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Quando Amalia riaprì gli occhi, aveva il vuoto intorno.

I militari si erano dileguati, i passeggeri anche. Il varco elettronico si era richiuso in attesa di sputare il contenuto del volo successivo. Il coagulo di parenti, tassisti abusivi, tour operator e autisti di grandi catene alberghiere si era liquefatto. Alfredo la fissava con aria indifferente. Lei resistette all’impulso di passarsi un dito sulle labbra. Quel bacio breve l’aveva lasciata nell’incertezza: non sapeva se catalogarlo come gesto di passione o di stizza. Il poliziotto le fece capire che non era stato né l’uno né l’altro.

«Vieni con me» disse guidandola in direzione del bar. «Aspettiamo di vedere se il diversivo ha funzionato o se mi hai mandato a monte l’operazione.»

Amalia spalancò gli occhi: «Il diversivo sarebbe… saremmo… sarei io?» Si morse le labbra. «Quale operazione?» chiese.

Lui ignorò la domanda: «La tua capacità di apparire nel momento meno opportuno ha dell’incredibile. Siediti.»

Amalia obbedì mentre lui si allontanava, infilandosi l’auricolare nell’orecchio e compulsando i tasti del cellulare. Se ne stette rigida sul bordo della sedia finché Alfredo tornò reggendo un vassoio con una Coca-Cola extralarge e un cappuccino. Il ragazzo si accomodò nel posto di fronte e sorseggiò la bevanda ghiacciata. Si era messo spalle al muro, una postazione strategica che gli permetteva di tenere d’occhio l’ambiente. Lei si fiondò sul cappuccino, in cui versò doppio zucchero di canna per annullare il sapore di polistirolo del bicchiere. Caffeina e glucosio in eccesso sarebbero stati la sua rovina.

Si scrutarono in silenzio.

«C’è qualche problema?» azzardò lei.

«Se c’è non sono solo io ad averlo.»

Chiedendosi se fosse una minaccia, Amalia lo studiò. Alfredo aveva un fisico scolpito, anche se a prima vista la massa muscolare non si notava. Non era cambiato in modo evidente, a parte gli zigomi scavati e l’aria, se possibile, più seria di un tempo. Come se quello che sapeva, e che non poteva condividere, gli impedisse di ridere. Lei immaginò che lavorare a fianco del Barracuda logorasse sia sul piano professionale che su quello umano. Anche se i due, almeno nelle occasioni pubbliche, esibivano una sintonia a prova di invidie. Amalia aveva individuato l’amico nelle riprese delle conferenze stampa di Polimeni: confuso in mezzo al pubblico, il volto abbassato per scoraggiare le inquadrature, il mento quasi poggiato sul torace, ma le orecchie bene aperte.

«Be’, almeno come stai puoi rivelarlo? Turpiloquio a parte, ti trovo bene.»

«Lo uso solo in condizioni di stress.» Finalmente lo vide sorridere. Quel sorriso nascosto che lo rendeva simpatico e quasi bello.

«Capitano spesso?»

«Sì» ammise lui, con semplicità.

Seguì un’altra pausa in cui ognuno dei due ruminò i propri pensieri. Alfredo cedette per primo: «Non puoi scrivere.»

E cosa?, pensò lei confusa. «Fin qui non c’è nessuna notizia. Ora dammene una. Per uso personale, almeno.»

Lui sembrava titubante: «Con voi non funziona così.»

Amalia incassò a nome della categoria. O ce l’aveva proprio con lei? Il non detto era tra di loro, ingombrante. Un sapore amaro le salì in bocca: «Si cresce, si impara» bofonchiò con poca convinzione.

Il poliziotto increspò le sopracciglia. Fece ruotare la cannuccia, giocherellò con i cubetti di ghiaccio. Sapeva che non si sarebbe liberato di lei. Amalia si infilò nel pertugio: «Oggi è andata buca. Ma domani torno. E dopodomani. E farò così ogni giorno. Finché non avrò scoperto il vostro gioco. O intendi diventare un baciatore seriale?»

«Non tirare la corda.»

«Non tiro niente. Spingo la mia carriera. È un concetto che dovrebbe esserti familiare.»

Alfredo sospirò: «Se invece ti coinvolgo, starai ai patti?»

«Certo, socio.»

«Non siamo più soci.»

«In ogni caso è meglio pilotare le informazioni alla stampa.»

«Forse.»

Una luce ferita brillò negli occhi di Amalia.

Lui la colse: «Il passato non passa mai. Alla tua tenera età non l’hai ancora capito?»

«Non lo si può cambiare. Ma si può andare avanti» rispose lei.

Il poliziotto sembrò decidersi di colpo: «Hai mai sentito parlare dell’Ascia Nera?»

«No.»

«La mafia nigeriana.»

«Quelli che sfruttano le prostitute strappando loro unghie e capelli per fare i riti voodoo? Ho letto un paio di articoli. È un tema da settimanali.»

«Non c’è solo la prostituzione, anche se indubbiamente è il settore più folcloristico. Trattano pure droga, armi, scommesse. Commerciano qualsiasi cosa per qualunque scopo. L’Ascia Nera è l’élite: un’organizzazione brutale e sanguinaria che controlla territorio e affiliati con il pugno di ferro. I capi si fanno chiamare ministri, la manovalanza è fatta di soldati. Il loro simbolo è l’ascia che ha spezzato le catene della schiavitù, e si salutano incrociando gli avambracci.»

«Pittoresco.»

Alfredo le lanciò un’occhiata in tralice: «Di rituali ne hanno parecchi. Ma non sono personaggi dei cartoni animati. Oltre i codici, trovi gerarchie ferree quanto i loro castighi.»

«E dove li trovi?»

«Dappertutto. Per le strade come nei social. Se entri nel loro radar, possono spaccarti un ginocchio oppure clonarti la carta di credito.»

«Una prospettiva più allettante dell’altra. Se non sbaglio, però, se ne parla da tempo» fece notare lei. «Qual è la novità?»

Alfredo succhiò rumorosamente i rimasugli di bibita con la cannuccia, un gesto maleducato che in Amalia suscitò un incongruo senso di tenerezza.

«Il punto è proprio questo» rispose. «L’espansione dell’Ascia Nera sta accelerando. Le cerimonie di affiliazione si sono moltiplicate. Così come la presenza dei loro soldati, in Italia e non solo. L’Europol ha le nostre stesse preoccupazioni: c’è un picco di spostamenti nell’Europa centrale tra Belgio, Germania, Austria, Paesi Bassi. Crescono di numero e si muovono.»

«Riuscite a identificarli?»

«È praticamente impossibile. Sono dei nessuno senza passato né presente. Niente documenti, familiari, identità. Non un elemento che emerga dall’archivio transfrontaliero, né una traccia di vita digitale. Attraversano l’Africa con le carovane di cammelli, il mare sui barconi degli scafisti, i Balcani con l’aiuto dei passeurs.»

«E non avete idea di cosa bolla in pentola» constatò Amalia.

«Già. Niente di buono, però. Quando arrivano in Europa qualcuno li fornisce di passaporti e denaro per sopravvivere.» Allargò le braccia: «Per fare che cosa? Di che cosa non ci stiamo accorgendo?»

«E se fossero solo peggiorate le condizioni di vita in Nigeria? Tipo, un esodo di massa?»

Amalia ricevette un’occhiata di compatimento: «Non siamo ancora paranoici. Quei flussi non convincono analisti che li conoscono più a fondo delle proprie mogli.»

«Immagino che abbiate provato con gli interrogatori.»

«I pochi che siamo riusciti a intercettare non hanno aperto bocca. Se ne stanno a fissare il muro. Fingono di non capire la lingua, a prescindere. In compenso sono pieni di lividi e cicatrici. E c’è un’altra novità.»

«Sarebbe?» domandò lei incuriosita.

«Questa ondata ha le impronte digitali bruciate dall’acido. Polpastrelli lisci e bianchi come ossi di seppia. Qualcuno da qualche parte non vuole correre rischi.»

Amalia si massaggiò le tempie. «Quindi, l’unica possibilità è seguirli.»

«È un’opzione che si materializza molto di rado. Bisogna escludere di perdere tempo dietro a fuffa. Quando i colleghi esteri ci avvertono di un trasferimento in Italia la palla, e la conseguente responsabilità, passa a noi. Alla Dac. A me.»

«Com’è andata finora?»

«Questa è la prima dritta che ricevo. E quasi certamente l’ho buttata nel cesso.»

Amalia tamburellò con le dita sul ripiano di plastica. Ripensò al giovane nero con la chitarra in spalla. Si chiese se fosse uno strumento musicale o di tutt’altro genere. Poi rifletté su quel pregiudizio: un’arma di dimensioni simili non ha possibilità di oltrepassare i metal detector. «Lo avete perso?» si arrischiò a chiedere.

Lui indicò il proprio cellulare: «Non ho ancora ricevuto gli aggiornamenti dai miei uomini.»

«Forse ti preoccupi troppo. Noi italiani abbiamo le nostre mafie, che dubito srotolino i tappeti rossi ai potenziali concorrenti e li facciano entrare con l’inchino.»

Alfredo fece una smorfia: «Hai ragione solo in parte. Cosa Nostra non ha mai tollerato rivali, eliminandoli in modo plateale. Stavolta, però, le cose sembrano prendere un’altra piega. Abbiamo avuto segnalazioni di rapporti tra clan siciliani e africani. Non estemporanei né casuali: sistematici.»

«Fonti attendibili?»

«Intercettazioni. Direttamente dalla Dda di Palermo.»

Ad Amalia sfuggì un fischio. «Allora è roba grossa. Non mi stupisce che Polimeni voglia metterci le mani sopra. Un patto internazionale tra cosche. Criminalità organizzata quattro punto zero. La globalizzazione del racket. Mentre l’Occidente si scopre protezionista, gli unici a circolare bellamente tra le frontiere sono i malviventi.»

La ragazza vedeva già i titoli sparati. Alfredo non sapeva se infuriarsi o ridere.

«Non sei cambiata. A parte i tacchi su cui non sai camminare.»

Amalia raccolse con il cucchiaino la spuma di latte sul fondo del bicchiere. Il poliziotto aveva scelto il tavolo che nessuno voleva: nell’angolo cieco dietro lo scaffale delle merendine. Abitudini da sbirri che li rendevano invisibili a chiunque passasse. Lei si strinse in grembo la borsa di seta, morbida come i suoi vestiti. Alfredo aveva individuato l’unico elemento che stonava: i sandali di vernice aggressivi, neri come i pantaloni che le scivolavano sui fianchi abbondanti. Amalia rifletté che nella pausa della loro frequentazione era ingrassata un chilo o due. Ma non le stavano male addosso.

Come se le avesse letto nel pensiero, Alfredo allungò l’indice a sfiorarle il labbro. «Pulisciti i baffi» commentò. «E ricordati che abbiamo parlato di filosofia. Se esce una riga finisci in guai seri.»

Incrociarono gli sguardi in una gara di resistenza, finché il bip del telefonino distrasse Amalia. Il messaggio sul display era perentorio: «Manda subito le foto ai grafici.»

Lei sobbalzò. Non aveva nemmeno tirato fuori la Nikon dalla borsa. Il servizio sulla sicurezza in aeroporto, tanto caro all’editore, rientrò di colpo nei suoi pensieri. Si alzò di scatto e una fitta di dolore si irradiò dall’arco del piede. Le scarpe nuove erano l’ennesimo acquisto sbagliato.

«Cazzo» sbottò. «Cazzissimo!»

Alfredo ghignò: «Oh oh. L’Ordine dei giornalisti dovrebbe inserire i corsi di gestione dello stress nella formazione obbligatoria. Pure voi siete al livello di guardia.»