La Diga
Il Vulture, un peschereccio, ruotò sull’ancora con un piccolissimo sussulto e s’immobilizzò. Il vento era calato, l’acqua si era del tutto placata, e dal momento che erano diretti a Mlibizi, l’unica cosa da fare era stare seduti al bar del ponte inferiore e aspettare che facesse giorno. Il lago Kariba si stendeva davanti a loro come un oceano. L’acqua e il cielo sembravano saldati assieme senza una giuntura e nella sera luminosa le altre barche parevano bloccate, come grappoli bianchi di angoli appuntiti e piani verniciati. Una nebbiolina era calata sulle basse sponde che scorrevano piatte a dissolversi nella terra. All’orizzonte le nubi si stavano scurendo, condensandosi in una lugubre foschia, sopra il più grande lago artificiale della terra.
Mai era la loro comandante e la loro ospite. Guardarono tutti e tre con affetto la sua schiena mentre era davanti al corrimano a contemplare la distesa d’acqua. Su tutto il peschereccio non c’era nessuno che avesse neanche la metà della sua autorità. Era la loro pilota, l’incarnazione stessa dell’affidabilità. Era difficile ricordarsi che il loro lavoro non si svolgeva laggiù, sulla superficie fondente dell’acqua, ma alle loro spalle, sulla parete incombente della diga. Esisteva tra i membri del SOTP, come ormai c’era da aspettarsi, un vincolo rivoluzionario, che, oltre ad aver tenuto uniti i loro sforzi nei lunghi periodi di stagnazione e paura dopo il raduno, permetteva loro di tollerare i difetti – e persino le convinzioni – degli altri.
Joseph si era accaparrato l’unico cuscino sul ponte e se ne stava sdraiato sotto l’unica coperta. Jacob, ansioso di iniziare, aveva già tirato fuori la scatola dei microdroni e giocherellava a erigerci costruzioni.
Naila era seduta con le gambe incrociate, appoggiata alla base del bancone del bar. Aveva le guance scavate e la carnagione giallastra. La schiena diritta le dava un aspetto severo e, con le braccia penzoloni e i palmi delle mani rivolti in fuori, faceva pensare a un idolo. Mai, soddisfatta perché l’ancora aveva preso bene, andò a poppa e si sedette in mezzo a loro. Scambiarono pigramente qualche parola. Poi calò il silenzio e, per chissà quale ragione, non parlarono della fase successiva del piano. Ancora stanchi e tesi per la missione della notte prima, erano d’umore meditativo e capaci soltanto di quella placida contemplazione.
Il sole tramontò, l’oscurità scese sul lago e le prime luci apparvero dentro gli scafi. In lontananza brillava a intermittenza una torre di guardia, una costruzione a tre gambe eretta su una distesa fangosa. Qui e là si vedevano i profili frastagliati dei rami spogli che emergevano dalla superficie del lago, gli alberi sommersi della valle di Gwembe che ancora si allungavano verso il cielo.
«E anche questo è stato uno dei luoghi bui».
La frase di Joseph non era certo sorprendente. Fu accolta in silenzio. Nessuno si prese la briga anche solo di grugnire. E subito dopo lui ricominciò a parlare, molto lentamente.
«Stavo pensando ai tempi lontani, quando gli inglesi vennero qui per la prima volta, un centinaio di anni fa. Immaginate le sensazioni di un capo locale – qual è la parola tonga? – un muunzi, improvvisamente sospinto verso nord; costretto ad attraversare in gran fretta tutta la regione e ad assumere il comando di uno di quegli insediamenti che i bianchi – dovevano essere anche loro una straordinaria congrega di uomini inutili – avevano costruito in un mese o due per sessantamila persone. Gli doveva sembrare la fine del mondo: il suolo pieno di piombo, la legna che bruciava facendo troppo fumo, il terreno duro come la pietra. Scacciati dallo Zambezi, senza provviste, costretti a seguire degli ordini. Niente sponde, niente paludi, niente alberi. I tonga furono costretti a frugare tra i rifiuti: niente da mangiare per una civiltà che si basava sulla pesca, niente da bere a parte acqua sporca. Niente birra di bukoko, nessuna via di fuga. Sparpagliati, un popolo sperduto in una terra selvaggia come un ago in un mucchio di fieno. Freddo, acqua stagnante, temporali, malattia, isolamento – morte che s’appiattava nell’aria, nell’acqua, nella selva. Dovevano morirci come mosche.
Oh sì: i rhodesiani hanno fatto questo al popolo tonga! E lo hanno fatto anche molto in fretta, sicuramente, e senza neppure pensarci troppo, se non dopo, per vantarsi della propria impresa, forse, di tutto quel periodo: la costruzione della Grande Diga di Kariba! E forse furono incoraggiati dalla prospettiva di una possibile promozione al governo della Federazione a Salisbury prima o poi, se avevano buoni amici a Londra e se sopravvivevano alla situazione politica. Ma che ne è stato del nostro giovane tonga, bandito dopo essere stato formato per diventare un prefetto, un esattore fiscale o anche un mercante, che voleva rimettere in sesto il suo patrimonio? Mandato in esilio, costretto a marciare nella savana, piazzato in qualche insediamento nell’entroterra? Doveva aver sentito la natura selvaggia, assolutamente selvaggia, chiudersi intorno a lui, schiacciando quella brama che si agita nello spirito, nella mente, nel cuore di tutti gli uomini. Non esisteva preparazione per una miseria simile. Era costretto a vivere nel cuore dell’incomprensibile, che era anche detestabile. Ma aveva un fascino, forse, che cominciò ad agire su di lui. Il fascino dell’oppressione: i rimpianti sempre più intensi, il desiderio di fuggire, il disgusto impotente, la resa, l’odio...».
«Bada bene», lo interruppe Naila, alzando un avambraccio, con il palmo della mano in fuori, per cui, con le gambe incrociate davanti a sé, aveva l’aspetto di un Buddha predicante vestito all’americana e senza fiore di loto, «bada bene, ciò che ha rovinato questo paese è stata l’efficienza, il culto inglese dell’efficienza. I primi coloni non erano brillanti o regali. Non erano re. L’impero era una finzione del cazzo. Erano colonialisti, e per questo è sufficiente la forza bruta, qualità di cui non c’è proprio da vantarsi quando la si ha. Il potere è solo un accidente derivato dalla debolezza di altri. Arraffavano tutto quello che potevano per il semplice gusto di arraffare. Rapine con violenza, massacri su vasta scala e bazungu del cazzo che si buttavano alla cieca, per forza, date le tenebre che li circondavano. La conquista dell’Africa, che significava rubarla a gente con la pelle più scura e il naso più piatto, è una cosa proprio brutta, bello mio. Ancora peggio era l’idea che le stava dietro, non la curiosità o l’amore, ma solo la fede in un’idea, qualcosa che si possa mettere su un altare e prostrarsi a essa e offrirle un sacrificio...».
Naila s’interruppe. Fiamme scivolavano sul lago: fiammelle verdi, rosse, bianche, che s’inseguivano, si raggiungevano, si congiungevano, s’incrociavano, per poi separarsi lentamente o all’improvviso. Erano le luci dei pescherecci che continuavano a muoversi sul lago nella notte sempre più fonda. Le guardarono ansiosi: avevano fatto tutto ciò che andava fatto?
Dopo il raduno di Kalingalinga avevano visto più e più volte la ripresa fatta dai droni delle notizie cercando di capire quando le cose avevano iniziato ad andare male, quando avevano preso quell’incomprensibile piega storta. Il problema era che era diventato tutto buio a un certo punto, nel momento in cui era scesa la notte e tutti i Bead avevano smesso di funzionare e il macrodrone aveva coperto la folla con la sua ombra vasta e vibrante.
«Perché rappresentavamo una minaccia?», chiese Joseph. «Non sapevano neanche perché stavamo protestando».
«Non lo sapevamo neanche noi», bofonchiò Naila mentre spostava la barra del video sul proprio palmo per rivederlo. Stavano guardando la ripresa dal suo Bead, che la proiettava su un muro della casa di New Kasama. Si erano rintanati lì dopo il raduno, cercando di riorganizzarsi.
«Guardate», disse Naila indicando qualcosa.
Loro guardarono. Un mare di lucine e poi un mare in tempesta di buio che sommergeva tutto.
«Lo abbiamo visto un milione di volte», disse Joseph esasperato.
«Sì, ma...». Naila premette pausa. «Perché tutti i nostri Bead hanno smesso di funzionare nello stesso istante?».
«Un blackout?», ipotizzò Jacob facendo spallucce.
«No», ribatté Naila pensosa. «I nostri Bead hanno continuato a funzionare dopo che il microfono aveva smesso di farlo. Vi ricordate le luci?».
«Sì». Joseph si accarezzò la barba che si stava facendo crescere. Gli copriva le cicatrici dell’acne e lo rendeva più affascinante. «I Bead sono alimentati dal nostro sistema nervoso, perciò non hanno bisogno di essere ricaricati».
Naila spense il proprio. «Devono averli disattivati attraverso il cloud».
«AFRINET continua a funzionare quando c’è un’interruzione di corrente?», chiese Jacob.
«Sì», rispose Joseph. «I server della AFRINET sono collegati direttamente alla rete elettrica di Kariba. Non smettono mai di funzionare, neanche quando lo fanno i nostri dispostivi, neanche quando c’è la ripartizione del carico».
«Perciò non possiamo mai prenderne davvero il controllo», disse Naila, la testa tra le mani. «Il governo può sempre hackerarli attraverso il web e noi dobbiamo tenerceli nel nostro corpo».
«A meno che non ci tagliamo le mani», disse Joseph ridacchiando sommessamente. «O che non facciamo saltare in aria la rete elettrica».
Naila alzò gli occhi al cielo. «Ma se facciamo saltare in aria la rete elettrica, come faremo anche solo ad avere accesso ai nostri Bead?».
«Attraverso i droni». Jacob si alzò.
Naila e Joseph si scambiarono un’occhiata. I droni si erano dimostrati la tecnologia più nefasta di tutte. Ma Jacob stava andando avanti e indietro mentre spiegava che ai suoi droni il cloud non serviva.
«Comunicano tra di loro attraverso il Bluetooth. E sono alimentati dall’energia solare».
«Quindi», disse Naila lentamente. «Se i Bead sono alimentati dal nostro corpo e i droni dal sole...».
«I nostri Bead possono comunicare senza il cloud».
Discussero dei vari modi in cui avrebbero potuto farlo. Avrebbero potuto usare il Bluetooth per creare dei network virtuali privati che avrebbero aggirato il controllo governativo di Internet. Avrebbero potuto creare una catena di comunicazione da drone a drone per raggiungere torri di controllo aeree fuori dai confini e sfruttare il wi-fi di uno dei sette paesi che circondavano lo Zambia.
«Nulla di tutto questo serve a qualcosa a meno che non prendiamo di mira la rete elettrica e non spegniamo il cloud».
«La rete elettrica non è soltanto il cloud, ragazzi», fece notare loro Joseph. «È la vita delle persone. Dobbiamo fare in modo di avvertirle».
«Non c’è problema, compagno», rise Jacob. «In questo paese siamo abituati ai blackout».
Mesi di programmazione più tardi la loro missione era pronta. Fu caricata nei Bead di tutti e tre:
SALUTE:
Squadra: Numero tre membri.
Attività: Trasmettitori di impianto in 3, 4.
Luogo: 16.5221°S, 28.7617°E. Diga di Kariba
Unità: SOTP.
Tempistica: 22.10.23 18:00 fuso orario Africa Centrale.
Equipaggiamento: corda, imbragature, bloccanti e staffe, attrezzatura per l’ancoraggio, moschettoni, cinghie e fasce, dispositivi per la calata, guanti, elmetti, tute di Gore-Tex, tenda.
Naila aveva raggiunto la diga nel tardo pomeriggio, fingendo di essere una turista, un borsone nel bagagliaio carico di tutta l’attrezzatura: per calarsi nelle gole per sport, così avrebbe detto se glielo avessero domandato. Ormai c’era un sacco di gente che andava lì per praticare sport estremi: ziplining, bungee-jumping, rafting e arrampicata. Alla fine l’addetto alla sicurezza le fece cenno di entrare senza farle domande, scuotendo la testa di fronte alla sua decisione di dedicarsi ai giri turistici sotto la pioggia e tornando in tutta fretta nel gabbiotto per non bagnarsi a sua volta.
Naila varcò lentamente i cancelli a bordo della Mazda e poi proseguì lungo la sommità della diga mentre la pioggia batteva sul parabrezza. Guardò a destra e a sinistra, la caduta precipitosa da una parte, la superficie tremolante del lago dall’altra, come se incarnassero rispettivamente la quintessenza dei piani verticale e orizzontale. Quando raggiunse il lato meridionale, si fermò in un angolo ombreggiato del parcheggio del centro visitatori, proprio accanto a una statua di Nyami Nyami, il dio tonga. Aveva un corpo a spirale con una testa lunga e ricurva come l’alieno di Alien. Naila accese il riscaldamento per far appannare i finestrini. Poi guardò nello specchietto retrovisore.
«Okay», sussurrò.
«Qui dentro si muore di caldo!». Jacob emerse dal sedile posteriore sorridendo e scostando le coperte sotto le quali si era nascosto. Con la sua tuta in Gore-Tex sembrava Black Panther.
«Per favore lascia il riscaldamento acceso». Joseph emerse dal pianale tossicchiando. Il suo completo nero sgualcito lo faceva sembrare un cameriere imbronciato di Debonairs Pizza.
Aspettarono in silenzio. Un’ora più tardi Mai uscì dal centro visitatori con gli stivali di gomma e un cappello a tesa larga che la connotava inequivocabilmente come cinese. Si sarebbe allontanata in macchina, prendendo il posto di Naila – la somiglianza era perfetta: pelle beige, capelli neri – così la Mazda parcheggiata non avrebbe dato nell’occhio. Mai salì a bordo e loro scesero e raggiunsero furtivamente il portabagagli per tirare fuori il borsone con l’attrezzatura. Jacob s’inginocchiò per staccare la targa falsa sotto la quale ce n’era un’altra; poi bussò sul portabagagli con le nocche. Le luci rosse dei freni si accesero per poi svanire mentre la Mazda si avviava verso l’uscita a passo di lumaca.
Salirono sulle colline in attesa del tramonto. La foresta era verde e inebriante, ubriaca di pioggia. Piovve tutto il pomeriggio e furono felici di avere con sé la tenda mimetica e i caschi: era stato Joseph a insistere per prenderli anche se quelli neri, in riassortimento, ci avevano messo più tempo ad arrivare.
La pioggia smise di cadere proprio mentre il cielo da lavanda diventava ardesia, con una cortina di nuvole che offuscava il sole e la luna. Il sole sarebbe dovuto tramontare alle 18:05. Alle 18:00 si misero in marcia. Avrebbero avuto mezz’ora prima dell’accensione delle luci di sicurezza.
Si diressero verso la diga, la parete ricurva di circa seicento metri con le sue paratoie come occhi lacrimanti coperti dalle palpebre, le macchie color ruggine che si spalancavano come bocche sotto ciascuna di esse. Scavalcarono il cancello e si mossero furtivi lungo la sommità della diga, stando chini, attaccati al muretto basso. Il cielo ringhiò e tirò fuori una lingua argentata, ma non sputò. Quando arrivarono a metà della diga Jacob iniziò a inserire cam e nut nelle fessure. Joseph rimase indietro, accovacciandosi e passando a Jacob l’attrezzatura per l’ancoraggio e la corda. Aveva paura delle altezze. Neanche Naila ne era una fanatica – da quando era caduta dall’albero di jacaranda era diventata un po’ più timorosa – ma si distrasse stringendosi l’imbragatura. Jacob le passò il freno e il bloccante. Naila legò la fascia alla sua imbragatura con un nodo a bocca di lupo e fece passare la corda attraverso il freno. Poi si mise a cavalcioni sul muro, prese fiato e si calò nell’abisso.
Scese a tutta velocità – Zhrrrrrr-rrrrrrrrrr-rrrrrrr-cazzo aveva perso il controllo del discensore-rrrrrrr-rrrrrrr-rrrrrrrrrrrr-rktch – finché il nodo alla fine della sua corda non la fermò. Il contraccolpo all’altezza del cavallo dei pantaloni la lasciò senza fiato e poi aspettò di smettere di oscillare. Alzò lo sguardo verso la diga, che si fondeva stranamente con il cielo – lo stesso grigio scuro – ed ebbe l’impressione che tutto il mondo si fosse inclinato in verticale. Un conato di vomito le risalì lungo l’esofago. Poi ci fu un lampo di luce e vide la cucitura che divideva la diga dal cielo.
Deglutì. Era stato un fulmine? Mmmhmm, il cielo brontolò dandogliene una conferma. Altri due lampi sopra di lei, più piccoli e più duraturi: i Bead dei ragazzi. Naila attivò anche il suo e si guardò il guanto con le dita spuntate e senza stoffa sul palmo: aveva ritagliato un quadrato al centro per lo schermo Digit-All. 18:11. Cazzo. Passò il Bead alla modalità torcia e diede un’occhiata alla diga verso le paratoie. Lì.
Risalì lentamente. Zhr. Rrr. Un attimo dopo stava oscillando davanti alle due paratoie centrali. Erano enormi – larghe quasi dieci metri – e dotate di grate di metallo orizzontali e di un bordo inferiore sporgente di cemento. A dividerle c’erano dei cunei di tre metri. Il suo obiettivo era piazzare un trasmettitore su ciascuna di esse. Ricominciò a piovigginare. Naila aprì la zip della sua sacca e tirò fuori il primo trasmettitore. Attivò il magnete sul retro e si allungò verso la paratoia, che però era troppo lontana: il fatto che il bordo della diga fosse curvo faceva sì che stesse sospesa a qualche metro di distanza dalla parete. Si diede una spinta per lanciarsi verso la diga, grugnendo mentre scalciava inutilmente. Cazzo. Rovesciò la testa all’indietro. La pioggia le sfiorò delicatamente il viso con le dita. Attivò il Bead. 18:14. Sedici minuti. Chiamò il Bead di Jacob.
«Cosa c’è, compagna?», sussurrò lui.
«Sono troppo lontana dalla diga. Ho bisogno che tu mi scuota un po’».
«Ci penso io», rispose Jacob. Dalla sua voce Naila si accorse che stava sorridendo per il doppio senso malizioso.
Udì anche la voce carica d’ansia di Joseph: «Che cazzo succede?», e poi la comunicazione s’interruppe.
Naila sentì che oscillava da una parte all’altra e che girava su se stessa, come se Jacob la stesse spingendo su un’altalena fatta con uno pneumatico. Ridacchiò. La pioggia iniziò a cadere con più insistenza. Naila si voltò verso la paratoia mentre vi si avvicinava a tutta velocità, allungò la mano e attaccò il trasmettitore su una sporgenza di metallo sul muro interno. Tirò la corda – la prossima – e Jacob la tirò a sua volta – ricevuto. Naila sentì la corda che vibrava sopra di lei mentre Jacob la trascinava per tre metri lungo il bordo della diga per farla arrivare davanti all’altra paratoia.
Adesso pioveva forte e Naila quasi non ci vedeva. E non riusciva neanche ad afferrare la zip della sua sacca. Si tolse il guanto con i denti. Aprì la zip a mani nude, tirò fuori il secondo trasmettitore e attivò il magnete. Tirò la corda due volte sperando che Jacob capisse il messaggio. Lo capì: Naila iniziò a oscillare avanti e indietro, avvicinandosi sempre di più alla diga, finché alla fine non allungò il braccio e...
Zhrrr – scivolò giù e con la mano andò a sbattere contro il muro di cemento sotto la paratoia, scorticandosi le nocche delle dita. Cazzo. Zhrrr: scese per altri trenta centimetri. Non aveva stretto abbastanza l’autoblock e stava scivolando lungo la corda bagnata. Strinse il nodo, si leccò il sangue dalle nocche e s’infilò di nuovo il guanto. Strinse i denti e risalì la corda. Non appena arrivò all’altezza giusta, fece il nodo e stavolta lo strinse per bene.
Zhrrrrr-rrrrrr-rrrrr. Il vomito le tornò di nuovo su come cera in una lava lamp, ma stavolta non era il rumore che faceva scivolando lungo la corda. Qualcun altro si era calato giù e stava oscillando accanto a lei.
«Jacob?», sussurrò. «Grazie al cielo, cazzo».
Accese il Bead. Due occhi verdi lampeggiarono nella sua direzione.
«Eri nei guai». Joseph fece spallucce con un sorriso tremolante e poi proruppe in uno starnuto. L’eco rimbombò tutto intorno a loro. Almeno sembrava il verso di un uccello.
«Shhh». Naila scosse la testa. «Devo solo posizionare il secondo trasmettitore».
In quel preciso istante la sua corda ricominciò a oscillare. Joseph si lasciò scappare un grido – quello sì che era inconfondibilmente umano – e poi tacque quando capì che Jacob stava manovrando la corda di Naila dall’alto. Lei attaccò il trasmettitore alla seconda paratoia e poi si avvicinò di nuovo oscillando verso di lui. Joseph le sorrise, come se anche lui avesse portato a termine una missione. Poi piegò la testa.
«Avresti preferito che fosse venuto Jacob?», le chiese, ma prima che Naila potesse alzare gli occhi al cielo, i fari si accesero. Zrk-zhr-rrr – Naila iniziò a risalire immediatamente. Ci sarebbe stato a stento il tempo di uscire prima che la sicurezza notasse due ragni giganteschi che si arrampicavano lungo il muro della diga di Kariba.
Quella mattina era trascorsa all’insegna della stanchezza e della circospezione. Dopo una notte insonne, accampati nella foresta, erano sgattaiolati fuori all’alba per imbarcarsi sul peschereccio di Mai, il Vulture. Avevano trascorso il pomeriggio a dormicchiare a bordo, con Mai che raccontava loro delle storie sulla diga di Kariba e Joseph e Naila che le trasformavano in trattati filosofici sulla natura del colonialismo. Alla fine scese la notte e loro rimasero in silenzio, a bere e ad aspettare. Una luce lampeggiò e loro si voltarono, quasi aspettandosi di veder passare un’imbarcazione più grande, forse il Matusadona. Poi però la luce lampeggiò di nuovo dall’alto e arrivò un tuono, come se il cielo si stesse schiarendo la voce.
«Ragazzi», disse Jacob. «Dobbiamo decidere una volta per tutte. Vogliamo far partire gli apparecchi stanotte?».
Un altro lampo. La pioggia inondò l’aria. Ancora una volta il tuono reclamò la loro attenzione.
«Okay», disse Naila. «Facciamolo».
Si radunarono intorno a un tavolino inchiodato alle assi del ponte, con Jacob seduto davanti alla scatola con i droni e a un telecomando nero che sembrava molto pesante. Aveva programmato i Moskeetoze in modo che andassero a cercare i trasmettitori che avevano sistemato all’interno delle paratoie della diga. Nel giro di qualche minuto la loro superficie interna sarebbe stata ricoperta di frammenti minuscoli. Le paratoie si bloccavano spesso in quel modo per colpa dell’accumulo di detriti come foglie o bastoncini che gli addetti dovevano ripulire, perciò l’infiltrazione doveva essere impercettibile. Nel corso della notte vi si sarebbero infiltrati migliaia di droni, quel tanto che bastava per causare un malfunzionamento.
«Allora, sono pronti?», chiese Naila.
«Quando lo siamo noi». Jacob indicò un pulsante del telecomando privo di contrassegni. Lo guardarono tutti e poi guardarono i minuscoli droni nella scatola.
«Avete avveltito le pelsone?».
Naila si guardò intorno sbattendo le palpebre. Si era quasi dimenticata che c’era anche Mai.
«Lo chiedo pelché è quello che hanno sbagliato i bazungu la plima volta con questa stessa diga», disse Mai. «Non hanno avveltito le pelsone pel tempo».
«Sì», annuì Naila. «L’effetto sarà un blackout che coinvolgerà tutto il paese. L’avvertimento è proprio questo».
«È tutto a posto». Jacob rivolse a Mai un sorriso accattivante. «Stavolta sappiamo quello che stiamo facendo».
«A dire il vero no», biascicò Joseph. Era appoggiato al tavolo. Era alticcio e Naila sentì il suo alito febbricitante e acido, come chikanda.
«Ehi, finiscila, bello», gli disse Jacob. Non c’era rabbia nella sua voce, solo irritazione.
Dei venti di burrasca avevano iniziato ad agitare il lago e a far beccheggiare il peschereccio.
«Sentite, so che il raduno non ha funzionato, ma dobbiamo andarci cauti con l’azione diretta», bofonchiò Joseph. «Tutte le volte non fa altro che danneggiare le persone che in teoria dovrebbe aiutare. Stiamo per bloccare una diga che rifornisce di elettricità milioni di persone. Mai ha ragione. Dovremmo avvertirle adesso».
«Ne abbiamo già parlato, tesoro», gli disse Naila. «La bloccheremo solo per il tempo necessario a inceppare il cloud. Poi invieremo un segnale per coordinare un movimento di resistenza e faremo in modo che si colleghino tutti al SOTP, così potremo agire aggirando la sorveglianza governativa».
«Ma vi ricordate la storia di questo posto?», riprese Joseph con un tono stridulo. «Vi ricordate del Progetto Noè?».
«L’Operazione», lo corressero Naila e Mai nello stesso istante.
«E quelli erano solo animali!», fece notare loro Joseph. «Noi stiamo mettendo a repentaglio la vita delle persone».
«Non mi sembrava che ti preoccupassi di non mettere a repentaglio la vita delle persone quando si trattava del vaccino per il Virus», osservò Jacob.
«Non è la stessa cosa». Joseph scosse la testa. «Senti, qui siamo tutti fratelli, amico...».
«Non siamo fratelli!», gridò Jacob e si alzò.
Un fulmine squarciò il cielo – una frattura momentanea e incompleta come sulla superficie di un vaso di ossidiana – e la luce tenue si rifletté sulle superfici di legno del peschereccio. La pioggia che cadeva in diagonale iniziò a entrare dai fianchi aperti dell’imbarcazione. La superficie del lago era già tempestosa. Jacob e Joseph litigavano divisi dal tavolo fissato sul ponte, strillando al di sopra del frastuono della burrasca. L’aria era striata da perle di luce. Naila scosse la testa e andò verso il bar per versarsi di nuovo da bere. Mai la seguì, le mani sui fianchi.
«Ma che cos’è questa stolia dei flatelli?», chiese Mai lanciando un’occhiata ai due maschi.
«E chi lo sa». Naila fece spallucce e le allungò un gin tonic. Brindarono con qualche incertezza, visto che il peschereccio stava ancora beccheggiando. Il vetro tintinnò, un lampo scoppiò e nell’oscurità un ragazzo diede un pugno all’altro.
«Cazzo». Naila posò il bicchiere e corse da loro per mettere fine alla rissa, appoggiando una mano sul braccio di Jacob e l’altra sul petto di Joseph e strillando ripetutamente una sola parola: BASTA! Ma la sua voce non poteva competere con la pioggia o con loro che si azzuffavano. Mai rimase a guardare i tre rivoluzionari che scivolavano da una parte all’altra del ponte bagnato, lottando per avere la meglio.
Alla fine ci fu una pausa affannosa, illuminata in modo casuale dalla luce elettrica, sia artificiale che naturale, Bead e lampi. Jacob si era riseduto al tavolo e stava ansimando. Joseph era in piedi di fronte a lui. Naila gli teneva le braccia strette intorno al busto da dietro, abbracciandolo o trattenendolo, la guancia premuta contro la sua spalla. Mai continuava a sorseggiare il gin tonic.
«Cacasotto», disse Jacob. Lo disse a bassa voce, ma le sue parole squarciarono il frastuono della tempesta.
«Vaffanculo, io non ho paura», disse Joseph. Dal suo tono si capiva che aveva paura.
Naila gemette e lo lasciò andare. La tempesta trattenne il fiato. Jacob si protese in avanti e nello stesso istante Joseph allungò la mano sul tavolo. CLIC. Sembrò che la tempesta stesse espirando di nuovo, ma mentre il ronzio andava e veniva e iniziava a girargli tutto intorno, apparve chiaro che uno di loro o tutti e due avevano premuto il pulsante del telecomando. I droni spiccarono il volo, frammenti scintillanti che si sollevavano dalla scatola. Mai indicò lo sciame con un’espressione meravigliata decisamente ridondante. Rimasero lì a guardare i droni che si allontanavano, sparpagliando la propria avanzata bisbigliante sull’acqua, simili prima a pixel, poi a cenere, poi a fumo. Naila voltò la testa e vomitò.
«Mwebantu!». Mai si fece avanti. «La mia balca!».
«Non importa chi lo ha premuto», disse Joseph. «Qualcuno lo ha premuto». Poi applaudì e convinse tutti a fumare un po’ di mbanji per festeggiare. Jacob accettò riluttante. Naila ripulì il proprio vomito con uno straccio, carponi come una serva. Quando tornò, dopo essere andata in bagno a lavarsi le mani, Joseph la attirò a sé e prese a ballare lentamente.
«Vedi?», continuava a dire. Aveva messo su una vecchia canzone dei WITCH sul suo Bead. L’effetto della droga aveva reso la sua ubriachezza più allegra. Ballava male e muoveva i fianchi avanti e indietro mentre scandiva l’acronimo della vecchia band: «We. Intend. To. Cause. Havoc. “Vogliamo creare il caos”. Vedi?».
Naila fece una risatina di gola e gli permise di farle fare una giravolta. Jacob li stava guardando, seduto a terra, appoggiato alla porta che conduceva a prua. Mai era seduta su una panca a gambe larghe e stava sorseggiando il suo cocktail. La pioggia smise di cadere e le nuvole si spostarono come ballerine di fila per far splendere la luna. La mattina dopo avrebbero attraccato al molo e inviato un messaggio dal SOTP attraverso i Bead hackerati, invitando il popolo zambiano a unirsi al Cha-Cha-Cha 2.0.
Alba. Una tazza di ngwee liquefatto. Il ponte lavato e bagnato. Gli uccelli stavano ridacchiando. La cabina era disseminata di corpi addormentati, fiaccati dalla stanchezza e dall’alcol. Tranne che in un angolo: gemiti sommessi, come quelli di un neonato che succhiava il latte da un capezzolo. Mai si alzò e li vide. Un ragazzo stava appoggiato alla paratia del ponte, la faccia al buio, le gambe allungate a terra davanti a sé. Naila era a cavalcioni su di lui e muoveva i fianchi senza fretta. Aveva i capelli legati e la coda di cavallo oscillava. I lati della schiena erano smussati come quelli di un banjo. Sul sedere aveva un tatuaggio come uno skyline sottile e lungo la spina dorsale una serie di caratteri. Mai cercò di leggerli, ma non era cinese e non era neanche un altro tatuaggio. Erano droni, una trentina, allineati lungo la sua colonna vertebrale, appollaiati in quel punto, inseriti, o forse intenti a bere. Mai si lasciò scappare un’esclamazione.
Naila si voltò e i suoi occhi, sfocati dal sesso, divennero visibili. L’aurora si allargò alle sue spalle, illuminandola da dietro e facendola scintillare. Il ragazzo ansimava con insistenza, completamente nascosto alla vista se non per i jeans che gli garrottavano i polpacci. Mentre si muoveva, Naila continuò a tenere la testa voltata, cavalcando alla cieca, un sorriso che le faceva arricciare la narice. Sembrava che fosse cosciente di essere osservata. Il suo sguardo però era offuscato, come dietro un vetro appannato, come se una parte di lei fosse chiusa dentro una stanza tutta per sé, nella quale stava rovistando con delicatezza, cercando il proprio piacere.
Naila rabbrividì. Il lago tremò. Mai sentì un gemito e smise di guardare gli amanti. Quel suono però era troppo ampio e troppo basso per essere umano. Era lo sciame che si stava avvicinando? No. Il suono stava facendo vibrare i propri piedi scalzi attraverso il legno dello scafo. Era lo scalpiccio dell’acqua che trotterellava per poi mettersi a galoppare. Mai corse verso il fianco del Vulture. Allungò il collo verso la curva grigia e sottile all’orizzonte che le era tanto familiare. Era scomparsa.
«La diga!».
Un muro di nebbia turbinante si sollevò dov’era stata, dove avrebbe dovuto essere.
«Non c’è più!».
D’un tratto Naila si materializzò accanto a lei, un chitenge legato in vita, infilato sotto le braccia, una pulsazione umida propagata dalla pelle. Mai si ritrasse: Naila era ancora praticamente avvolta dall’aura del sesso, ma i suoi occhi erano coltelli a serramanico che scintillavano nella foschia del mattino. Niente paura, quella lì. In quell’istante i ragazzi si radunarono dietro di loro, entrambi in jeans e a petto nudo, puzzolenti di sonno e sudore. Chi dei due era sotto il sedere di Naila solo un attimo prima? Mai non lo sapeva. Si sporsero tutti oltre il fianco della barca, tesi, concentrandosi sul fumo in lontananza.
«Ma... non c’è stato nessun preavviso, nessun allarme, niente».
Mai avvertì uno strattone, la barca che si tendeva con forza sotto i suoi piedi. Abbassò lo sguardo di là dal bordo. La velocità dell’acqua era visibile, dardi schiumosi e pieghe nella cascata marrone.
«L’ancola!», gridò. «Non leggelà!». E salì di corsa le scale verso la cabina di pilotaggio.
Invece di provocare un semplice malfunzionamento, i droni avevano completamente bloccato le paratoie. L’acqua era salita di livello per poi tracimare oltre la diga.
Sotto la barca, Nyami Nyami stava agitando i suoi capelli turbinanti e inarcando i colli pieni di spine. Il Grande Zambezi stava esondando. Il lago Kariba sarebbe diventato ben presto un fiume. La diga sarebbe diventata una cascata. E a chilometri di distanza la piana di Lusaka, la cima piatta di Manda Hill, sarebbe diventata un’isola...
«Dobbiamo abbandonare l’imbarcazione!».
«Ma riusciremo a raggiungere la terraferma?».
Si rivolgevano l’uno all’altro urlando e indicando inutilmente. L’alba aprì a ventaglio le sue dita dorate. Una presa in giro, quella luce accecante al di sopra dello scompiglio che montava. Il rumore dell’acqua diventava più forte con il passare dei secondi, possente, sfrenato. Era una vittoria? O il caos? Non avevano sentito nessuna sirena, non avevano ricevuto comunicazioni frenetiche alla radio o tramite i Bead che annunciavano: SABOTAGGIO!
I motori del Vulture si accesero: uno scossone e un brontolio sotto i loro piedi. Dalla cabina di pilotaggio Mai gli fece capire di indossare i giubbotti salvagente. Joseph tirò fuori i giubbotti voluminosi da sotto una panca. Se li infilarono e si sedettero, l’eccitazione nel loro sguardo che sfiorava il trionfo e la paura. Il peschereccio iniziò a dondolare, muovendosi avanti e indietro, in modo inconcludente. Sentirono degli schizzi d’acqua amichevoli sulla schiena scoperta, delle bolle delicate che risalivano attraverso le crepe del ponte, dei rivoli che gli scorrevano sui piedi.
I motori fecero le fusa e poi i capricci al di sopra dell’acqua che ruggiva. Il frastuono divenne sempre più forte e il peschereccio tremò come se potesse esplodere. Un altro sussulto mentre Mai azionava il verricello per tirare su l’ancora. La vibrazione sotto i loro piedi si spalancò come in uno sbadiglio per poi concludersi con un tonfo sordo, come se qualcosa fosse sprofondato sul fondo del lago. Il frastuono si placò un po’: i motori si erano fermati. Poi la sensazione di un terremoto, lenta, liquida e ondeggiante: avendo mollato l’ancora, la corrente sempre più impetuosa stava trascinando via il Vulture. Il peschereccio gemette e ondeggiò violentemente.
La gravità oscillò da un lato. Si alzarono incespicando. Il peschereccio sbandò forte nella direzione opposta con un enorme scossone che li sospinse verso l’alto. Caddero, scagliati a terra dal beccheggio del ponte che fu come una sgroppata. Con le mani cercarono di artigliare qualunque cosa fosse alla loro portata, qualunque cosa per raddrizzare il mondo. Scivolarono e inciamparono. Le loro bocche si aprirono e si richiusero nel gigantesco ruggito, come un pesce sulla terraferma. Poi l’ennesimo rollio violento, un vero e proprio spintone laterale. La pressione che aumentava e, tutto intorno, gli schiocchi, gli scoppi e gli schianti del legno che si spezzava. Chishamanzi! Le acque si aprirono. Lo Zambezi arrivò curvandosi e formando degli archi zampillanti mentre si abbatteva sopra di loro.
Sputacchiando e sentendo che veniva scagliata in due direzioni opposte Naila allungò il braccio e la sua mano atterrò su un pezzo di legno. Lo strinse forte. Era un pezzo della barca. No. Si fletté: un braccio. Cercò di agguantarlo, strillando nel vuoto. L’acqua le offuscò la vista. Si palpò la faccia con l’altra mano e vide il cranio tondo e scuro alla fine di una spalla che scivolava sotto l’acqua che stava inondando il peschereccio. La testa riemerse: era Jacob, la bocca una smorfia di panico. I suoi occhi si spalancarono mentre un’altra ondata saliva e scendeva, scagliandolo lontano da lei, dopo aver reciso il loro legame.
Naila strisciò di traverso sul legno, la pelle del braccio, del fianco e delle mani che raccoglieva schegge e fuoco. Improvvisamente si ritrovò in aria, un lampo di luce, di volo. Il tuffo: il ruggito impetuoso fu risucchiato da un abisso soffocante. Poi schizzò verso l’alto in diagonale nell’acqua gorgogliante, con il giubbotto salvagente che la trascinava in superficie. Un rutto mentre le bolle intorno a lei iniziavano a scoppiare. Un rantolo. Uno sputo. I torrenti d’acqua che la risucchiavano di nuovo. Si protese disperatamente, qui, là, cercando di prendere aria. Il giubbotto salvagente la manteneva a galla, ma non riusciva a tenere la testa fuori dall’acqua abbastanza a lungo da poter respirare. La corrente impetuosa e vorticosa continuava a sommergerla. Dopo una lunga immersione, il dolore sordo nei polmoni iniziò a farsi più intenso. Una spossatezza terribile le piombò addosso, nascondendola alla sua stessa volontà, tentandola: lascia andare. Lascia...
CRAC. Sentì il rumore del suo ginocchio che si spezzava prima di avvertire il fuoco che le addentava l’osso. La rabbia le ruggì nel corpo e cercò di afferrare quello che le era andato a sbattere addosso, scorticandosi la mano mentre provava ad avvolgerci il braccio intorno. Poi si diede una spinta e la sua testa emerse dall’acqua. Boccheggiò prendendo aria. L’albero spoglio che si protendeva al di sopra dell’acqua era ruvido, ma vi si aggrappò, tenendolo stretto in una morsa finché non riuscì ad avvolgere le gambe nude intorno al tronco: l’acqua le aveva portato via il chitenge molto tempo prima. Il sole la accecò. L’acqua tuonò e ruggì mentre le passava accanto. Attaccata all’albero come in un papu, affannata, Naila osservò l’acqua vorticosa e luccicante.
Attraverso il prisma tra le sue ciglia, vide le colline che circondavano il lago, quelle soffici coperte verdi che drappeggiavano le sponde in pendenza. A sud la nebbia bianca era spessa come un muro. I resti del Vulture andavano alla deriva vorticando nel gorgo di acqua marrone e, al di sopra di esso, volavano dei piccoli frammenti, che si sparpagliavano in tutte le direzioni per poi riunirsi in uno stormo che sfrecciava e saltabeccava in cielo, cambiando improvvisamente direzione come quei vecchi screensaver dei computer con le curve di Bézier. Naila aveva i crampi alle braccia e alle gambe. Le ci voleva molta forza per resistere alla corrente. L’acqua si alzò e si abbassò e le sue folte trecce l’accarezzarono mentre