesante. Alzò lo sguardo e vide tre serie di linee che s’incrociavano: i suoi peli, gli aghi dell’albero e la pioggia. Fu colpita di nuovo, stavolta sulla schiena, da qualcosa che poi cadde a terra. Ma se la pioggia era così dura perché il tetto del capanno o la finestra non si rompevano?
«Mostro! Mostro!».
Sibilla lanciò un’occhiata dietro di sé. In mezzo agli alberi alti e fitti del boschetto ce n’erano quattro più bassi e più sottili. Aguzzò la vista mentre si liquefacevano diventando tronconi per poi ricrescere in fretta, con i rami che mulinavano all’impazzata.
Sbarrò gli occhi quando vide i sassi lanciati verso di lei.
Se la guerra aveva fatto conoscere ai ricchi la paura della pancia vuota, la sopravvivenza aveva prodotto un nuovo lusso tra i poveri. Dopo che il marito della signora Lina era morto, quando gli altri domestici avevano lasciato Villa Serra e le provviste avevano iniziato a scarseggiare, la signora aveva finito per dipendere interamente da Adriana. Quest’ultima sapeva come spremere le ultime gocce dalla mammella di una mucca, come mescolarle a un uovo per ricavarne un pasto, come fare una pappa con le granaglie che un tempo la signora dava agli uccellini. La signora ricompensava Adriana per quelle abilità con cose bellissime, non commestibili: il cappotto con la fodera di seta viola, l’orologio con una spirale sul quadrante che era appoggiato sul polso di Giovanna come una chiocciola, la collana di perline di vetro verdeazzurre che Adriana teneva dentro il cuscino, un vaso orientale il cui ventre conteneva polvere e un silenzio orribile.
Con il passare degli anni quella collezione di oggetti di seconda mano si era sporcata e sbeccata, ma Adriana li custodiva tutti nella sua mente con la loro forma e integrità originarie. A volte faceva un gioco nella sua testa nel quale doveva scegliere uno di quegli oggetti rinunciando a un altro, o a tutti gli altri oppure a un membro della sua famiglia. Naturalmente Adriana non avrebbe mai rinunciato davvero a una persona per una cosa. Era solo un passatempo. Ma il gesto della bilancia ultimamente le veniva in mente sempre più spesso, anche contro la sua volontà, quasi un’interpunzione inevitabile ai suoi pensieri quando era sola.
Una volta, in cambio di quattro radici arrostite, la signora Lina le aveva dato un ammasso avvolto nella carta oleata. Adriana aveva osato aprirlo solo dopo che era tornata a casa. Giovanna era accanto a lei, lo sguardo fisso sulle sue mani. La piccola Sibilla era dietro di loro e fiutava con il naso rivolto all’insù, i peli delle narici che pulsavano. Adriana aveva scartato il pacchetto con il profumo di spezie e lavanda che si spandeva e, dopo un attimo di esitazione, avevano fatto tutte per prenderlo, sei mani che si scontravano. Era caduto a terra scheggiandosi. Sibilla, che era la più vicina al pavimento, aveva tentato di prenderlo ma non ci era riuscita: le era scivolato sui peli delle mani schizzando via di nuovo. Adriana si era chinata con una smorfia di disapprovazione e lo aveva preso con la delicatezza che avrebbe riservato a un uovo.
«Non sai come tenere le cose belle», aveva sbottato.
«Mostro!», gridarono i ragazzi e si chinarono per prendere altre pietre.
Sibilla si voltò e si mise a correre, trasalendo per il dolore mentre calpestava i propri peli. Il vento le mandava delle ciocche giù lungo la gola mentre ansimava e non vedeva quasi niente, anche se si accorgeva che stava correndo in discesa e che il terreno si stava ammorbidendo. D’un tratto sentì di avere i piedi gelati e bagnati. Ansimò, indietreggiò con un salto e si voltò. I ragazzi stavano avanzando verso di lei. Sapeva che erano ragazzi, che erano maschi, ma fissò comunque incuriosita i loro vestiti: aveva visto i pantaloni e i gilè soltanto in un libro illustrato di Gianduja. Due di loro tenevano in mano dei grossi rami. Si fermarono a qualche metro da lei. Dal ramo di uno di loro si staccò un pezzo di corteccia che cadde tra le foglie con un fruscio. Sibilla s’impose di smettere di tremare.
«Mostro», ripeté uno dei ragazzi e gli altri risero: nell’aria fredda il loro fiato diventò come una piuma.
Poi si rese conto che non era l’unica a tremare: anche loro stavano tremando, e anche la loro risata. Provano quello che provo io, pensò, e fu a quel punto che i suoi peli iniziarono a sollevarsi.
La verità era che Adriana aveva deciso che il sapone sarebbe stato suo ancora prima che cadesse a terra. Con Sibilla era poco pratico usare qualunque cosa a parte il sego ed era uno spreco usarlo per un’anziana rugosa. Adriana lo aveva tenuto per sé, usandolo con parsimonia: compleanni, feste dei santi, alla fine del ciclo mestruale. Trascinava la vasca di metallo dietro il capanno e la riempiva di acqua riscaldata. Poi si spogliava e s’immergeva nel bagno bollente creando ammassi di merletto ornato con il sapone, tracciando cerchi barocchi sul suo corpo con i palmi delle mani. Come una donna, pensava. Come una vera donna.
Con il tempo il sapone si era ridotto, si era smussato e si era riempito di crepe come il nocciolo di un frutto essiccato. Era diventato così sottile che le scivolava tra le dita nell’acqua, dove perdeva ancora altri strati setosi, un ciclo di riduzione che la riempiva di angoscia. Usarlo significava perderlo. Che cosa strana, pensò in quel momento mentre raggiungeva il breve sentiero in salita tra gli alberi che conduceva al capanno. Un tempo quel sapone le era sembrato un lusso, una cosa che aveva il profumo della gianduja e che al tatto sembrava una fodera di seta e che ti permetteva di toccarti e di sentirti comunque pulita. Come aveva fatto a diventare una necessità?
Lunghe ciocche di peli fluirono dal corpo di Sibilla. Così ci vedeva meglio e si accorse che i capelli dei ragazzi erano immobili, unti, sulle loro teste. Neanche gli alberi in lontananza si muovevano. E allora cos’era a far sollevare i suoi peli in quel modo? Capì che i ragazzi si stavano facendo la stessa domanda. Si guardarono tra di loro e iniziarono a indietreggiare lentamente, gli occhi sempre più spalancati mentre i peli di Sibilla vorticavano verso la parte anteriore del suo corpo fino a puntare direttamente contro di loro. Si fecero indietro sempre più velocemente finché uno di loro non inciampò su una radice e cacciò un urlo. A quel punto si voltarono tutti e iniziarono a correre.
I peli di Sibilla fluivano davanti a lei com’era successo quella mattina quando era uscita di casa. Stavolta, però, invece di trascinarla in avanti, tornarono indietro facendola finire nell’acqua alle sue spalle. Lo shock del freddo le fece chiudere forte gli occhi. Quando li riaprì vide il cielo grigio piombo attraverso l’acqua. Si distorse sotto lo scroscio di un’onda e poi una matassa dei suoi peli le fluttuò davanti agli occhi, molle come melassa. Singole ciocche di peli le si materializzavano davanti: ogni pelo era un’infilata di bollicine, come la collana di perline di vetro della mamma, e ogni bollicina conteneva il riflesso in miniatura della sua faccia. Le piccole Sibilla sbatterono le palpebre all’unisono.
Soltanto in quel momento sfiorò con la pianta del piede il letto del fiume e l’istinto fece concentrare tutta la sua attenzione sulla sua caviglia. Piegò il ginocchio e si diede una spinta verso l’alto, con i peli che fluivano verso il basso per la forza del suo tuffo in direzione del cielo. La testa infranse la superficie dell’acqua e a quel punto Sibilla boccheggiò tentando di prendere aria, ma aveva la bocca tappata. Scosse la testa finché tra le fitte cascate di peli non si aprì uno spiraglio sufficiente per respirare, poi afferrò un ramo e si tirò fuori dall’acqua. Sentì che i peli la trascinavano di nuovo dentro e così iniziò a tirarli a sé, una ciocca per volta, prima che provassero ad allontanarsi a nuoto o ad affogarla.
Quando li ebbe finalmente portati tutti via dalla corrente, si ritrovò inginocchiata sulla riva di un fiume. Quello doveva essere il Tanaro. La nonna gliene aveva indicato dei pezzetti che si vedevano dalla finestra del capanno. Sibilla si spostò i peli dalla faccia con le dita raggrinzite per specchiarsi sulla superficie. L’acqua era mossa, ma lei non fece caso all’immagine frastagliata. Fu colpita soprattutto da quanto sembrava piccola nel suo riflesso. Da dentro non si sentiva così piccola.
Quando Adriana arrivò a casa quel giorno trovò la madre seduta su una sedia accanto al camino e la figlia inginocchiata sul pavimento vicino a lei. Giovanna si dondolava e singhiozzava. Sibilla stava in silenzio e accarezzava il ginocchio della nonna con una manaccia pesante. Ed erano circondate da un mucchio di peli sporchi e fangosi, più peli, esclamò Adriana, di quanti ne avesse mai visti, anche se in realtà lo diceva spesso quando tornava a casa dopo una giornata faticosa al lavoro.
Sibilla raccontò quello che era successo a raffiche, come gli spari di un’arma da fuoco: la porta, il vento, i ragazzi, il fiume. Il resto della serata lo passarono a lavare i peli della ragazzina con l’acqua presa alla sorgente dentro un recipiente di metallo bucato da cui scendeva goccia a goccia secondo un ritmo regolare, che scandì i secondi fino all’alba. In preda ai sensi di colpa, Adriana usò quel che restava del suo sapone prezioso per lavarli. Sibilla e Giovanna cercarono di darle una mano, ma le dita della ragazzina erano troppo invischiate e quelle della vecchia troppo tremanti. Alla fine si addormentarono entrambe.
Adriana rimase sveglia da sola fino a tardi con i peli di Sibilla in grembo, districando gli aghi di pino, i sassolini e gli insetti morti che vi erano rimasti incastrati. Quando ebbe finito i peli erano gonfi per essere stati tanto manipolati e grigi come il fumo. Adriana avvertì un’urgenza forte come una contrazione di infilarvi dentro una mano per tirare fuori la figlia. E invece guardò dalla finestra il sole che sorgeva dietro la nebbia di Alba. Poi svegliò Sibilla, la avvolse in un saio e la portò a Villa Serra.
1948
La vestaglia verde della signora fluttuò delicatamente sopra la soglia. Stava gridando rivolta al corridoio dietro di sé. «Torno subito, colonnello Corsale. Non so proprio chi possa essere così tardi di notte. O meglio così presto di mattina». Ridacchiò e si voltò. «Oh, salve».
«Signora».
«Ma questa è la porta d’ingresso...». La signora alzò il mento. «E che cosa abbiamo qui?».
Sibilla attraverso i peli alzò lo sguardo verso le due donne che si scambiavano parole e gesti al di sopra della sua testa. La mamma le era apparsa decisa nel tragitto fin lì, ma adesso che erano arrivate sembrava timorosa. Continuava a sfiorare il saio che la ricopriva. Impaziente e accaldata, Sibilla rovesciò la testa all’indietro per scoprirsi e sbuffò per vederci meglio. La signora sobbalzò. I suoi occhi divennero prima verdi ed enormi, poi neri e piccoli.
«Capisco», disse seccamente. «Forza, allora». Si voltò e tornò in casa.
Adriana e Sibilla la seguirono lungo un corridoio fino a una stanza che era grande quanto tutta la loro casa. La stanza era in penombra – le tende erano tirate e c’era solo qualche candela tozza che sgocciolava negli angoli – e sembrava che vi fosse passato un tornado, rovesciando tutto, portando scompiglio ovunque. A Sibilla fu ordinato di sedersi su un poggiapiedi di velluto davanti a una poltrona di velluto, su cui era seduta la persona più enorme che avesse mai visto. Sembrava un albero più alto e più grosso di quelli che le avevano lanciato le pietre o, come li stava chiamando la mamma in quel momento, dei demoni. L’omone ascoltava, i baffi neri che tremolavano di curiosità. Era una cosa rassicurante, come lo erano i bottoni lucidi della sua giacca e il modo in cui le sue dita massaggiavano l’aria quando parlava. Per qualche ragione Sibilla voleva disperatamente sedersi sul suo ginocchio. Come se lo avvertisse, l’omone si voltò verso di lei.
«Lo sai», le disse con una voce profonda che gli fece vibrare i baffi, «che tutte le volte che c’è uno spiffero i tuoi peli si muovono come i nastri di una danzatrice cinese?».
«Che vuol dire “cinese”?», chiese lei.
«Ah! Che domanda! Sa», disse rivolgendosi alla signora, che adesso era distesa su una chaise-longue, «questa è proprio una bella domanda adesso, dopo la guerra».
La signora bofonchiò qualcosa, poi si alzò e si allontanò, calpestando con disinvoltura i detriti disseminati sul pavimento. Sibilla avrebbe voluto fare altre domande sulle guerre, i nastri e le danzatrici cinesi, ma l’omone era troppo preso ad ammirare da dietro la signora che si allontanava e la mamma non era più la mamma. Era diventata una cosetta nervosa e tremante, che accennò ad alzarsi dalla sedia su cui era seduta quando la signora tornò con un vassoio carico di bicchieri. Ne allungò a Sibilla uno pieno di un liquido trasparente, dolce e frizzante, che le fece pizzicare la lingua e lasciò una scia di bollicine che le solleticarono le labbra. A quel punto Sibilla si concentrò soltanto su come berlo con compostezza. Quando ebbe finito, il suo destino era ormai stato deciso.
Sibilla avrebbe vissuto a Villa Serra con la signora, per una questione di “sicurezza”, e avrebbe aiutato sua madre a fare le pulizie tutti i giorni, per una questione di “crescita personale”. Dal canto suo il colonnello avrebbe scritto a un amico medico per illustrargli la sua «condizione». Sibilla stava per chiedere della nonna quando il colonnello le tese la mano. Lei allungò il palmo glabro per stringergliela. Poi però l’altra mano di lui si alzò avvicinandosi insieme alla prima al viso di Sibilla. Lei lanciò un’occhiata alla madre, che annuì solennemente. Con le mani strette a pugno vicino ai fianchi, Sibilla alzò il viso verso il colonnello. Lui le appoggiò i palmi sulle guance e le scostò i peli. Sibilla vide gli occhi del colonnello che scintillavano dalle caverne sotto le sopracciglia cespugliose e un neo che ammiccava dietro il punto in cui i baffi si biforcavano. Il colonnello grugnì e le tirò ancora di più i peli all’indietro per spostarglieli dalla faccia. Sibilla trasalì e poi coraggiosamente lasciò andare il fiato che aveva trattenuto.
«Sì», ronzarono i baffi del colonnello. «Adesso ti vedo».
«Basta così». La signora si frappose tra di loro in tutta fretta. «È ora di mostrare alla bambina i suoi alloggi».
Questi erano nella dispensa della cucina, una stanza alta e stretta che odorava di grano, caffè e aceto. C’era una sola finestra in alto e una porta che si chiudeva dall’esterno. La signora buttò un cuscino sul pavimento, un affare quadrato con una fantasia elaborata che il colonnello definì «orientale». Quello sarebbe stato il nuovo letto di Sibilla. Lei s’infilò i peli sotto il sedere e ci si sedette sopra. Sua madre le s’inginocchiò davanti.
«Dormi», le sussurrò.
E lei lo fece. Era ancora mattina, ma Sibilla era esausta per l’avventura del giorno prima. Sognò il colonnello, le sue sopracciglia e i suoi baffi che crescevano diventando sempre più folti ed estesi, fino a coprirgli tutta la faccia.
Sibilla non vide mai più sua nonna. Un mese dopo il trasferimento a Villa Serra, Giovanna si alzò di scatto nel cuore della notte, svegliando Adriana con una strana accozzaglia di parole a proposito del prezzemolo. Anni prima, durante gli ultimi mesi della gravidanza, a Adriana era venuta voglia di prezzemolo e, per risparmiare, Giovanna aveva iniziato a coltivarlo nel suo orto, raccogliendo i capelli nella bottega del barbiere per concimare la terra. Soltanto adesso aveva capito cosa aveva fatto, disse Giovanna. Aveva piantato i capelli nel terreno insieme ai semi del prezzemolo. E mentre Adriana divorava una fogliolina dopo l’altra per soddisfare la sua voglia, insieme al prezzemolo doveva aver inghiottito i capelli.
«Ti ho messo io i capelli nella pancia!», gridò Giovanna. «Sibilla era destinata a essere una tarantola!».
Poi si fece il segno della croce, si ridistese e si addormentò. Immaginando che si fosse trattato di un attacco di senilità, la mattina dopo Adriana non fece commenti. Qualche giorno dopo, mentre raccoglieva i pomodori nell’orto, Giovanna si accasciò e morì. Adriana la seppellì con l’aiuto del vicino, che in tal modo fece ammenda per le pietre che i suoi figli avevano tirato a Sibilla. Solo di tanto in tanto Adriana si fermava a piangere la madre, in mezzo a tutte le incombenze di cui doveva occuparsi, per il bene suo e di sua figlia.
Adriana arrivava a Villa Serra all’alba, apriva la porta della dispensa e svegliava Sibilla. La bambina urinava nella latrina all’esterno e si lavava la faccia in una bacinella. Poi madre e figlia raggiungevano insieme il salone di rappresentanza. Adriana spalancava le porte e rimanevano per un attimo sulla soglia, tutte assorte. Quale devastazione si svolgeva lì dentro tutte le sere? Adriana sospirava, Sibilla sbatteva le palpebre e poi cominciavano a pulire. I peli di Sibilla erano una risorsa per quel tipo di lavoro. Poteva spolverare senza spolverino e ramazzare senza ramazza. Non era nemmeno costretta a lavare il proprio strumento di lavoro: a fine giornata si tagliava le punte sporche dei peli e le gettava nell’orto dietro la cucina.
Per anni Sibilla lavorò al fianco della madre, maneggiando con cura gli interni laceri e scheggiati di Villa Serra. Più avanti, quando ripensava alla sua infanzia, era così che ricordava le sue giornate. Le notti erano tutta un’altra storia.
Poco dopo il suo arrivo a Villa Serra, Sibilla era stata svegliata dal rumore della porta della dispensa che si era spalancata all’improvviso.
«Vieni!», esclamò la signora. «È finito il vino! Abbiamo bisogno di un po’ di intrattenimento!».
«Dov’è... ahi!». Sibilla sollevò il tacco della signora che le schiacciava i peli e si alzò. «Dov’è la mamma?».
«Tua madre?». La signora sbuffò. «Non è qui. Non è mattina. Be’, lo è. Ma non lo è».
Sibilla la guardò attraverso il suo nido di peli. La signora ricambiò l’occhiata per un attimo. Poi le ripeté: «Vieni!», e uscì in tutta fretta dalla cucina con i tacchi che balbettavano. Sibilla le andò dietro.
Man mano che si avvicinavano al salone, iniziò a levarsi un ruggito sommesso, una sfrenatezza che spumeggiava lungo il suo bordo. Quando arrivarono davanti alle porte, la signora le aprì e, tirandosi in disparte in modo teatrale, scomparve tra la folla. Sibilla si guardò intorno. Un tipo basso ballava con una spilungona che sembrava ipnotizzata da un lampadario enorme. Dietro di loro c’era un gruppo di donne tutte in bianco che non avevano la bocca... ma no, erano solo le mani guantate che coprivano le labbra. Sul divano c’era un pelato che dormiva con un bicchiere vuoto appoggiato sul petto al centro di una chiazza rossa. Teneva i piedi scalzi appoggiati sul grembo di una donna con un abito azzurro cielo. Quest’ultima stava contando le carte di un mazzo, i boccoli ramati sobbalzavano seguendo il movimento delle sue dita. E dunque era quello che lei e sua madre passavano la giornata a ripulire? Quel disastro in divenire era di gran lunga preferibile alle sue conseguenze. Tutto nel salone era reso diverso dalla luce tenue del lampadario, che era la cosa più diversa di tutte, le gocce di cera polverose rese vive dalla luce.
Sibilla andò verso il centro della sala per guardarlo meglio, con lo strascico di peli che serpeggiava dietro di lei. Le sembrò di venire catturata dagli sguardi, quasi che dei lacci appiccicosi la tenessero attaccata agli occhi nella sala: dovunque andasse, loro la seguivano. Per la prima volta in vita sua ebbe la sensazione che i suoi peli non la coprissero abbastanza. Finalmente una faccia conosciuta! Il colonnello. Era seduto sulla poltrona di velluto, mentre il poggiapiedi di fronte era occupato da un giovanotto con la coda di cavallo che gesticolava così tanto che in confronto il colonnello, che stava aggrottando la fronte in un’espressione concentrata, sembrava una statua. La statua si sciolse: il colonnello sorrise e si allungò verso di lei.
«Ragnatela!». La sua voce le fece rizzare i peli mentre l’attirava a sé. «Finalmente ti sei unita a noi», le disse sorridendo. «Ho rimproverato Lina per il fatto che ti teneva lontana».
Le appoggiò le mani sulle guance e le tirò forte i capelli, come aveva fatto quando si erano conosciuti. Il sollievo che Sibilla aveva provato nel vederlo le si rapprese nello stomaco. Sembrò che i suoi peli s’increspassero sotto le mani del colonnello, fremendo per l’elettricità statica, le cui scariche ogni tanto l’attaccavano lasciandole addosso una sensazione come di aver bevuto troppo caffè. Il colonnello la lasciò andare e le presentò il giovanotto con il codino.
«Lui è mio fratello», disse.
«Sergente Corsale». Il giovanotto fece un leggero inchino.
«Sergente?!». Il colonnello alzò gli occhi al cielo. «Sergente dell’esercito partigiano del 1944 al limite! Oppure dovrei dire dell’esercito partigiano dal 10 ottobre al 2 novembre 1944...».
Mentre il colonnello continuava a irridere l’esperienza militare del fratello, Sibilla si spostò i peli dagli occhi e allungò la mano. Il giovane sergente la ignorò aggrottando la fronte e s’inchinò di nuovo. Sibilla non capiva se aveva paura di toccarla o se invece si aspettava che lei s’inchinasse a sua volta. Abbassò la mano e lo sguardo. Adesso il colonnello Corsale si stava lagnando dell’Abissinia, dell’Africa Orientale – niente di cui Sibilla avesse mai sentito parlare – gesticolando di tanto in tanto nella sua direzione come per dimostrare qualcosa.
Si fece avanti una donna anziana, coperta di indecorose chiazze di cipria bianca sulle guance e sul mento. Sibilla piegò la testa di lato a mo’ di saluto. Per tutta risposta la donna guaì, poi alzò la mano e si tirò la crocchia grigia che aveva sulla sommità della testa, disfacendola. I capelli sottili scivolarono verso il basso. Sibilla fu infastidita da quel gesto: era come accovacciarsi per trovarsi alla stessa altezza di un animale. Gli occhi della vecchia, però, le ricordavano quelli di sua nonna, perciò sorrise. Lei ricambiò, i denti desolati come lapidi nella distesa delle gengive. Poi prese Sibilla per un braccio e iniziò a ballare.
Sulle prime Sibilla seguì con riluttanza i movimenti meccanici – uno scatto e un ondeggiamento, uno scatto e un ondeggiamento – aspettando il momento giusto per mollare la presa. Poi però un’altra persona le strinse l’altro braccio: era la bella donna che contava le carte con il vestito azzurro e i boccoli ramati. Le due ballavano, passandosi Sibilla tra di loro. I suoi piedi sfregavano il pavimento, poi iniziarono a tamburellarci sopra, poi a saltellare, e ben presto Sibilla si ritrovò a saltare insieme alle altre due, attirando a sé prima l’una poi l’altra e permettendo loro di farla volteggiare. Il colonnello se ne accorse e si mise a battere le mani tenendo il tempo dalla poltrona. Il sergente se ne stava appoggiato a un muro, il calice di vino premuto contro l’osso del collo.
Sibilla ci vedeva! Tutte le volte che girava su se stessa i suoi peli si sollevavano vorticando dal suo corpo, dissipandosi in una nebbia di ciocche sospese a mezz’aria. La musica procedeva a scatti e a salti e Sibilla continuava a vorticare. Sembrava che nella sua pancia un vortice si facesse sempre più profondo per poi chiarificarsi, come se quella fosse semplicemente l’accelerazione naturale di un movimento rotatorio che era sempre stato dentro di lei. Gli ospiti della festa la circondarono, battendo le mani a tempo. Le punte dei suoi peli produssero un tonfo sordo contro il velluto, sussurrarono sfiorando la seta, ticchettarono contro i galloni. Macchie indistinte di facce fiorivano nella sua direzione per poi appassire. Intravide per un attimo il viso torvo della signora Lina e in quell’istante il movimento rotatorio iniziò a sembrarle incontrollato. Non stava più girando sul posto: stava orbitando in un anello sbilenco al centro della sala.
Ma come fermarsi? Sibilla chiuse gli occhi. Tra girare e fermarsi c’era un abisso. Come superarlo? Sentì le risate dilatarsi e la musica calare. Soltanto un’ondata di nausea le disse che si era finalmente fermata. Mentre ondeggiava qualcosa si agitò sopra di lei – erano i suoi peli che le si avvolgevano intorno – una, due volte, ricoprendola completamente. Ci fu una pausa priva d’aria, mentre tutti trattenevano il fiato. Sibilla aprì gli occhi.
Oh! Che morbidezza! Un bozzolo scuro, tiepido e sognante, la sala che ancora vorticava striata in una spirale di strisce, nel modo in cui la nonna sbucciava sempre le arance. Sibilla intravide un paio di baffi grigi, un vestito rosso, un occhio verde. Oh! Che morbidezza e che bellezza! Adesso però il bozzolo si stava riempiendo di calore e una grande vibrazione stava montando. Delle schegge di colore si staccarono e un’enorme esplosione ronzante svelò tutta la carne capillarizzata che si nasconde sotto la pelle del mondo. Sibilla scivolò nell’oscurità.
Si svegliò tra le braccia di qualcuno. Sbatté le palpebre e si materializzarono i baffi scuri del colonnello e poi i suoi occhi. Dietro di lui vide suo fratello, il sergente con il codino, che andava avanti e indietro come un animale in gabbia. Avvertì l’umidore caldo sulla schiena prima di avvertire la fitta dei tagli lungo la spina dorsale. Più tardi venne a sapere che il colonnello aveva preso il pugnale da caccia e l’aveva tirata fuori dai suoi peli a furia di tagli, con la lama che le scorreva lungo la schiena creando una linea tratteggiata di squarci.
Il colonnello la raddrizzò sul tappeto ispido di peli che il suo salvataggio aveva prodotto. Sibilla abbassò lo sguardo verso quel mucchio elettrico, le cui vette irregolari le arrivavano fino alle gambe. Aveva la schiena pulsante e gocciolante. La melodia dei violini in glissando ricominciò e Sibilla venne presa in braccio per essere portata dall’altra parte della sala, dove fu fatta distendere su un fianco sopra una poltroncina. Era come se fosse stata strizzata. Potrei addormentarmi in questo preciso istante, pensò con una risatina stordita e, mentre un panno umido e fresco le sfiorava la parte alta della schiena, lo fece.
Il giorno dopo fu una tragedia. Sibilla dovette fare le pulizie a Villa Serra insieme a sua madre come se non fosse cambiato niente. Si mise un vestito per nascondere i segni che il pugnale del colonnello le aveva lasciato sulla schiena, ma non poté dissimulare la stanchezza e continuò ad alzare lo sguardo verso il lampadario: adesso che aveva visto il salone brillare sotto quelle gocce di luce le sembrava ancora più malridotto. Quella sera chiese alla madre di lasciare aperta la porta della dispensa, qualora avesse avuto bisogno di usare il bagno. Se ne rimase distesa nella stanzetta in penombra, prendendo a calci il cuscino con impazienza e aspettando.
Quando la luna fece capolino dalla piccola finestra in alto, sgusciò fuori dalla dispensa, attraversò il corridoio e si fermò davanti alle porte di legno del salone, premendo l’orecchio contro le venature di una delle ante. I suoni della festa erano così attutiti che sembravano provenire dall’interno della porta stessa, come una storia raccontata dal legno o il trambusto prodotto dai tarli. Sibilla bussò e la porta si aprì con un grugnito. Dietro di essa fece capolino la signora. I suoi occhi si spalancarono, verdi. Poi si rimpicciolirono, neri.
«Benvenuta», disse con aria sarcastica. «Sarai ancora una volta la stella più luminosa della nostra costellazione». Poi spalancò la porta muovendo il palmo della mano in un’accoglienza sardonica.
Quello divenne ciò che Sibilla faceva tutte le notti. Non appena entrava nel salone l’atmosfera si caricava di una frenesia tranquilla, di sospensione, come se tutti aspettassero che iniziasse a vorticare. Era per quello che ci andava? O per avere una tregua dal peso e dall’ombra dei suoi peli? O per i fratelli Corsale, con le loro mani sicure? Tutte le notti Sibilla girava su se stessa, si fermava, sveniva e al suo risveglio trovava loro: il colonnello con i suoi baffi, il sergente con il suo codino. Tutte le notti uno dei due la tirava fuori dalla sua tomba soffice e l’altro curava le sue ferite. Poi Sibilla giaceva stordita e s’interrogava sulla differenza.
Per anni le notti di Sibilla brillarono e si sfocarono, tintinnanti del suono dei calici da vino, mentre le sue giornate rimasero crepate e sporche, granulose e grigie come l’acqua di risciacquo dei pavimenti. Poi una mattina, quando aveva quindici anni, le sue notti fecero irruzione nelle sue giornate disfacendo quello schema dicotomico. Aveva trascinato fuori un secchio pieno di panni per appenderli sui fili in giardino. Durante l’occupazione sua madre vi aveva piantato verdure di ogni tipo per dare da mangiare agli uomini del re. Dopo la guerra, però, le piante avevano iniziato a stentare e ormai non vi cresceva più niente se non un mucchio di scarti della cucina.
Quel giorno – il primo dell’inverno, l’ultimo dell’autunno, un ponte sommerso tra le stagioni – anche gli alberi erano spogli. Avevano un aspetto goffo e intimidito, sorpresi senza foglie addosso. Nonostante il vestito che portava e tutti i peli sotto di esso Sibilla non si sentiva abbastanza al caldo. Avrebbe voluto aver preso in prestito il cappotto di sua madre, anche se ormai la fodera viola si era ridotta a una ragnatela. Lottò frettolosamente contro i panni agitati dal vento per appenderli al filo, mentre il freddo faceva accelerare le sue dita. Mentre si affrettava a tornare in casa notò una sagoma nell’angolo del giardino: era un uomo accovacciato che le dava le spalle, i capelli sottili raccolti in una coda. Il sergente. Sibilla lo conosceva e non lo conosceva. Lui le aveva tamponato i nodi della spina dorsale con un panno umido tutte le notti per anni, ma non si erano mai scambiati più di qualche parola.
Gli si avvicinò lentamente rigirandosi le punte dei peli tra le dita. All’inizio lui non si accorse della sua presenza. Era tutto intento a rastrellare il terreno, bofonchiando qualcosa. Di tanto in tanto si toccava il codino e si annusava le dita, per poi ricominciare a raspare la terra, dondolando per lo sforzo. Sibilla rimase ad ascoltare per un attimo.
«Che cosa ci cresce?», chiese alla fine.
«Peli!», rispose lui sbattendo le palpebre, senza sembrare minimamente sorpreso dalla sua presenza. Mortificata da quell’allusione diretta alla sua condizione, Sibilla fece per andarsene, ma il sergente la bloccò stringendo una manciata delle sue ciocche. I peli che aveva sulle braccia si rizzarono.
«Vedi?». La lasciò andare allungando la mano. «Peli! Spuntano dal terreno».
Sibilla si accovacciò accanto a lui e lo guardò spostare un mucchietto di terra e pietre e sì, aveva dei peli sul palmo della mano. Infilò il dito in quel mucchietto e le sue dita sfiorarono il palmo di lui. Si guardarono.
«Sì, sono peli», disse Sibilla ritraendo la mano.
«Sono tuoi?».
«Sì, sono miei», rispose lei lentamente, gustandosi il sapore nuovo del potere.
«Ma perché spuntano dalla terra?».
«Me li taglio tutti i giorni e li sparpaglio sul terreno. Fanno crescere le cose».
«Ma allora perché...». La guardò. I suoi occhi castano chiaro sembrarono d’oro e d’argento allo stesso tempo, il colore della luce del sole dietro una nuvola. «Perché», e le mise il palmo sotto il naso, «alcuni sono verdi?».
Sibilla sorrise. «Perché quelli, sergente», disse sollevando lo sguardo verso di lui, «sono aghi di pino».
Si alzarono e attraversarono insieme il giardino morto, i peli di lei come una filigrana intorno a entrambi. Lui le disse che quando quella mattina era dovuto uscire di casa per liberarsi era rimasto sorpreso sentendo dei peli che gli solleticavano le caviglie. Il suo primo pensiero era stato per la ragazzina che volteggiava tutte le notti nel salone: che fosse morta e fosse stata seppellita, che i peli indicassero la sua sepoltura frettolosa, che non si fosse neanche riusciti a coprirla come si doveva. Era come le fosse approssimative scavate durante la guerra civile: da quelle parti i temporali riportavano spesso in superficie delle ossa. Era felicissimo, disse, di sapere che era ancora viva. Era felice anche lei, ammise Sibilla.
I peli che il sergente aveva colto dalla sua presunta tomba erano lunghi qualche centimetro. Mentre camminavano e parlavano li teneva in mano come steli di fiori senza corolla. In quel giardino non c’erano fiori veri, soltanto erbacce avvizzite che mormoravano una canzoncina nervosa. Sibilla riusciva a sentirne l’odore nell’aria, le avvisaglie metalliche dell’inverno. Quando raggiunsero un angolo del giardino si voltarono e costeggiarono l’altro muro. Il momento in cui avrebbero dovuto separarsi incombeva su di loro e ogni passo era una freccia evanescente che scagliavano contro quel bersaglio. Lui le stava raccontando della scatola da cucito di sua madre.
«Bianca con i fiori rossi, gialli e blu. Rotonda. Così». Avvicinò i polsi e mimò un coperchio con la cerniera. «E dentro ci teneva gli aghi. Non me li faceva toccare».
«E tu li hai toccati lo stesso?».
«Certo. Allora, un giorno stava preparando da mangiare. Mia madre non cucina mai! Era per mio fratello. Era appena tornato dall’Abissinia. Io riuscivo a sentirne l’odore: il fango sui suoi stivali, il sudore, il sangue caramellato. Carne di cervo!». Il sergente chiuse gli occhi con l’aria trasognata. «Devi sapere che mia madre si prende sempre tutto il tempo che le serve quando cucina. La fame è l’unica spezia che usa. Perciò mi dico: “Federico, questa è la tua occasione!”».
Sibilla ripeté tra sé e sé il nome del sergente. Era come una formula magica: quando si girò per guardarlo di nuovo era come se fosse diventato più netto e definito.
«...aghi da cucito argentati», stava dicendo, «rovescio la scatola e quelli scivolano sul tavolo». Agitò la mano davanti a sé. «Li faccio rotolare avanti e indietro e poi me ne appoggio uno sulla lingua». Le lanciò un’occhiata. «Poi due, poi tre. Tre aghi hanno un sapore diverso rispetto a due. Quattro è il massimo».
«Perché?».
«E be’, per il suono».
Sibilla ci pensò su e poi annuì.
«E quindi è così che mi sono sembrati», continuò. «I tuoi peli. Come quegli aghi». Aprì la mano per mostrarglieli ancora una volta. Ma i pezzi di terreno gelato si erano ammorbiditi ed erano diventati fangosi dentro il suo palmo e i peli avevano formato una serpentina. «O almeno era così», disse mortificato. «Prima».
Sibilla sorrise. Erano arrivati alla fine di un altro muro. Si allontanò indicando mestamente i panni sul filo e raccogliendo il cestino della biancheria vuoto: la giornata era appena iniziata, c’era tanto da fare. Lui la guardò andare via. Davanti alla porta della cucina lei si raccolse i peli come una gonna e salì i gradini trotterellando. Poi si fermò e si girò.
«E in che senso si assomigliano?», gridò dall’altro lato dell’aria che vorticava. «I miei peli ai tuoi aghi deliziosi?».
«Adesso li assaggio», gridò Federico, alzando il pugno in cui teneva stretti i suoi peli. Sibilla sorrise e chiuse la porta, ma non del tutto. Sbirciò dalla fessura e lo vide aprire il pugno e portarsi la mano alla bocca. Prima che potesse appoggiarsi sulla lingua quei fili sottili, però, il vento li sollevò, li disperse e li portò via con sé.
La porta della cucina si aprì sussultando. Adriana alzò lo sguardo dalle patate che stava pelando. Era Sibilla, con il suo nuovo odore da adolescente. I continui sbadigli e la tendenza a trascinare i piedi erano già abbastanza fastidiosi. Ma era il cambiamento nell’odore di sua figlia la cosa che la irritava di più. A nessuna madre dispiace l’odore del proprio figlio, che di solito rientra nello spettro dei propri: una sfumatura di qua, qualcosa che si ripropone di là, come l’alito dopo che hai provato un cibo nuovo. Crescendo però l’odore di Sibilla si era fatto più forte e più intenso. Anche quando lei non era nella stanza, saliva da angoli in cui peli sparsi si erano ammucchiati, un aroma che ricordava il melone, il limone e i biscotti e che Adriana trovava allo stesso tempo infantile e spaventoso.
Quel giorno sembrava peggio del solito. Adriana lasciò cadere l’ultima patata nell’acqua bollente. Forse era perché il vestito che portava si era un po’ spostato o perché il tempo che aveva passato nel giardino ventoso le aveva fatto aggrovigliare i peli. Sibilla stava ancora davanti alla porta, sbirciava da una fessura e dava le spalle alla stanza.
Fu allora che Adriana le vide. Si avvicinò, afferrò Sibilla per la collottola, la trascinò fino a una finestra e le tirò giù il colletto del vestito. Sotto la luce Adriana esaminò le cicatrici della figlia: i punti bianchi, i bottoni neri e i medaglioni rossi e dorati che le correvano lungo la spina dorsale. Poi la fece girare per avercela di fronte, si piegò e, con l’arroganza della maternità, scostò la tenda di peli tra le sue gambe. Niente di insolito, anche se quella zona non era più glabra e l’odore muschiato e stucchevole divenne un po’ più intenso. Adriana si rimise dritta e le chiese una spiegazione.
Sibilla sapeva che non era il caso di mentire alla madre, perciò le raccontò con sincerità delle notti a Villa Serra, usando un tono monocorde per mitigare la rivelazione. Ovviamente non aveva idea di quanto bene sua madre conoscesse quelle feste, anche al di là della temibile spedizione archeologica che era dover ripulire la sala tutte le mattine. In effetti, all’epoca in cui Adriana aveva appena iniziato a lavorare per la signora a Villa Serra, aveva partecipato a quelle stesse serate. Restava perlopiù in un angolo, con addosso vestiti che le erano stati dati in prestito, troppo inebriata dallo spettacolo che aveva davanti per pensare di bere vino. Aveva ancora davanti agli occhi il salone all’apice del suo splendore, le tende di un bordeaux intenso come il sangue, le gocce luminose del lampadario. Ricordava ancora lo sguardo di Giacomo la sera in cui l’aveva riconosciuta dal banco del macellaio e l’aveva invitata a ballare...
Mentre Sibilla parlava, quella tappezzeria elaborata di ricordi si tesseva davanti a Adriana nell’aria piena di vapore della cucina. Sibilla, dal canto suo, poteva vederne ovviamente solo il rovescio: nodi, fili e colori sbiaditi che restituivano una parvenza della più essenziale delle forme mutevoli. Sembrava non essere consapevole del fatto che lì, nella cucina della signora, si stava svolgendo qualcos’altro oltre alla sua piccola storia. Continuò a cianciare, condividendo i suoi piccoli racconti sulle giravolte e i peli, la libertà e la morbidezza. Poi disse qualcosa a proposito del colonnello e del suo pugnale da caccia e, come se si fosse realmente materializzata, nella sua stessa essenza, la parola “pugnale” squarciò tutto e la tappezzeria si disfece.
Oh come pianse Adriana! Oh, e come punì Sibilla per la sua avventatezza! Ma anche mentre inveiva contro la figlia, Adriana non stava pensando a lei, bensì ai Gavuzzi. Adriana non amava più Giacomo. Non aveva quasi pianto quando era morto, vittima non della guerra ma dell’influenza che aveva imperversato ad Alba nel ‘43. Lui era stato semplicemente un condotto attraverso il quale qualcosa che andava al di là della vita terribilmente ristretta di Adriana era entrato nel suo mondo, qualcosa di grande come una guerra e di piccolo come un uomo. Nel profondo di sé aveva sempre saputo che lui era una persona insignificante. Quanto alla signora, adesso Adriana capiva che per Lina quello era stato solo un divertimento: invitare cameriere a feste che poi sarebbero state costrette a ripulire.
Quella deviazione nella costante ricerca di svago da parte dei Gavuzzi era stata l’apice e la tragedia della vita di Adriana. E adesso la maledizione che ne era derivata si trovava di fronte a lei, che impregnava del proprio odore la cucina, che si vantava delle nottate luminose dall’altro lato delle loro giornate faticose. Sibilla non capiva che non era un’invitata a quelle feste, ma uno spettacolino secondario? In quel preciso istante Adriana si rese conto che i Gavuzzi non avrebbero mai accettato sua figlia. Era arrivato il momento che Sibilla tornasse a casa.
Se quel giorno avessero lasciato immediatamente Villa Serra forse le cose sarebbero andate in un altro modo. Ma c’era ancora molto da fare, perciò Adriana chiuse Sibilla nella dispensa perché aspettasse lì fino al tramonto. Passarono diverse ore prima che tornasse a prendere la figlia per riportarla a casa. Quando aprì la porta della dispensa si ritrovò stranamente nervosa – vergognandosi in anticipo per quello che stava per fare – e così iniziò a blaterare del disordine che aveva dovuto sistemare quel giorno.
«Un reggiseno ha intasato una tubatura e, non ci crederai, ma il colonnello ha portato alla signora un regalo davvero bizzarro, una specie di uccello africano. Grigio, sporco. Che confusione che fa! E quanta cacca!». Adriana si affaccendò nella dispensa. «Cosa...?». Rimase impietrita. Sibilla era inginocchiata sul cuscino orientale, la faccia girata, lo sguardo rivolto verso l’unica finestra in alto. Ed era completamente rasata, la testa calva, le braccia e il collo un po’ chiazzati. Con addosso il suo vestituccio sembrava una penitente.
«Ma come...?», balbettò Adriana. Avvertì una fitta quando vide un vecchio coltello rugginoso sul pavimento accanto a un mucchio di peli. Quanto dolore doveva aver provato Sibilla per radersi e raschiarsi tutti i peli dal corpo! Com’era scorticata! Adriana scosse la testa. Era quello che aveva sempre voluto? La figlia senza la maledizione? Sibilla non sembrava più umana per questo. Aveva la pelle verdastra e ricoperta di buchini neri, dalla consistenza simile a quella dei fiocchi di neve che in quel momento stavano cadendo senza sosta davanti alla finestra della dispensa.
Sibilla si alzò e si voltò. Per un attimo la pena che Adriana provava si stemperò nella rabbia: che la ragazzina stesse cercando di punirla facendole venire i sensi di colpa? Ma no, l’espressione di Sibilla era calma, addirittura docile. Cielo, era bellissima! Si vedevano i piani della faccia, la struttura che formava il linguaggio dei suoi tratti.
«Non preoccuparti, mamma», disse Sibilla dolcemente. Sembrava tranquilla, le mani nelle tasche del vestituccio. «Ricresceranno».
Nell’attimo stesso in cui Adriana rinchiuse la figlia in casa la perse per sempre. Sibilla era diventata una domestica e il lavoro domestico fa cose strane alle persone. Nega la possibilità di avere consapevolezza di sé e allo stesso tempo rende liberi dalla necessità di prendere in mano la propria vita. Immobilizza la mente impegnando le mani; se però quelle stesse mani vengono a loro volta immobilizzate, la mente prende il sopravvento. Che cosa farò?, si chiedeva preoccupata Sibilla andando avanti e indietro nel capanno. Che cosa farò con le mie mani?
Iniziò pulendo la casa tutte le mattine. Le sue mani sapevano farlo. Poi si tagliava le punte dei peli. In quel periodo le crescevano più velocemente che mai, come per farle un dispetto, le ciocche che serpeggiavano fino ad avvolgere i manici delle cesoie persino mentre le manovrava. La tosatura quotidiana le richiedeva quasi un’ora. Metteva i residui in un secchio perché sua madre potesse sparpagliarli nell’orto. Pranzava. Poi si sedeva e fissava la porta chiusa, aspettando.
Durante il loro ultimo tragitto di ritorno da casa della signora – con Sibilla sconvolta dal freddo, le dita intorpidite che riuscivano a stento a svolgere i capelli avviluppati nella tasca del suo vestito – Adriana aveva cercato di piantare i semi della paura nella testa della figlia: ragazzi e pietre, tortura e annegamento, vecchi partigiani appassionati di armi e di donne, il mondo non è la Villa, lo sai, ti daranno fuoco come a una bestia, ti bruceranno in men che non si dica. Sì, e poi?, aveva pensato Sibilla. Fino a quel momento che cosa ci farò con queste mani?
Non avere niente da fare era come se ti staccassero le unghie una per volta. Sibilla esaminò le sue. Erano arrotondate, sormontate da una mezzaluna e coperte dalla peluria delle dita. Le unghie erano vive o morte? E i peli? Qual era la natura esatta di quelle estremità del corpo sentite ma non senzienti, dove l’interno incontrava l’esterno? Una volta il colonnello le aveva detto che i peli umani continuano a crescere dopo la morte. Lo aveva visto succedere ai cadaveri nei deserti dell’Abissinia durante la guerra. Ciò voleva dire che i peli erano il fantasma del corpo? E che cosa significava il fatto che lei ne fosse ricoperta? Meglio i peli delle unghie, si disse. Guardò la neve che scendeva fuori dalla piccola finestra, come se il cielo notturno stesse facendo la muta delle sue stelle. Ormai era inverno. Presto la mamma sarebbe rincasata. E lui non era ancora venuto.
Il sergente Corsale ci mise un po’ ad accorgersi dell’assenza di Sibilla. Erano tutti distratti dall’ultimo passatempo della Villa: il pappagallo cenerino della signora. Federico lo trovava repellente – era ossuto e spennacchiato, il becco come l’unghia del piede di una strega – ma era divertente ascoltarne l’eco strascicata. Gli invitati alle feste della signora ridacchiavano al pensiero dei segreti che avrebbe potuto spifferare. Solo quando la novità fu passata a qualcuno venne in mente di chiedere dov’era finita la ragazzina che volteggiava.
«Dorme». Lina rovesciò la testa sprezzante. «Quella pigrona di una puttanella. Forza, sergente. Andiamo a prenderla».
Federico prese un candelabro e seguì la padrona di casa mentre usciva dal salone sbandando e rimbalzando tra i suoi invitati come un’ape ubriaca in primavera. Quando finalmente arrivarono in cucina, trovarono la porta della dispensa aperta. Osservarono il vecchio cuscino sgualcito e avvallato. Di Sibilla non c’era nessuna traccia. Tranne che – Federico si chinò con il candelabro e indicò – «Un pelo!».
Lina alzò gli occhi al cielo. «Ma è ovvio che ci sia un pelo. Quella ragazza fa la muta come un cane. In questa casa ci sono troppi animali, tra il mio piccolo Paolucci e...». Si girò, già stufa della scomparsa della ragazza, e tornò trotterellando dai suoi ospiti ubriachi.
Federico rimase dov’era. S’inginocchiò sul pavimento della dispensa e tirò via il pelo dal cuscino, che però ci rimase incastrato. Tirò ancora più forte. Ah! C’erano diversi peli, intrecciati e legati a un barattolo pesante sul pavimento della dispensa. Da lì giravano intorno all’angolo dell’ingresso e serpeggiavano lungo il pavimento della cucina fino alla porta sul retro – la aprì – e poi giù lungo i gradini fino al giardino, il giardino gelido dove soltanto una settimana prima lui e Sibilla avevano passeggiato insieme e chiacchierato.
Quella sera Federico era troppo ubriaco per seguire il filo. La mattina dopo, però, lo raccolse e lo seguì fuori dal cancello cigolante del giardino. Scoprì che la treccia, o meglio la serie di trecce – Sibilla le aveva scaltramente annodate l’una all’altra – proseguiva e andava lontano, girava intorno a pali e a tronconi di alberi, man mano che la strada si piegava in tornanti, inerpicandosi su per la montagna fino al bosco.
Il fatto che Sibilla fosse intrappolata nel capanno rendeva i suoi peli irrequieti. Ondulavano come gracili tentacoli e a volte, quando non ci faceva attenzione, la stringevano come un pitone. Lei però sapeva che non volevano distruggerla. La proteggevano, le impedivano di disfarsi, formavano un’arena con tanto di cordone di sicurezza per il vortice che aveva scoperto dentro di sé nel salone della signora. Se quella spirale interna era un tornado, i suoi peli erano la volta del cielo: la tenevano attaccata a un orizzonte. Man mano che i giorni della sua cattività trascorrevano, però, la tensione tra forza interiore e la costrizione esteriore cresceva. L’attesa la peggiorava. La speranza era come un sortilegio: ogni scricchiolio era un passo, ogni cinguettio un saluto.
Tutte le sere l’arrivo di sua madre era una terribile delusione. Adriana entrava lamentandosi del lavoro. Ormai era ossessionata dal pappagallo della signora: una stravaganza eccessiva! Un animale che mangiava cibo per umani! E in cambio non dava nulla, se non rumore e merda! Sibilla non diceva niente. Si limitava ad annuire, a servire la cena che aveva preparato e a lavare i piatti. Il suo silenzio però s’ingentiliva con il prosieguo della serata. E quando arrivava il momento di andare a letto era diventato ormai quasi cordiale. A quel punto della serata il chiacchiericcio vuoto di Adriana finiva per sembrarle di conforto, una specie di compagnia, come stare sulle rive di un ruscello balbettante. Era una versione di famiglia migliore di tante altre.
Federico, che in quel momento avrebbe voluto ardentemente avere un cappotto più pesante, seguì con decisione la scia di peli tra la neve, dall’albero al fuscello al paletto della staccionata al sasso. Tra quei pali era sospesa la treccia, con la neve caduta che vi si era attaccata formando dei piccoli triangoli come stendardi tutti bianchi di una battaglia medievale: una resa totale. Ogni tanto perdeva il filo sotto un cumulo di neve. Poi lo ritrovava e ridacchiava. Era estremamente affascinato da quello stratagemma, anche se in realtà gran parte di questo fascino veniva dalla fascinazione che sentiva per se stesso. Aveva sempre amato la scintilla di eccitazione che dà andare alla scoperta di un mistero.
Federico aveva perso la fede nella Chiesa da adolescente, quando aveva messo a confronto ciò che sapeva sul sesso con ciò che gli era stato detto su Dio. Poco dopo aveva perso la fede nella guerra. Quando era bambino la guerra gli sembrava l’unica via d’uscita da una vita immobile nella borghesia terriera. Essendo il figlio minore di un nobile senza titolo era troppo ricco per lavorare, ma troppo povero per vivere spassandosela. La vita militare sembrava l’ideale: un equilibrio tra lavoro e spasso. Ma con il mito di un fratello più grande – il colonnello sempre via, in Abissinia o in Libia – Federico si era fatto un’idea piuttosto astratta della guerra: uno spazio sublimato di puro impeto; un turbinio di gambe che correvano e di ruote che giravano; fuoco e fumo che si allungavano arricciandosi su una mappa. Poi, il 10 ottobre del 1944, quasi otto anni dopo che Mussolini si era unito all’Asse, duemila partigiani scesero dalle colline del Piemonte. Occuparono Alba sottraendola al governo fantoccio di Salò e fondando una repubblica partigiana. Le campane delle nove chiese della cittadina suonarono a festa. Gli abitanti riempirono le strade, applaudendo con fervore o paura. I partigiani sfilarono con le loro uniformi assortite, raccogliendo donne, macchine e benzina, bussando alle porte degli ufficiali dell’esercito ed emergendone carichi di armi e divise: Federico riconobbe le insegne delle rane nere e gialle della vecchia uniforme di suo fratello. Ebbro di coraggio, il giorno dopo si arruolò come badogliano. Aveva soltanto sedici anni, ma grazie alla sua istruzione fu subito promosso al rango di sergente.
Venne fuori che, in pratica, essere un soldato della resistenza antifascista si traduceva in pattuglie a piedi a tarda notte, noiose giornate di esercitazioni di tiro e un sacco di sprechi: dell’ottimo terreno che veniva arato solo dai proiettili delle mitragliatrici, lasciando bossoli sparpagliati ovunque come scorze di semi. Fattorie e case venivano occupate da tipi pigri e rozzi, con gli edifici regrediti a legno e pietra e gli uomini ad animali. C’erano sepolture improvvisate un po’ dappertutto: dovunque si andasse si rischiava di calpestare la mano di un cadavere così come un mucchio di merda. La cosa peggiore di tutte era la puzza di inutilità. Dopo soli ventitré giorni di occupazione, i fascisti si ripresero la città dai partigiani e se la tennero fino alla Liberazione dell’anno seguente.
Federico era distrutto, apatico. Non aveva combattuto, aveva solo aspettato. Una volta che la guerra fu finita non gli restò altro da fare che lamentarsi con il fratello maggiore, che si era procurato una ferita di poco conto combattendo valorosamente durante la seconda campagna di Abissinia. Dopo il suo ritorno ad Alba il colonnello Corsale si era dato all’agricoltura e alla politica locale, ma era più contento di trascorrere le giornate a zoppicare nel bosco sparando per divertimento e le serate a raccontare vecchie storie di guerra alle feste a casa della signora Lina. Quando Federico si fiondò a Villa Serra dopo l’annuncio dell’armistizio alla radio, suo fratello gli aprì la porta bardato di tutto punto e gli fece un lento saluto militare.
«Benvenuto nel limbo!», disse il colonnello dandogli una pacca sulla spalla. «È ancora peggio dell’inferno».
In effetti le feste a Villa Serra erano deprimenti. Federico, in preda alla noia, si ritrovava spesso a punzecchiare il fratello con lo scopo di litigarci. Voleva parlare sempre della guerra, degli ideali che aveva generato, dei mostri deformi che aveva partorito, come le colonie, che adesso erano agitate dalla rivoluzione, determinate a ottenere l’indipendenza. Il colonnello, però, si limitava a ridere di quelle questioni filosofiche. Aveva deciso molto tempo prima che il mondo era tollerabile solo se si riusciva a trovare il suo lato umoristico. Federico lo guardava male. Come si poteva ridere quando la gloria si era dimostrata un borbottio? Quando la democrazia era nata morta?
Le promesse infrante della chiesa, dei partigiani, della guerra: Federico era diventato un uomo che non faceva altro che sospirare in mezzo alle rovine. E, per quanto sia una canzone piena di malinconia, un sospiro è pur sempre una canzone. In realtà Federico non aveva completamente perso la fede: al contrario, aveva ricevuto il dono di una fede dolorosa, una fede fondata sulla perdita e che pertanto poteva rinnovarsi all’infinito. Quando aveva visto per la prima volta la ragazza pelosa volteggiare nel salone della signora, aveva sentito le costole che gli si tendevano fin quasi a frantumarsi. Naturalmente il colonnello gli aveva sussurrato una volgarità all’orecchio, ma Federico lo aveva zittito e aveva continuato a guardare.
Le ciocche di peli della ragazza guizzavano e fluttuavano mentre le sbattevano intorno come una frusta, la sua sagoma pallida che scintillava sotto la caligine dei peli. E quando si era fermata e i suoi peli avevano continuato a vorticare, quando l’avevano legata così stretta da soffocarla, quando suo fratello l’aveva liberata e sollevata come Lazzaro dalle bende, e quando lui stesso le aveva asciugato il sangue dalla schiena, a quel punto Federico Corsale aveva ritrovato la fede. In quel preciso istante, quando raggiunse la sommità di una collina e vide il filo dei suoi peli intrecciati svanire sotto la porta di un vecchio capanno di caccia, ne era inondato.
Sibilla era seduta sul pavimento con gli occhi chiusi e stava ascoltando il suono del suo volteggio interiore, il cui ronzio assomigliava al verso gutturale di una colomba. Un colpo sulla porta la spinse ad alzarsi ancora prima che i suoi occhi si aprissero. Corse verso l’ingresso, diede istruzioni gridando e aspettò che lui trovasse la chiave nell’orto e aprisse la porta. Si ritrovarono faccia a faccia sulla soglia del capanno. Lei gli sorrise raggiante, ammutolita dalla felicità. Il sergente, coperto dai fiocchi di neve, rabbrividì contento di vederla, o forse felice per avercela fatta. «Ti ho trovata!», continuò a ripetere mentre lei gli faceva strada all’interno e lo faceva accomodare su una sedia accanto al focolare per poi offrirgli un caffè di cicoria.
Lui sorseggiò e parlò e parlò e sorseggiò, dandole un resoconto dettagliato di come aveva scoperto la sua assenza, la scia di peli e la sua traversata in mezzo alla neve. La sua bocca era come un automa. Sibilla rimase seduta sul pavimento e la osservò aprirsi e chiudersi per un po’. Poi, con sorpresa di entrambi, lo interruppe. Gli raccontò la sua versione dei fatti, innanzitutto come, mentre era chiusa in quella dispensa buia e puzzolente, si fosse strappata tutti i peli, una ciocca per volta. Come avesse trovato un vecchio coltello sotto un sacco di polenta e si fosse tagliata grovigli su grovigli di peli, la pelle che bruciava diventando rossa per poi raffreddarsi e tornare bianca. Per raggiungere i peli della schiena aveva dovuto portare il braccio oltre la spalla. Ma era stata attenta a strapparsene di dosso abbastanza da poterci fare una treccia bella spessa, che aveva avvolto in una palla per poi srotolarla dietro di sé tirandola poco a poco fuori dalla tasca mentre la madre la trascinava nuovamente nel capanno dove, se non fosse arrivato lui, sarebbe rimasta intrappolata per sempre...
La bocca del sergente era aperta, gli occhi spalancati. Sibilla aveva il respiro così affannoso che i suoi peli pulsavano seguendone il ritmo. Il fuoco fece schioccare le labbra. Il sergente sorrise.
«Certo», disse. In effetti, mentre andava lì, aggiunse mentendo, si era chiesto come avesse fatto Sibilla a ricavare un filo così lungo, tale che lui potesse seguirlo. Poi però si era detto che doveva aver usato i peli tagliati del giardino, quelli che ricoprivano il terreno, te lo ricordi? Sibilla se lo ricordava e glielo disse e poi gli sorrise, sollevata che anche lui se lo ricordasse. Allora in fondo non era una stupida.
«E come vanno le cose a Villa Serra?», chiese timidamente.
«Oh. Bene. C’è un uccellaccio terribile che mio fratello ha regalato a Lina. Parla e...».
«Parla?».
«Dice quello che gli si insegna», rispose ridendo. «Naturalmente Lina non si è preoccupata di addestrarlo...».
Si tolse la giacca mentre il fuoco gli riscaldava le ossa, liberando le braccia per poter gesticolare mentre le raccontava tutto degli intrichi sociali del salone di Villa Serra. Sibilla si mise comoda e si guardò le mani...
«...e non la finiva di parlare di quei cavolo di bambini in...».
«Bambini?». Sibilla alzò lo sguardo.
«Mio fratello, il colonnello, si vantava», disse beffardo, «che in Africa appendevano i bambini su un lungo falò».
«Dio, è terribile», disse Sibilla, lo sguardo acceso dal disgusto. Federico annuì serio. «E loro se ne stavano lì a guardarli bruciare».
«Non riesco a credere che gli italiani possano aver fatto una cosa del genere», disse lei.
«No, no!», ridacchiò Federico. «Gli indigeni!». Il suo disprezzo trovò ben presto un nuovo oggetto. «Anche dopo che abbiamo portato loro il nostro “Dio” e i nostri “modi civili”. È un abominio quello che abbiamo fatto agli ascari, spingerli a combattere i loro fratelli...».
«Gli ascari?».
«I soldati neri», mormorò lui. «La guerra è un incubo, Sibilla», disse guardando solennemente fuori dalla finestra. «È una cosa nauseabonda, a prescindere dal colore della mano che impugna l’arma».
«Che tipo di arma?».
«Fucili, sicuro». Aggrottò la fronte. «In Africa usano le zagaglie». Le lanciò un’occhiata. «Almeno così ho sentito dire».
Gli occhi di Sibilla s’illuminarono dietro i peli come uova dentro un nido. «E cosa sono le zagaglie?».
Così iniziò la collisione di due paia di labbra. All’inizio si aprivano e si chiudevano dai lati opposti della stanza mentre Federico e Sibilla chiacchieravano. Con il passare delle settimane e l’intensificarsi delle visite di Federico si avvicinarono sempre di più finché un giorno si ritrovarono ad aprirsi e a chiudersi l’una contro l’altra, senza dire niente, con urgenza. Sillabavano parole alla cieca, parlavano in lingue, ciascuna scandalizzata dalla volontà dell’altra di andare oltre. I peli di Sibilla si contorcevano e si annodavano, aggrovigliati tra di loro. Una volta Sibilla si staccò da lui e sussurrò: «Ti fanno orrore?».
Le labbra di Federico stavano ancora sillabando parole nell’aria. Le chiuse e aprì gli occhi. «Cosa?».
«I miei peli. Ti...».
Federico la attirò a sé e la baciò sulla sommità della testa. Lei si rannicchiò contro la sua spalla e sembrò che anche i suoi peli si ammorbidissero.
«Bene», gli disse. «Parliamo del piano».
«Quale piano?», le sussurrò Federico con la bocca attaccata al suo cranio e la voce che vibrava attraverso le ossa di lei.
«Per andarcene da qui».
Qualche mese dopo Sibilla si svegliò di notte per il rumore della chiave che grattava contro la serratura. Era ancora buio, ma stava per fare giorno, quel brevissimo intervallo durante il quale anche gli insetti dormono. La porta del capanno si aprì e Sibilla sentì la madre che imprecava inciampando sulla soglia. Sibilla si voltò dall’altro lato. Poi sentì altri rumori: uno sbuffo, piedi che incespicavano, qualche sussurro, il gorgoglio di un liquido in una bottiglia e il fischio attutito di un paio di labbra sulla bocca di quest’ultima. Dai rumori si capiva che erano due persone, che ridevano l’una dell’altra, che si zittivano a vicenda, che ridevano dei tentativi di zittirsi e che cercavano di zittire le risate e così via. Era un gioco stupido: il capanno era troppo piccolo per i segreti. Sibilla si mise seduta.
«Guarda che ti sento», disse.
Sua madre strillò. L’uomo che era con lei seppellì la propria risata fragorosa in qualcosa di morbido, pelle o stoffa.
«Vieni!», disse ansimando alla fine. «Ragnatela! Unisciti a noi. Fatti vedere!».
Sibilla scivolò con riluttanza giù dal letto avvolgendosi il lenzuolo addosso e accese una lampada. Le loro figure tremolarono per poi mettersi a fuoco. Il colonnello era seduto sulla sedia. Aveva la camicia sbottonata che gli lasciava scoperto il collo taurino bordato di ricci grigiastri. Spostò lo sguardo varie volte da Sibilla alla madre, che era seduta sulle sue ginocchia. Adriana portava un vestito che Sibilla non aveva mai visto e che era o bianco sporco o marrone sbiadito e la collana di vetro verdeazzurra che le aveva regalato la signora Lina. Aveva i capelli sciolti e assomigliava a una vecchia scopa di filacce. Sibilla si rese conto di non averli mai visti insieme dopo quella mattina di dieci anni prima, quando era andata per la prima volta a casa della signora. Nessuno dei due era cambiato molto – sua madre era un po’ più magra, il colonnello un po’ più robusto – ma le cose tra di loro erano evidentemente cambiate parecchio. Sibilla pensò ai racconti di nonna Giovanna. Il colonnello era la marionetta Gianduja, Adriana la Giacometta sulle sue ginocchia.
«Portaci un po’ d’acqua!», disse Adriana dal suo trono.
A Sibilla si rizzarono i peli, ma obbedì. Andò verso la caraffa e versò l’acqua in due bicchieri di stagno che porse loro per poi risedersi sul letto. Adriana continuava a leccarsi le labbra dopo ogni sorso, un gesto stranamente sensuale, anche se probabilmente stava solo cercando di non fare un disastro.
«È un bel po’ di tempo che non ti vediamo nel nostro salone delle feste, ragnatela», disse il colonnello. «Lasciati guardare. Mi mancherai quando partirò».
Sibilla si voltò di scatto verso di lui. Partire per dove?
«Perché non ci mostri uno dei tuoi numeri?», biascicò Adriana con aria furba. «Perché non volteggi per noi?».
«Sì, sarebbe bello», le fece eco il colonnello, gli occhi che scintillavano alla luce della lampada.
Adriana rise soddisfatta, rovesciando la testa all’indietro. Sibilla non aveva mai visto il collo della madre curvarsi in quel modo, un alberello piegato dal vento, la collana di perline che scintillava come rugiada.
«Balla per noi, ragnatela!». Il colonnello iniziò a battere forte le mani, tenendo il tempo con un piede. Adriana ridacchiò con un certo imbarazzo, faticando a stare dritta sul ginocchio che andava su e giù. Quando riuscì a recuperare l’equilibrio unì il battito fievole delle sue mani alla percussione.
Sibilla osservò i loro denti scoperti e i loro sguardi che aspettavano ansiosi mentre l’applauso anticipatorio prendeva velocità. Lo scopo era quello di mettere in moto il turbine dentro di lei. Sibilla piombò nella disperazione. Avrebbe girato sempre in quel modo per gli altri, come un disco, la loro puntina acuminata che scivolava dentro i suoi solchi? Voltò le spalle al tumulto nei loro sguardi e uscì dal capanno, chiudendo la porta dietro di sé.
Si sedette sull’erba fresca sotto gli alberi sul retro del capanno, le braccia intorno alle ginocchia. Era stato Federico – il suo corteggiamento tranquillo, pacato – a farle venire voglia di andarsene? No. Anche lui aveva sete di lei, la stessa sete che Sibilla aveva visto negli sguardi di sua madre e del colonnello e che, lo sentiva, in quel momento stavano placando insieme dentro il capanno. Quando le loro ultime grida cozzarono contro il primo canto degli uccelli, l’alba aveva ormai tolto il tappo al cielo e riversato oro bianco sulla valle.
Quando il colonnello uscì dal capanno e si avviò zoppicando lungo il fianco della collina, Sibilla tornò dentro. La madre la guardò in cagnesco dal letto disfatto.
«Solo una notte. Dopo tutto questo tempo». Adriana si tirò su e s’infilò una sottoveste. «Un piccolo piacere...». Si girò per guardare fuori dalla finestra. La sua guancia era solcata da linee frastagliate, ma Sibilla non avrebbe saputo dire se dipendessero dagli anni o dalle lenzuola.
La primavera arrivò. Scurì la pelle di Federico e gli schiarì i capelli. Coprì la valle di foglie verdi scintillanti e boccioli bianchi. Sibilla fremeva d’irrequietezza.
«Portami da qualche parte», lo implorò.
Federico obiettò: «Tu sei l’unico viaggio che vorrei fare, Giacometta mia».
«Non chiamarmi così». Gli lanciò un’occhiataccia. «Bene. Allora sarò io a portarti da qualche parte».
Nonostante il caldo, Sibilla s’infilò il vecchio cappotto con la fodera di seta della madre. Prese Federico per mano e lo condusse sul sentiero che aveva imboccato quando era piccola. Ecco gli alberi che profumavano di pepe! Ecco la radice in cui era inciampata! Ecco il fiume Tanaro!
«Questo non è il Tanaro», le fece notare Federico ridendo. «È solo un ruscello».
Sibilla fece spallucce. Era pur sempre il suo, ma che differenza faceva il bel tempo! Quello non era un fiume marrone sotto un cielo in tempesta. I raggi del sole si tuffavano nell’acqua e allungavano corde di luce intrecciate sulle pietre. Gli alberi verdi sopra di loro sussurravano dolcemente. Federico si lamentò delle punture degli insetti, ma anche le mosche sembravano bellissime nei loro sciami scintillanti. Sibilla buttò il cappotto da una parte ed entrò a piedi nudi nell’acqua. I suoi peli ne incresparono la superficie, sciabordando pigramente. Federico si tolse gli stivali per unirsi a lei. Sorrisero guardando i loro piedi sott’acqua. Poi lui saltò di scatto sulla sponda.
«Che cos’è?!», chiese Sibilla. «Un serpente?».
Un banco di pesci. In quel momento sentì che stavano mordendo anche le sue caviglie. Federico si stava già rimettendo gli stivali, borbottando quanto fosse pericoloso stare scalzi. Sibilla abbassò lo sguardo verso le creature traslucide che le guizzavano intorno ai piedi, schizzando dentro e fuori dai grovigli dei suoi peli. Avevano fame? No. Per quelli che non hanno le mani mordere è solo un modo per esprimere la curiosità. Ma aveva la sensazione che, se glielo avesse lasciato fare, avrebbero potuto mordicchiarla fino all’osso.
Si scrollò di dosso i pesciolini che le massaggiavano i piedi e uscì dal torrente. Stese il cappotto e vi si sedette sopra, aspettando che Federico smettesse di parlare. Finalmente lui la guardò. Lei lo guardò. I suoi peli tremarono.
Come succede sempre la prima volta tra un uomo e una donna, lei non fu soddisfatta, mentre lui lo fu troppo in fretta. Federico rotolò appoggiandosi sulla schiena. Sibilla gli teneva ancora la mano sul polso che ticchettava, debole e irregolare, come il metallo quando si raffredda. Rimasero distesi per un po’ sul cappotto di sua madre, nella pozza del seme di lui e nel crepuscolo che avanzava furtivo, lo sguardo rivolto agli alberi sopra di loro che strofinavano le teste frondose.
«Vuoi riprovarci?», sussurrò lei e lui lo fece.
1956
Din don, disse il pappagallo.
I fratelli Corsale erano nel salone della signora. Gli altri ospiti non erano ancora arrivati. Il colonnello era seduto sulla poltrona di velluto e faceva capolino nella gabbia del pappagallo grigio che saltellava qui e là starnazzando. Lina era vicino al camino e stava versando da bere nei bicchieri appoggiati sulla mensola. Federico andava avanti e indietro nervosamente, con la coda di cavallo che si agitava come una frusta mentre pontificava.
«Gli italiani “hanno costretto” gli africani a combattere gli uni contro gli altri. E per che cosa poi? Per ideali che andavano al di là della loro comprensione. Gli indigeni non hanno nessuna nozione di impero, democrazia o futuro».
«E nessun senso del tempo», bofonchiò il colonnello. «Quei kaffir della malora sono sempre in ritardo».
Malora, malora!, disse il pappagallo.
«Il punto non è questo!», esclamò Federico. «L’Abissinia avrebbe dovuto essere il nostro più grande successo. Prendere il fortino di Ual Ual è stato un conto. Ma quando abbiamo usato gli ascari per l’invasione, abbiamo perso la nostra anima, la nostra dignità. Li abbiamo messi gli uni contro gli altri come... come cannibali».
«Quelli sono già dei cannibali della malora! È la maledizione di Cam».
Cam! Cam!
«Shhhh, Paolucci», disse Lina con indulgenza. «Non è vero», proseguì rivolgendosi ai due fratelli. «Quando vivevo in Rhodesia da piccola gli indigeni non mangiavano gli uomini. Altre cose disgustose – bruchi, ratti – sì. Ma gli uomini no».
«Mangiano il cervello dei nemici per tenere lontano il male». Il colonnello distolse lo sguardo dalla gabbia e sorrise. «È una cultura sacrificale».
«Ma siamo stati noi a instillargliela», ribatté Federico. «Li abbiamo costretti a sacrificare...».
«Io dico sempre», disse il colonnello come se stesse parlando tra sé e sé, «che l’unico modo per fare fuori un cannibale è insaporirlo per un altro cannibale. Veleno per veleno». E si scolò il bicchiere di whisky con una strizzatina d’occhio.
«Siamo noi quelli che hanno usato il veleno! Bombe al gas mostarda, contro la Convenzione di Ginevra...».
Veleno mostarda!
Il colonnello gemette. «Il tuo cinismo virtuoso denota un’imperdonabile mancanza di stile, Federico».
Federico, però, continuò a parlare delle colonie, della perdita della terra dopo la guerra. L’impero italiano era ormai stato raso al suolo come da un incendio. «Sono come braci alimentate dai venti del cambiamento, queste rivolte contro di noi».
Lina sorrise. «E la Francia, il Belgio e la Spagna, allora? Anche i loro imperi stanno crollando».
«È sempre così», commentò il colonnello. «Come si addormentano i bambini: piano piano, e poi tutto d’un colpo».
«Gli indigeni sono bambini», riprese Federico. «Credono di essere in guerra con l’Europa, con la regina. Ma stanno facendo i capricci. Governare da sé le proprie nazioni?! Sono bambini che giocano a fare i grandi».
«Bambini!», esclamò il colonnello. «È così che definiresti i Mau Mau?».
Mau, disse il pappagallo. Mau. Mau. Mau.
«Hai trasformato il mio pappagallo in un gatto», disse Lina rimbrottando il colonnello. «Non hai paura di tornare laggiù?». Andò lentamente verso di lui tenendo in mano un candelabro di cui solo un quarto delle candele erano accese.
«No, no». Il colonnello scacciò l’idea con la mano. «Quei bruti non mi spaventano».
«Che cosa state dicendo?». Federico aggrottò la fronte. «Tornare laggiù?».
«Il nostro caro colonnello», disse Lina tristemente. «Ci lascia per andare in Africa. Che disdetta!».
Disdetta!
«Ho trovato un lavoro». Il colonnello si appoggiò allo schienale della poltrona e intrecciò le dita. «Con la Fiat».
Fiat!
«Hanno creato una divisione di ingegneria civile con la Impresit. Stanno costruendo la diga più grande del mondo sul fiume Zambezi. E tra sei mesi io sarò lì, a supervisionare i lavori».
«Sei mesi!», esclamò Federico. «Così presto?».
«Sì, Lina ha fatto un miracolo con i vecchi amici di suo padre nella Rhodesia del Nord. Perciò come vedi, Federico», disse il colonnello sorridendo, «in realtà l’impero non è morto. Mentre parliamo sta risorgendo dalle sue ceneri».
Ceneri! Ceneri!
Ormai tutte le sere il colonnello Corsale andava a bussare alla porta del capanno. Sibilla sospirava, s’infilava il suo vestituccio e lo faceva entrare mentre lei usciva. Restava fuori, al buio, per permettere a lui e alla madre di godersi il loro piccolo piacere. Poi il colonnello iniziò ad arrivare sempre prima, ancor prima che Adriana rincasasse. Si sedeva oppure andava avanti e indietro con la sua andatura claudicante, intrattenendo Sibilla con racconti sui peli. Le mostrò l’immagine di una negra con un copricapo torreggiante fatto con i capelli intrecciati del suo amante. Le raccontò delle bambine cinesi che nel settimo secolo ricamavano immagini del Buddha con i loro capelli e degli elaborati pouf scultorei indossati da Maria Antonietta.
«Non ti domandi mai», le chiese una volta, pettinando l’aria con le dita per poi farle tremare come a mimare la pioggia, «perché sei così?».
«No», tagliò corto lei.
«Non sei curiosa?». Il colonnello piegò la testa. «Be’, io ho avuto una fitta corrispondenza a proposito della tua condizione con Herr Doktor Klein – un vero esperto, l’ho conosciuto nel ’42 – e lui dice che...».
Sibilla non era interessata a quei racconti tricologici, che le sembravano sempre un modo per blandirla. Aveva iniziato a detestare quell’uomo corpulento, con le sue opinioni e le sue imposizioni. «Volteggia per me, ragnatela. Parla con me». Una volta si era addirittura portato dietro il pappagallo della signora per farla divertire. Sulle prime Sibilla era stata affascinata dall’idea di un uccello parlante. In realtà, però, Paolucci era brutto e rumoroso. Come il colonnello. Lui non faceva altro che cianciare delle sue avventure africane, passate e future: Kenya, Libia e Rhodesia; i leoni, le tigri e gli elefanti che aveva in mente di uccidere. Il suo modo di parlare la agitava, la faceva sentire elettrica. Preferiva Federico, con il corpo smussato e i racconti presi in prestito, il modo in cui considerava i suoi peli un’attrattiva piuttosto che una cosa strana. Teneva entrambi i fratelli all’oscuro delle visite dell’altro.
«Non è meraviglioso?», diceva il colonnello. «Avere una mogliettina nascosta nei boschi!».
Sibilla era infastidita dalla sua presunzione, ma non diceva niente. Era come se quella volta, tutti quegli anni prima, quando le aveva appoggiato i palmi sulla faccia per vederla meglio, il colonnello Corsale si fosse in un certo senso impossessato di lei.
«E se dovessi passare questa cosa ai tuoi figli?», le chiese in quel momento, mentre era grottescamente stravaccato sul suo letto.
«Che vuol dire?», sbottò lei. Era seduta davanti al fuoco e stava lucidando il vecchio orologio con la spirale sul quadrante che la signora aveva regalato a sua madre.
«Non sai come funziona? Ci sei tu e poi c’è un uomo. E quando vi baciate...», disse ridacchiando.
Sibilla rispose a quella volgarità facendo schioccare la lingua. Il colonnello si mise a cicalare di un tizio di nome Mandelbrot, di ereditarietà e di geni. Sibilla era curiosa, soprattutto di ciò che lui chiamava «la linea paterna», ma era troppo in ansia per prestargli attenzione. Lanciò un’occhiata alla porta. Federico sarebbe potuto arrivare da un momento all’altro. Ultimamente aveva iniziato a opprimerla con le sue proposte di matrimonio. Anziché fuggire, le aveva detto, perché non restare in Piemonte, fare qualche figlio, sistemarsi in una casetta, naturalmente in un posto appartato? Sibilla si era arrabbiata: lei voleva scappare da quel capanno, non semplicemente trasferirsi in un altro uguale.
«...ho scritto a un altro amico», stava dicendo il colonnello, «uno scienziato. E lui crede che...».
Sibilla s’immaginò i due fratelli che si ritrovavano uno di fronte all’altro sulla soglia del capanno.
Spesso, mentre era distesa accanto a Federico nel bosco, con gli aghi di pino che le facevano il solletico e le mani di lui che vagabondavano tra i suoi peli, avrebbe voluto voltarsi e dirgli: «Sai, tuo fratello viene a trovarci». Oppure: «Ho conosciuto quello stupido pappagallo». Ma confessare il segreto avrebbe significato confessare quanto a lungo glielo aveva tenuto nascosto.
«...e mi ha chiesto una tua fotografia», proseguì il colonnello. «Io invece gli ho mandato un disegno e...».
«Un disegno!». L’orologio le cadde di mano. «Come si è permesso!», sibilò.
Federico non andava al capanno tutti i giorni. Se stava via troppo a lungo, trovava Sibilla offesa, con gli occhi spenti e leggermente incrociati dietro i peli. Quel giochetto dello sguardo appannato lo infastidiva tutte le volte. L’attenzione che Sibilla gli prestava era precisamente il motivo per cui andava da lei. Era come un’amaca – oscillante, flessibile – dove poteva appoggiare i pensieri che gli correvano senza freni nella testa. Quando gli occhi di Sibilla si ritiravano dietro il suo boschetto, lui la traeva di lì con la sua esigua raccolta di racconti di guerra, ma più spesso con quelli del fratello: racconti oscuri e violenti che facevano sì che gli occhi di Sibilla tornassero da lui. Ben presto però il colonnello sarebbe partito per l’Africa, portando con sé il suo serbatoio di storie.
Che cosa avrebbe potuto raccontare a Sibilla quel giorno? Forse un aneddoto sul pappagallo della signora? Stava percorrendo la strada a tornanti che portava al capanno, godendosi il vento freddo autunnale. In quel momento il sole faceva i capricci: si lasciava vedere, si nascondeva timido dietro le nuvole e poi si mostrava in tutta la sua magnificenza. Il vento sferzava a destra e a sinistra, gettando scompiglio e ombre erranti sulla valle, come se una mano gigantesca stesse arruffando i campi. Federico sfiorò a sua volta con le mani le spighe secche che spuntavano da una recinzione. Le loro lappole a ciuffi gli fecero venire in mente le piume e, ancora una volta, Paolucci.
La sera prima qualcuno aveva innaffiato di grappa il mangime del pappagallo. L’animale aveva iniziato a saltellare girando e gracchiando a ripetizione oscenità. Puttana! Pompinara! Porta il vino! Porta le zoccole! Bugiardo! Ceneri! Vaffanculo! Federico scosse la testa e spezzò distrattamente una spiga. Volteggia, ragnatela! Che cazzo! Sputo sulla tomba di tuo padre! Sputo sulla fica di tua madre! Federico sfilò le foglie al gambo della spiga e lo usò per pulirsi i denti mentre avanzava lungo i tornanti della strada. Stupida bestiaccia. Volteggia, ragnatela! Si bloccò di colpo, con la spiga che gli penzolava dalla bocca. Volteggia, ragnatela? Ma il pappagallo era arrivato a Villa Serra proprio il giorno in cui Sibilla era andata via. Come faceva a conoscere il soprannome che le aveva dato il colonnello? Federico si mise a trotterellare. Come aveva fatto a ripetere il suo comando? Federico iniziò a correre.
«Che cos’è?». I baffi del colonnello si sollevarono per la sorpresa, come se le loro estremità fossero legate alle sue sopracciglia. Si alzò e andò zoppicando lentamente verso di lei. «Mi sono preso così tanto disturbo per trovare una cura per te, ragnatela. Potresti anche venire con me...». S’interruppe per accendersi una sigaretta. «Sai», aggiunse pensoso, «a questo mondo ci sono altre persone come te».
«Come me?». Sibilla non riconobbe la propria voce. «E dove?».
«Ragnatela!». Il colonnello si voltò verso di lei, soffiandole il fumo negli occhi. «Lo sapevo che eri curiosa! Non vuoi sapere come ti chiamano i medici?».
Sibilla si alzò e attraversò il capanno, con i peli che s’insinuavano nelle fessure del legno. Appoggiò l’orologio sul tavolo. «Non ho mai voluto un medico. O un nome».
«Cara ragnatela, non possiamo sempre decidere quello che vogliamo o non vogliamo sapere...».
«Ma io so quello che vuoi tu!». I suoi peli si rizzarono, come quelli sul collo di un animale. «Tu vuoi inghiottirmi!».
Si guardarono negli occhi. Senza distogliere lo sguardo il colonnello raggiunse zoppicando il tavolo e prese un foglio dalla tasca della sua giacca. «Sibilla». Sentire il suo vero nome che usciva dalla bocca del colonnello le fece uno strano effetto. Lui la chiamava sempre ragnatela. «Ecco cosa sei».
Il foglio era piegato, ma quando lo lasciò cadere sul tavolo si aprì. Sibilla lo fissò per un attimo. Poi lo agguantò, corse verso il focolare e lo gettò tra le fiamme. Il fuoco lo fece scricchiolare. Il colonnello la raggiunse barcollando e la afferrò per un braccio. Non stava cercando di salvare la lettera – lui l’aveva letta e ormai non c’era più –, voleva soltanto farle male. Sibilla gli lanciò un’occhiataccia e poi abbassarono entrambi lo sguardo verso la mano di lui che stringeva l’avambraccio di lei: i peli di Sibilla gli erano scivolati sul polso. Grugnendo il colonnello girò una mano, stringendone una manciata. Con l’altra la fece voltare su se stessa in malo modo, una, due volte, finché Sibilla non si ritrovò avvolta dai suoi peli. Cercò di girarsi, ma lui fu lesto a tenerla dov’era.
Mentre iniziava a provare la sensazione di calore e soffocamento che le era tanto familiare, sentì un suono pizzicato e dolente, come un mandolino rotto. Sapeva quanto era affilato il pugnale del colonnello, quanto erano stati rapidi e sicuri i suoi movimenti tutte le volte che l’aveva liberata dal suo bozzolo notturno nel salone della signora. Mentre il respiro e la conoscenza le venivano meno, Sibilla capì che lui stava usando la parte di dietro a uncino anziché la punta più affilata, facendola scorrere lentamente lungo i peli che la avvolgevano, suonando una melodia distorta mentre decideva se liberarla o meno...
Federico capì quello che stava succedendo nell’attimo stesso in cui fece irruzione nel capanno. Abbrancò il fratello per staccarlo di dosso a Sibilla, poi gli montò a cavalcioni e lo prese a pugni in faccia a ripetizione. Quando alla fine il dolore dei pugni superò quello che aveva nel petto, si tirò su tremando, afferrò il pugnale da terra, barcollò verso Sibilla e la prese tra le braccia. Suo fratello si agitava scompostamente, ridendo sotto i baffi insanguinati. Aveva la patta ancora aperta, la pelle rosa e ruvida in quel punto come quella del collo di un uccellino. «Prendilo. Prendila»: sputò le parole ridacchiando, con un filo di voce densa e impregnata di sangue. «Io ho avuto quello che volevo».
Federico abbassò lo sguardo verso Sibilla, che era svenuta tra le sue braccia, anche se i peli si muovevano ancora. La portò fuori e la depositò delicatamente nell’orto. Poi tornò dentro in tutta fretta, montò nuovamente a cavalcioni sul fratello e gli svuotò le tasche della divisa: le squarciò e tirò fuori i suoi documenti d’identità, il suo portafogli, il suo accendino e le sigarette. Federico parlò duramente alla faccia sanguinante sotto di sé, enumerando tutto quello che si stava prendendo.
«Il tuo nome. Il tuo lavoro. I tuoi onori». Federico sputò il suo elenco. «Il tuo futuro».
Lasciò soltanto una cosa: il pugnale da caccia, in mezzo al petto del colonnello.
Sibilla si svegliò all’esterno in mezzo ai pomodori. Federico era accovacciato accanto a lei e le stava baciando la fronte meccanicamente. L’odore della terra fresca fioriva intorno a loro. La porta del capanno era aperta. Dov’era il colonnello? Sibilla guardò Federico, ma lui distolse lo sguardo mentre la aiutava a tirarsi su. Era sudato e aveva i vestiti tutti sporchi. Le mise un braccio sulla spalla mentre la conduceva in fretta lungo il sentiero che portava lontano da casa sua. Sibilla stava tremando e i suoi peli erano elettrici.
Mentre avanzavano incespicando sotto il cielo luminoso in tempesta, Federico le spiegò il piano. Avrebbero raggiunto in macchina Napoli e trascorso lì la notte. La nave per Suez sarebbe partita il giorno dopo. Avrebbero fatto scalo a Aden, Gibuti e Mombasa prima di raggiungere Dar es Salaam, per poi arrivare via terra fino a Bulawayo. Suo fratello aveva illustrato l’itinerario della sua avventura africana così tante volte che Federico lo conosceva a memoria. Era lì che si squadernava davanti a loro come un destino. Dovevano solo allungare la mano e agguantarlo. Una nuova vita. Naturalmente avrebbero dovuto prendere delle precauzioni. Sibilla si sarebbe dovuta radere completamente la faccia tutti i giorni. Lui avrebbe dovuto tagliarsi il codino e farsi crescere i baffi. E lei avrebbe dovuto chiamarlo con un nuovo nome. Lui non era più Federico. Adesso era il “colonnello Giuseppe Corsale”.
Sibilla acconsentì al piano in una specie di stato di fuga dissociativa. Tutte le volte che lo chiamava con il nome del fratello, ci vedeva doppio, la faccia del colonnello che fluttuava sovrapponendosi a quella di Federico come un fantasma. Più si allontanavano da Alba e più si avvicinavano all’insieme di territori a cui era stato dato il nome discutibile di “Federazione” dove avrebbero stabilito la loro dimora, più Sibilla si sentiva a sua volta un doppio di se stessa. Diventò una specie di prurito sottopelle che gareggiava con il prurito vero sulla pelle provocato dalla rasatura quotidiana – almeno tre volte al giorno – durante il viaggio.
La loro preoccupazione costante era quella di nascondersi. Ogni porta che si apriva conduceva all’ennesimo spazio chiuso: una stanza d’albergo, la cabina di una nave, un veicolo, un vagone letto. Qualcuno era meno solido degli altri, qualcuno era illuminato meglio, qualcuno tremava, rullava o s’inclinava, ma ognuno era comunque un’asfissia di piani e angoli. Sembrava che il mondo fosse un’unica casa gigantesca e che Sibilla vi fosse intrappolata dentro, condannata a oltrepassarlo – anche i suoi oceani più vasti – attraverso una serie di stanze collegate tra di loro.
Poté finalmente prendere un po’ d’aria fresca quando arrivarono in Tanzania tre settimane più tardi. Uscì sul balcone della stanza d’albergo a Dar es Salaam. Era notte. Senza il suo solito velo di peli, la luna le appariva come un osso spolpato. Con quella luce i palazzi e le strade della città sembravano chiari e istituzionali. Solo l’odore di fumo e sale, il caldo e i rumori – degli uccelli, degli insetti e del mare – le fecero capire che era in un posto nuovo. Sentì un suono familiare: il campanello di una bicicletta. Abbassò lo sguardo verso la strada mentre un tizio passava pedalando, un tempio di banane sulla schiena. Il tizio si fermò quando incrociò un pedone, un uomo che portava un turbante: era arabo? Dopo una breve chiacchierata, alzarono entrambi lo sguardo verso di lei. Sibilla li salutò con un cenno. Loro non risposero. Lei si portò una mano alla faccia che stava tornando a coprirsi di peli.
Federico aveva finalmente messo a frutto il proprio addestramento militare. Anche mentre conduceva una tremante Sibilla via dal capanno, però, anche mentre progettava un piano di fuga e lo metteva in atto, era stato assillato da un’immagine. Era come l’agopuntura cinese: altrettanto sottile, altrettanto potente. Quando aveva fatto irruzione nel capanno e aveva visto quei due corpi che conosceva fin troppo bene aggrovigliati, i peli di Sibilla stavano strisciando e si stavano attorcigliando intorno agli arti del colonnello, come pervasi dal desiderio. Quell’immagine lo ossessionava, lo derideva dallo specchio sotto forma dei baffi che si stava facendo crescere per camuffarsi. Gli aleggiò davanti per tutto il viaggio fino in Africa.
Tra una visita e l’altra a una letargica Sibilla nella loro minuscola cabina con un solo oblò, Federico se ne stava sul ponte inferiore a guardare quell’immenso, enigmatico continente che gli scivolava accanto. In certi momenti la costa africana sembrava priva di tratti distintivi, monotona, inespressiva. In altri sorrideva, languiva, s’infuriava. Vieni!, lo chiamava. Vai!, tuonava. Il mare obbediva. Oltre la linea bianca delle onde, si profilavano colossali foreste pluviali, di un verde così scuro che era quasi nero. Chiazze grigie di civilizzazione erano incastonate qui e là nell’oscurità, una bandiera sporadica che sventolava a dichiarare che l’uomo bianco era almeno approdato in quel luogo. Federico ne avvertiva la maestà, ma anche l’irrilevanza. Quegli insediamenti, vecchi più di un secolo, si erano limitati a intaccare la distesa intonsa del continente più interno. Altro che promozione della causa del progresso e della ragione in Africa.
Si rese conto di quanto si sbagliava quando intrapresero il viaggio verso l’interno diretti alla Federazione: un viaggio lento e difficoltoso lungo la strada di accesso meridionale fino al sito di costruzione della diga. L’Occidente era arrivato fino all’interno, ma aveva portato con sé le sue tendenze peggiori: burocrazia, venalità, banalità. I lavoratori europei bevevano birra locale e fumavano marijuana scavando condotti nella terra della savana. Andavano a caccia per procurarsi da mangiare anziché per sport. Si aggiravano a torso nudo, insultando, tiranneggiando e punendo i negri per pompare il proprio ego. Gli operai tonga, pagati una miseria, erano impenetrabili, con la loro pelle opaca, i sorrisi enormi e la deferenza remissiva. Quelli che lavoravano alla diga erano nel complesso rozzi come i paesani che lavoravano nei campi e nelle vigne in Piemonte e che si erano uniti alla Resistenza. Federico era nella stessa posizione di allora, quando era un sergente sedicenne: preoccupato di non essere rispettato, eppure non disposto ad abbassarsi al loro livello.
Mentre gli altri ingegneri capo stavano tutto il tempo fuori, sul sito, mescolandosi alla marmaglia, Federico scelse di trascorrere tutta la sua giornata lavorativa in ufficio. Ciò sorprese i suoi superiori: avevano assunto il colonnello Corsale perché avevano avuto l’impressione che gli piacesse stare all’aria aperta, a cacciare e combattere. Federico si tirò indietro: la sua vecchia ferita di guerra faceva le bizze, così disse mentendo, e iniziò anche a far finta di essere leggermente zoppo. Senza contare, aggiunse, che lì, nella valle di Gwembe, il sole era molto più forte di quanto non fosse in Abissinia. Con l’approssimarsi della stagione delle piogge la temperatura raggiungeva i quarantacinque gradi tutti i giorni. In ufficio il caldo era opprimente, ma Federico giurava il contrario.
Divenne uno schedario vivente per faldoni verdi pieni di progetti, programmi, ordini, ricevute, i bordi dei documenti che si arricciavano per l’umidità, la parte interna crivellata dalle formiche. Lui li mescolava, li sfogliava e li faceva scivolare qui e là energicamente, come se costruisse la diga con quei foglietti sottili. Tutte le sere tornava a casa, beveva gin e faceva l’amore con Sibilla per dissolvere la confusione nel vuoto. E tutte le mattine s’infilava la sua giacca inutile e tornava al suo mucchio di scartoffie.
Gli africani a Siavonga erano più cortesi di quelli a Dar es Salaam, ma Sibilla sospettava che non avessero scelta. Il villaggio per coloro che erano impegnati nella costruzione della diga era suddiviso in settori ben delimitati. Gli italiani e gli inglesi abitavano in cima a una collina scoscesa in case modeste che però sembravano palazzi in confronto alle stamberghe per i neri ai piedi della collina. Le altre mogli espatriate erano legate dalla fatica di doversi occupare delle faccende domestiche in quel luogo selvaggio, pietroso e caldo, dalla necessità di correre con la gonna alzata e i secchi che oscillavano per elemosinare acqua dai camion che bagnavano la strada. Ma in qualità di ingegnere capo, al “colonnello Corsale” erano stati assegnati una domestica, una cuoca e una guardia.
Sibilla era stata a sua volta una serva per gran parte della sua vita, ma rimase perplessa di fronte alle cameriere africane, al loro miscuglio di sottomissione e altezzosità. Sembrava che non fossero turbate dal suo strano abbigliamento: i vestiti larghi e gli scialli che si metteva in testa per nascondere i peli. Tutte le volte che iniziava a sparecchiare in automatico o asciugava una chiazza umida o prendeva un coltello per tagliare le verdure, però, la giovane domestica, Enela, aggrottava la fronte e storceva il naso. La ragazza le toglieva praticamente di mano piatti e pentole e si offendeva per qualunque offerta di aiuto, come se Sibilla la rimbrottasse svolgendo al posto suo il lavoro che sarebbe toccato a lei. Con il passare dei mesi Sibilla imparò a non intrattenersi in cucina e a dedicare la propria energia repressa ad altri compiti, come imparare a parlare l’inglese e a fare la moglie.
Sibilla e Federico si erano finalmente sposati. Poco dopo le piogge torrenziali del 1957 gli operai della diga avevano importato una campana dall’Italia, l’avevano installata nella chiesa africana in cima alla collina, ci avevano costruito intorno un campanile circolare e l’avevano ribattezzata Santa Barbara. Il giorno prima che la chiesa aprisse, Sibilla e Federico si fermarono tra le pareti di cemento ancora fresco, sotto una croce non verniciata, e si scambiarono i voti davanti a un prete italiano. Il rito sembrò un po’ raffazzonato, reso più modesto dalla distanza da casa. Ma almeno ci fu un minimo di pompa: Federico aveva convinto un altro ingegnere a portare seta e tulle dall’estero e Sibilla li aveva usati per cucirsi rispettivamente un abito da sposa e un velo.
Ebbe un solo sussulto, quando il prete pronunciò il nome: «colonnello Giuseppe Corsale». Era per quello che Federico la stava sposando? Per suggellare l’inganno su un documento legale, per renderlo ufficiale? Mentre era lì, in quella chiesa costruita a metà, Sibilla guardò attraverso il suo velo doppio il suo uomo doppio: Federico, con il nome falso, l’andatura claudicante e i baffi del fratello. E anche lei era due Sibilla: quella che si contorceva a disagio nell’abito e quella che andava in estasi tutte le notti sotto le sue mani adoranti. Quella che lo amava e quella che aveva paura dell’uomo che l’aveva salvata dalla morte e che aveva seppellito il cadavere del proprio fratello in un orto di pomodori.
«OPERAZIONE NOÈ», diceva il promemoria. Mrs Makupa, l’indigena che Federico stava formando come segretaria, glielo aveva portato in ufficio. Era alta, magra e scura. Le sue mani erano perennemente occupate a lavorare a maglia, e la lana che usava era sempre nera, nonostante il caldo soffocante di quel posto.
«Chi lo ha mandato? Smith? Ha detto che era urgente?».
Mrs Makupa fece spallucce, le mani sempre in movimento. Federico la congedò con un cenno ed esaminò il promemoria, che recava la data del mese precedente, settembre 1958. Ora che la diga era quasi completa, il fiume stava per esondare prima del solito. Quel promemoria suggeriva di trasferire altrove la fauna selvatica il cui habitat sarebbe stato ben presto sommerso: leoni, leopardi, elefanti, antilopi, rinoceronti, zebre, facoceri e anche serpenti. Una vera e propria arca di Noè. Federico scosse la testa. Il disastro era già arrivato, per la vita umana.
Guardò fuori dalla finestra ricavata malamente nella parete di cemento dell’ufficio. Stava piovendo di nuovo. In lontananza riusciva a vedere l’ampia superficie curva della diga sormontata da una marea di impalcature, i tubi di plastica bianca che sembravano vermi. Nonostante la pioggia la diga pullulava di uomini, che assomigliavano a mosche in mezzo ai macchinari incombenti. Sembrava la carcassa di un mammut, mezzo dissezionato o mezzo decomposto. Avevano già perso così tanti uomini in quell’impresa. Ventisette erano morti nel crollo di un tunnel e i sopravvissuti si erano sostentati con Coca-Cola e birra per tre giorni. Diciassette erano sprofondati per settanta metri nel cemento fresco quando una piattaforma era collassata: quell’incidente aveva spinto gli africani a scioperare finché Baldassarini, il responsabile del sito, non aveva alzato la loro paga a sei penny l’ora. Mentre mettevano in posa il cemento armato, uno degli operai italiani aveva alzato lo sguardo verso un aereo della Royal Air Force che passava ed era precipitato giù dall’impalcatura.
Poi erano arrivate le inondazioni. L’anno prima avevano avuto a stento il tempo sufficiente per togliersi di mezzo. Gli operai avevano spostato in tutta fretta i macchinari e avevano buttato giù una parte della parete dell’argine per deviare il fiume. Poi però l’acqua si era insinuata in una faglia e aveva inondato lo stesso tutto dall’interno: un diluvio vorticoso e violento, rosso come il sangue a causa del rame della terra, una gru che non erano riusciti a spostare che girava all’impazzata nei torrenti zampillanti. Bergamosco, un capo ingegnere, era rimasto sulle sponde del fiume a prendersela con lo Zambesi, strillando puttana!, come se Madre Natura gli stesse facendo un affronto personale mandandogli quell’alluvione, uno di quegli eventi naturali che capitano una volta ogni cent’anni.
Mrs Makupa tornò dentro e allungò a Federico un altro promemoria senza apparentemente mollare il lavoro a maglia: che nascondesse un terzo braccio in quel fagotto di arti neri? Rimase lì ad aspettare mentre lui leggeva.
«Smith è qui adesso?».
Mrs Makupa annuì, continuando a lavorare a maglia.
«Be’, e allora lo faccia entrare!».
Qualche mese dopo il loro matrimonio Federico aveva sorpreso Sibilla con un viaggio di nozze.
«La settima meraviglia del mondo è a soli cinquecento chilometri più giù lungo il corso del fiume!».
Pernottarono in un vecchio albergo coloniale, un’ampia struttura bianca con i cornicioni sporgenti e il tetto di tegole rosse. Era così vicino alle Cascate Vittoria che se ne sentiva il boato attutito in lontananza. I prati erano tappeti verdi perfetti, la piscina di un azzurro irreale. I soffitti erano alti, con i ventilatori a pala che giravano lentamente e i lampadari immacolati, le porte da cattedrale e le finestre sormontate da archi di legno. Sibilla guardò i tappeti frangiati con scetticismo: quelle frange li rendevano soltanto più difficili da pulire. Lungo i corridoi si susseguivano fotografie in bianco e nero che illustravano la leggendaria storia dell’albergo.
Mentre percorrevano uno di quei corridoi dopo una serata di bisbocce al bar Rainbow Room e strusciavano le facce irsute l’una contro l’altra, Sibilla scoprì finalmente la verità sulla sua famiglia. Lei e Federico erano intenti a passare da una cornice all’altra e a osservare le fotografie, cercando di decifrare le didascalie in inglese; nessuno dei due lo parlava ancora con scioltezza. Stavano andando a ritroso, perciò arrivarono prima le noiose sale da conferenza: «Dove fu deciso il destino della Federazione», lesse Federico. Poi arrivò una donna ingioiellata: la principessa Elisabetta nel 1947. Poi fu il turno di un indiano dallo sguardo assonnato: doveva essere il maharaja. Poi arrivarono le lettighe che trasportavano alle Cascate gli ospiti con i cappelli bianchi e flosci. Poi fu la volta di un treno, il primo Città del Capo-Cairo.
Federico andò avanti barcollando con il suo completo spiegazzato e si fermò.
«Sibilla, Sibilla», la chiamò con insistenza. Lei si avvicinò, cercando di non grattarsi la faccia che le prudeva.
«Guarda». Le indicò la fotografia. Sibilla sorrise davanti al gilè e al cappello del soggetto che vi era ritratto: che fascino retrò! Come ad Alba. Lesse la didascalia. Il primo direttore dell’albergo. Gavuzzi.
Aggrottò la fronte. «Ma quello non era il cognome di...?». Si girò verso Federico e strillarono all’unisono:
«La signora!», disse lei.
«È tuo nonno!», esclamò lui.
Risero entrambi e continuarono ad avanzare incespicando lungo il corridoio. Dopo un istante, però, Sibilla agguantò la spalla del marito e lo costrinse a girarsi verso di lei. «Aspetta. Che cosa hai detto?».
Nessuno aveva mai raccontato a Sibilla che la signora Lina era sua zia o che il fratello della signora, Giacomo, era suo padre, o che quell’uomo – Pietro Gavuzzi che, a quanto pareva, era stato il direttore di quell’albergo nel cuore dell’Africa – era suo nonno. Impietrita di fronte al ritratto, mentre cercava di vedere la propria faccia in quella di lui, fissando il cappello che aveva in testa, Sibilla rimase senza parole mentre Federico le spiegava la sua vita illegittima, sostenendo nel frattempo con insistenza che aveva dato per scontato che lei lo sapesse già.
Solo qualche ora più tardi, mentre era distesa dando le spalle a Federico nel loro letto d’albergo lussuoso, arrivarono le lacrime, il cui corso fu deviato dalla peluria del suo viso. A Sibilla non importava che suo padre l’avesse abbandonata o che sua zia le avesse fatto fare la sguattera. Non le importava neanche che sua madre le avesse tenuto nascosto tutto questo. Quello che le importava era che Federico lo sapeva e lei no. Di tutti i tormentosi segreti tra di loro, quello era l’unico che non poteva tollerare: suo marito le aveva allegramente lasciato credere di essere una figlia bastarda senza un passato.
«Ma io che c’entro, Mr Smith? Io sono responsabile della diga, non degli indigeni».
«Sì, naturalmente. Abbiamo solo pensato che potrebbe essere d’aiuto se potessero vederla».
Il funzionario distrettuale Smith era uno scozzese alto dalla faccia rugosa e dai modi precisi. Una volta gli aveva detto che proveniva da una famiglia di pescatori e Federico non riusciva a non pensare che fosse un oltraggio alla sua dignità dover fare rapporto a lui.
«I tonga vedono la diga tutti i giorni», disse Federico facendo spallucce. «E certamente la sentono».
I due restarono in silenzio per un attimo, ascoltando il rumore dei lavori di costruzione della diga: il frastuono dei trapani che mangiavano la gola di roccia, lo scricchiolio delle gru, il rimbombo dell’acqua che arrivava dalla galleria di deviazione, il ticchettio della polvere contro il metallo, i canti monotoni dei neri al lavoro.
«Non tutti i tonga», ribatté Smith. «Quelli di Chipepo non capiscono neppure il funzionamento basilare di una diga. Non credono che il loro villaggio verrà sommerso. Una dimostrazione...».
Federico rise. «Non hanno visto gli argini inondati dopo le piogge dello scorso anno?».
«Il fiume esonda tutti gli anni, fino a un certo punto. Ci sono abituati. Ma non sono convinti che nel giro di qualche mese tutta la valle sarà sott’acqua».
«Convinti? La diga è già una realtà!». Federico indicò l’attività frenetica al di là della finestra. Per tutta risposta la pioggia schizzò debolmente contro il vetro. «Perché non li raduna e li fa spostare e basta?».
Il mento appuntito di Smith s’irrigidì. Quello era un tasto dolente per i funzionari coloniali inglesi. «Quella era l’extrema ratio. I nazionalisti neri che sobillano per l’indipendenza... ha sentito parlare del Congresso Nazionale Africano?».
«Sì, li conosco», sbuffò Federico. «Sono quelli che hanno organizzato lo sciopero della diga l’anno scorso».
«Be’, hanno detto a quegli ingenuotti degli abitanti dei villaggi che se fossero rimasti dov’erano la diga non sarebbe stata costruita, che noi avremmo rinunciato e basta. Avevamo le mani legate, abbiamo dovuto far intervenire la polizia».
Federico pensava che si sarebbe dovuto far intervenire la polizia molto prima. Da qualche parte nel passaggio da Europa ad Africa, da sergente a colonnello, aveva perso il suo idealismo. Perché gli inglesi si ostinavano a trattare gli indigeni come bambini capricciosi? Tenevano lunghe indaba, davano loro soldi, li accompagnavano a suddividere in lotti singoli la loro nuova terra... e tutto questo per niente. Come se i tonga, con gli aculei nel naso e l’argilla tra i capelli, con le loro donne a seno nudo che si sradicavano i denti davanti pensando di essere più belle in quel modo, non fossero destinati in ogni caso a vivere della terra. Che importava dove si trovava quella terra?
Con Federico alla diga tutto il giorno, Sibilla aveva troppo tempo e troppe poche incombenze per le mani. In quel periodo, quando lui andava in ufficio dopo la colazione, lei si tratteneva a pensare in vestaglia davanti al tavolo di legno grezzo della sala da pranzo. Perché suo marito aveva voluto che lei continuasse a sentirsi inferiore a lui, come Cenerentola? Perché le aveva lasciato credere che era di umili natali, che non aveva un padre, che lui l’aveva salvata da suo fratello? Se anche una sola di quelle cose non era vera, come poteva essere sicura di tutto il resto?
La giovane Enela entrava e usciva dalla stanza trascinando i piedi e sparecchiando. Sibilla s’infilò una mano in tasca e tirò fuori la cartolina che aveva comprato al negozio di souvenir dell’albergo. Era diventata un talismano per lei, i bordi rovinati per le manipolazioni continue. La fissò pensosa. Quello era suo nonno, Pietro Gavuzzi (1870-1945), con il cappello e il gilè eleganti. Stava con le mani sui fianchi davanti a un edificio grezzo con il tetto a punta e una veranda che girava tutto intorno – l’albergo nella sua versione originaria – accanto a un cartello gigantesco con la scritta «CASCATE VITTORIA». Aveva pensato di scrivere qualcosa sulla cartolina, per poi spedirla a sua madre oppure alla signora. Cara zia Lina... Ma non era possibile. Spesso Sibilla e Federico stavano svegli tutta la notte calcolando quanto a lungo avrebbero potuto continuare a cavarsela con quel furto della vita del colonnello. Era solo questione di tempo prima che qualcuno trovasse il cadavere nell’orto in mezzo ai pomodori.
Sibilla girò la cartolina e lesse il copyright: «Percy M. Clark, 1904». Pronunciò il nome ad alta voce. Non sembrava italiano.
«Oh-oh, lo conosce quello lì, Ba Kalaki?».
Sibilla alzò lo sguardo. Enela era accanto a lei, una pila di piatti in equilibrio sull’avambraccio. Aveva sentito Sibilla pronunciare il nome.
«No. E tu lo conosci?».
«Sì, certo! Ba Kalaki aveva un negozio da queste parti, a Mosi-oa-Tunya. E mio zio lavorava per lui...». Le parole della ragazza si affievolirono mentre tornava a passo di danza in cucina con la sua torre di piatti.
Gli indigeni sembravano riferirsi sempre a ogni uomo della comunità come a un padre, uno zio o un nonno. Ma a prescindere dal suo rapporto di parentela con Enela, se quello “zio” aveva conosciuto la persona che aveva scattato la fotografia, Mr Clark, magari aveva conosciuto anche il nonno di Sibilla. Il ramo materno era stato reciso, ma forse in fin dei conti avrebbe potuto rintracciare quello paterno. Enela tornò in sala da pranzo, asciugandosi le mani sul grembiule.
«Puoi portarmi da tuo zio?», le chiese.
«Da Bashi Bernadetta? Ah-ah? Perché?». Prima che Sibilla potesse rispondere, però, la fronte di Enela si distese e lei cedette all’improvviso. «Va bene, va bene. Possiamo andare».
Un’ora più tardi stavano percorrendo una strada di terra battuta tutta dissestata a bordo di uno dei veicoli della Impresit, Sibilla con gli stivali di gomma ai piedi e coperta di scialli. La presenza dell’autista sembrò far ammutolire Enela. Non appena furono scese ed ebbero intrapreso l’ultima parte del tragitto a piedi fino al villaggio, però, si mise a parlare dell’evacuazione della valle. Sibilla sapeva dai commenti sporadici di Federico che i tonga non volevano lasciare le loro case. Enela le spiegò che mentre dopo l’arrivo della polizia la maggior parte degli abitanti dei villaggi aveva accettato di andarsene, gli anziani erano ancora decisi a rimanere. Avevano il diritto, così dicevano, di stare con i morti, anche se sarebbero annegati tutti quando il fiume fosse esondato.
«I morti?», chiese Sibilla.
«I morti sono gli spiriti», disse Enela. «Ma abbiamo anche il Dio bianco. E altre divinità, gli animali. E Nyami Nyami, che è il dio che nuota nello Zambezi...».
Mentre Enela descriveva quel dio del fiume, con il corpo sinuoso e la testa come un vortice, i peli di Sibilla si rizzarono sotto gli scialli. Sapeva che a volte gli stregoni africani si adornavano con la rafia. Che i tonga pensassero che lei fosse una specie di feticcio, uno spirito animale da venerare? I suoi sospetti si fecero più forti quando arrivarono al villaggio, un gruppo di vecchie capanne con il tetto di paglia tenute su da pali di legno, fagotti sparpagliati qui e là, pronti per essere portati via.
Enela si fece largo in mezzo alla folla, parlando in tonga, una lingua pesante che caricò l’aria di solennità. Le donne, tutte nude tranne che per le gonne di paglia, distolsero lo sguardo, ma gli uomini si distesero a terra e si misero a rotolare da un fianco all’altro, battendosi le mani contro le cosce in segno di rispetto. Sibilla avrebbe voluto chiedere loro di alzarsi – le piogge avevano già impastato il terreno facendolo diventare un ammasso rossastro – ma si trattenne, sapendo che a loro quella richiesta sarebbe sembrata arrogante.
Sul fango era stata sistemata una tavola di legno per permetterle di entrare in una delle capanne. Un vecchio indigeno vestito all’occidentale era seduto su uno sgabello di legno: quello doveva essere lo zio di Enela. Sorrise a Sibilla mentre si avvicinava, ma annaspò tentando di stringerle la mano e lei capì che non ci vedeva: i suoi occhi avevano la stessa sfumatura azzurrina di quelli di nonna Giovanna. Sibilla si sedette su uno sgabello ed Enela la presentò come la moglie del bwana di Kariba. Solo a quel punto Sibilla capì che non era lì in qualità di semidea, ma per suo marito. I tonga volevano che facesse da ambasciatrice per i loro anziani suicidi. Enela s’inchinò e indietreggiò per uscire dalla capanna.
Sibilla lasciò cadere lo scialle con sollievo: l’interno della capanna era caldo e puzzolente. Lo zio le sorrise. Non aveva i denti, ma Sibilla non riuscì a stabilire se dipendesse dall’età, dal suo stato di salute o dalle usanze dei tonga: anche a molte donne all’esterno della capanna mancavano i denti davanti. La pioggia faceva frusciare il tetto di paglia. Una zanzara girava tutto intorno. Non per la prima volta Sibilla fu felice della rete di protezione che le fornivano i suoi peli.
«Mi chiamo Sibilla Gavuzzi», iniziò.
«Mmmmm!». Il vecchio batté le mani e sorrise. «Io sono N’gulube».
«Gli hanno sparato», disse Smith dopo una pausa. «Otto tonga sono morti sotto la mia supervisione».
Federico lo guardò interdetto. «Sì, ma i tonga hanno dichiarato guerra alla sua regina!».
«Guerra?». Smith proruppe in una risata amara. «Gli abitanti dei villaggi hanno suonato tamburi e lanciato pietre. Hanno attaccato agli alberi manifesti pieni di errori d’ortografia. Hanno marciato avanti e indietro a piedi scalzi, imitando il nostro squadrone di polizia, portando aste in spalla come noi portiamo i fucili. Sa quante aste sono state lanciate? Centinaia! Nessun poliziotto è rimasto ferito. Ma otto proiettili sono andati a segno tra i civili». Smith si alzò, s’infilò le mani in tasca e andò verso la finestra. «Mi azzarderei a dire, colonnello, che è stato un po’ come la storia di Caino e Abele. Fratelli che uccidevano i propri fratelli».
Federico ebbe un sussulto e poi proruppe in una risatina forzata. «Lei pensa che i neri siano nostri fratelli?».
Smith si voltò verso di lui con un’espressione accigliata. «No. Anche i poliziotti che hanno sparato erano indigeni».
«Ah». Federico cercò di spostare l’argomento di conversazione dal fratricidio. «Be’, se lei pensa che una dimostrazione del funzionamento della diga possa aiutare...». Fu interrotto dal suono assordante di un corno che sovrastò quello dei lavori e della pioggia. Balzò in piedi dalla scrivania e corse alla finestra.
«Il segnale dell’acqua alta!», strillò al di sopra del frastuono. «È troppo presto!». Smith però lo fissava gridando qualcosa di incomprensibile.
«Cosa?!».
«Pensavo!», gridò lo scozzese, indicando la gamba di Federico. «Che lei fosse! Zoppo!».
Federico fece spallucce, ma il panico gli martellava in tutto il corpo. I corni stavano ancora squillando. Non c’era niente da vedere lì fuori – l’inondazione non c’era ancora stata – ma per distrarre Smith indicò con un cenno fuori dalla finestra. E, come se l’avesse evocata, lì, improvvisamente, comparve sua moglie.
Sibilla era sul ciglio della gola, su una roccia sporgente. Intorno a lei c’era una folla di persone, indigeni sembrava, alcuni dei quali portavano l’abito tradizionale dei tonga, mentre altri erano vestiti all’occidentale. Anche Smith vide gli abitanti dei villaggi: avvicinò una mano al vetro come animato da una preoccupazione paterna. Sibilla però non era né loro prigioniera né il loro capo. Stava semplicemente lì in mezzo a loro nell’elettricità statica della pioggia, ricoperta dai suoi peli neri bagnati, mentre dietro di lei lo Zambezi rizzava i peli rossi del collo. Poi arrivò il vento e iniziò a intorbidirlo.