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Lo portarono nel Confessionale, come era soprannominato il parlatorio riservato accanto all’ufficio del direttore del carcere. Lì Bambino raccontò per quasi un’ora, rivelandosi una persona intelligente e per nulla ignorante. Stava sdraiato sul divano, convulsioni e tremori erano svaniti, la ferita era stata medicata. Come se fosse stato tolto un tappo, la narrazione usciva fluida. E riguardava ciò che la squadra di Polimeni aveva inseguito per mezza Europa.

Il suo vero nome era Jesus Goodman e veniva da Benin City. Era stato uno studente come tanti, finché la sua famiglia si era indebitata per pagare le tasse sul commercio e le relative tangenti ai funzionari governativi. Di mese in mese, il debito era cresciuto a dismisura: le rate non bastavano neppure per saldare gli interessi. Jesus aveva dovuto abbandonare l’università, ma neanche quel sacrificio aveva appianato la situazione. A quel punto, alcuni amici con cui si era sfogato gli avevano presentato la soluzione: affiliarsi all’Ascia Nera, la cui nomea avrebbe tenuto alla larga i creditori. Jesus aveva accettato con entusiasmo, e due uomini con il basco nero in testa si erano presentati alla porta di casa per incidere sul legno una rozza ascia.

Quel simbolo, disse Bambino, era stato la sua salvezza e la sua rovina.

I creditori, in effetti, si erano dileguati, e con loro il codazzo di sanguisughe che tormentava i suoi genitori con incessanti richieste di denaro a vario titolo. La notizia si era sparsa in un baleno e intorno a casa era spuntata una palizzata invisibile che teneva lontani i parassiti. Ma Jesus aveva perso la libertà. E con lui, tutta la sua famiglia. Gli uomini col basco nero andavano e venivano dalla sua abitazione come se fosse casa loro. Portavano casse di merce da nascondere, il cui contenuto Jesus ignorava perché gli era vietato aprirle. Sedevano a tavola, mangiavano il cibo dai loro piatti, bevevano il tè, usavano il bagno del cortile. Soprattutto, cosa che lui tollerava a fatica, toccavano le sue sorelle. Finché una mattina le avevano portate via. Hazel e Hope erano sparite su un pick-up, destinate, secondo il tizio che sedeva al volante, a un futuro migliore in Europa. Un futuro da cui avrebbero contribuito, come era loro dovere, al benessere dei parenti. Il fratello maggiore le aveva viste salutare con la mano alzata e l’espressione spaurita sui visini, e non ne aveva saputo più nulla.

Bambino raccontava in tono piatto, gli occhi bui come crepacci di cui non si scorgeva il fondo. Dall’Europa non erano arrivati soldi né notizie. Soltanto altre richieste, che stavolta riguardavano direttamente lui. Fu arruolato nell’Ascia Nera. Un grande onore, gli fu detto, una responsabilità che conduceva alla ricchezza, e lui era andato. Lo avevano accolto con il saluto della fratellanza – intrecciando gli avambracci – e con mille promesse. Aveva lasciato il suo nome per diventare il soldato Bambino.

Amalia ascoltò dalla sua voce cantilenante quello che aveva già letto nei rapporti ufficiali: l’apprendistato come semplice pedina, l’affiliazione attraverso complicati riti, il brutale pestaggio di un compagno di scuola come prova di lealtà. Per bruciargli i ponti alle spalle, per renderlo simile a loro.

«Come sei arrivato in Italia?» Il tono duro di Alfredo spezzò l’incantesimo e restituì Amalia ai fatti nella percezione del poliziotto: l’interrogatorio di un delinquente.

«Sono bravo» rispose Bambino senza esitazioni. «Ho studiato legge, parlo un po’ di inglese. Ho l’aria da bravo ragazzo. Buono per attraversare le frontiere. Così sono diventato un corriere.»

«Droga?»

«Troppo rischioso. Sono un bravo ragazzo, ma resto nero» disse Bambino con una vena di sarcasmo. «Trasportavo documenti falsi, che servono più dell’oro. Ma anche informazioni. Come in guerra: attraversavo le linee nemiche per trasmettere ordini ai miei capi. Finché, circa un anno fa, le cose sono cambiate.»

Il nigeriano si rigirò, il divano per lui era stretto e scomodo. Amalia notò il velo di sudore sulla fronte, capì la fatica che gli costava quella conversazione. Alfredo taceva e osservava. Il talento che a trent’anni lo aveva portato a entrare nell’olimpo dei superinvestigatori – il suo killer instinct – gli diceva che la diga interiore di Bambino aveva ceduto e che interromperlo sarebbe stato un passo falso.

«Il capo ha scelto alcuni tra noi» proseguì il nigeriano. «Ci ha raggruppati, riforniti di provviste e avvertiti che il viaggio sarebbe stato lungo. Non credevo così tanto: al porto di Lagos ci siamo imbarcati nella pancia di una nave senza vedere la luce per giorni e giorni. Molti di noi vomitavano, alcuni sono stati portati in coperta e non hanno fatto ritorno. Alla fine ci hanno sbarcato in un luogo mai visto.»

«L’Europa?» domandò Amalia.

«No, un altro posto di poveri.» Bambino storse la bocca: «E di selvaggi. Abbiamo attraversato la giungla, si sentivano gli animali feroci. Nel buio mille demoni stavano in agguato, non ho mai dormito. Solo la frutta era buona» sorrise al ricordo, «dolce e pastosa. Non abbiamo sofferto la sete.»

La ragazza e il poliziotto si guardarono perplessi.

Il nigeriano continuò: «La nostra meta era un accampamento alla base delle montagne. Accanto a una grotta profonda.»

Amalia pensò allo scintillio nella bocca dell’uomo. «Intendi una miniera?»

Lui annuì. «Enorme. Scura. Spaventosa. Ci siamo rifiutati di entrare, abbiamo supplicato in ginocchio. Per fortuna, non toccava a noi. Ho visto ragazzini infilarsi avanti e indietro nel tunnel.»

«Cosa vi ci avevano portato a fare, allora?» domandò Alfredo.

Bambino si indicò la bocca. «C’era un dottore con tanti assistenti. Molto bravo, lui non ci ha fatto male. A turni entravamo nella baracca e ci davano qualcosa per dormire. Al risveglio, eravamo così.»

«Quello incastrato nel tuo dente è un diamante, giusto?»

«Non uno. Quattro.» Di fronte alle facce interrogative, l’uomo scoppiò in una risata. Era la prima volta che Amalia lo sentiva ridere: lo immaginò studente, a preparare gli esami o a gironzolare con i compagni in facoltà, prima che la sua vita cambiasse. «Uno in ogni dente all’estremità della fila» proseguì Bambino, «ben nascosti. Coperti da pasta di dente.»

Alfredo socchiuse gli occhi. Pasta di dente. Cioè stucco. Otturazioni. «Certo. Uno per molare. Quindi, farciti come tacchini, dove vi hanno spedito?»

«Di nuovo nella pancia della nave, poi di nuovo l’Africa. Ma a bordo di un piccolo fuoristrada velocissimo, lontani dalle rotte dei trafficanti e quindi dalle pattuglie di gendarmi. Non abbiamo incontrato nessuno. Alla fine del Sahara, di nuovo il mare. Un gommone con due motori molto potenti ci ha scaricati in Grecia. Da lì abbiamo attraversato i boschi per giorni e notti. Finché un camion ci ha presi. Siamo scesi in una grande città che si chiamava Francoforte.»

«Strano» osservò Amalia. «La rotta dei disperati finisce a Malta o a Lampedusa. A quali montagne ti riferisci?»

«I Balcani» intervenne Alfredo, «ma hai ragione, è un percorso tortuoso. Guadagnare tempo in Africa per poi perderlo lungo l’Europa orientale… Chi vi guidava?»

«L’agente di viaggio.»

La ragazza sgranò gli occhi: «Come no, un tour operator con bandierina e cappellini per tutti.»

Bambino si strinse nelle spalle. «Lo chiamano così. È l’uomo a cui l’organizzazione ha affidato la responsabilità del gruppo fino a Francoforte. Poi ci siamo separati, ognuno ha preso la sua strada.»

«Era un africano?»

«Uno della mia gente.»

«Sapresti riconoscerlo?» chiese Pani.

«È per voi che siamo tutti uguali, non per noi.»

L’agente abbozzò: «D’accordo. C’è qualcosa di lui che ti ha colpito?»

Bambino ci pensò su. «Le scarpe da ginnastica bianche. Mai una macchiolina o un granello di sabbia. Secondo me non se le toglie nemmeno per dormire.»

Amalia era pensierosa. «Che senso ha andare in Germania per poi tornare in Italia se sei già sulle rive del Mediterraneo? Non quadra.»

Il nero si irrigidì: «Io dico la verità. Noi non ci siamo mai mischiati con altri. Sempre il nostro gruppo da solo, sempre con l’agente di viaggio.»

Il poliziotto tagliò corto: «Stavate da soli perché se qualcun altro si fosse accorto di cosa nascondevate vi avrebbe tagliato la gola. Va bene, il motivo di quei giri lo capiremo. Ora dicci cosa è andato storto.»

Lo sguardo del nigeriano si velò. «Non è stata colpa mia, ma sua» puntò su Amalia un dito accusatore. «Ha fatto trambusto all’aeroporto di Roma. Era insieme alla polizia. Con il cane. Mi ha guardato. Mi sono sentito in trappola.»

«Così sei scappato?»

Bambino abbassò la testa. «Mi sono rifugiato da un fratello che lavora per la cooperativa dei pomodori. Lui mi ha detto: “Stai qui tranquillo e le acque si calmeranno.” Invece siete arrivati di nuovo» concluse in tono lamentoso, come un ragazzino scontento della sorpresa trovata nell’uovo di Pasqua.

Alfredo finì di unire i puntini. «A Regina Coeli un’otturazione è saltata e qualche detenuto ha visto la pietra. Dentro, di fronte al bottino non c’è appartenenza che tenga. Sei carne da cannone.»

«Perché non ti sei fatto aiutare dall’Ascia Nera?» domandò Amalia. Poi rivide le lacrime di Bambino e capì. «Pensano che tu abbia tradito. Ecco perché non ti proteggono. E perché non vuoi uscire di prigione. Ma sei pazzo: tra quelle mura per te è solo questione di tempo…»

L’uomo si prese la testa tra le mani. «Non è colpa mia» ripeté. «Io volevo andare dal dottore bianco, ma non era possibile. Troppo lontano, troppo pericoloso. Io aspettavo. Non potevo fare altro.»

Alfredo e Amalia si guardarono. Il poliziotto emise un fischio.

«Come si chiama il dottore bianco?» domandò.

«Non ricordo. Non lo conosco. Ho perso il suo indirizzo…»

«Perché dovevi andarci?»

«Erano gli ordini.»

«E poi?»

«Poi la libertà. Ce l’avevano promesso.»

«E tu ci credevi?»

«Cos’avevo da perdere?»

Alfredo ripensò al biglietto da visita di Lucio Borghi. Il dentista era invischiato fino al midollo, altro che filantropia. Era il terminale dell’organizzazione a Roma, quello che si prendeva la briga di recuperare i diamanti. Per darli a chi? E dove li nascondeva?

«Come mai non provate a fuggire durante il viaggio?» mormorò Amalia. «Vi portate addosso una bella tentazione.»

L’uomo abbassò di nuovo gli occhi. «Siamo sempre scortati, una persona diversa ogni tratta, per non dare nell’occhio. E poi conoscono le nostre famiglie. Quel segno sulla porta di casa dei miei genitori è ancora lì. Se non trovano me, troveranno loro.»

La ragazza aveva un’ultima curiosità: «Dove hai imparato la nostra lingua?»

«Da amici. Loro erano stati qui, ma poi espulsi. Niente futuro in Italia.»

«Sei stato bravo, Bambino» lo blandì Pani. «Per intanto ti sei guadagnato una cella tutta per te. Possiamo proteggerti. E faremo sì che i tuoi ex amici smettano di cercarti. Manca solo un dettaglio: chi ti ha dato il biglietto con il nome del dentista?»