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Domenica 2 luglio 2017

Dall’alto, piazza del Campo era un ovale brulicante di gente circondato da un anello deserto. Il pieno e il vuoto, due universi separati dalle transenne. Dall’unico varco ancora aperto continuavano ad affluire persone come olio in un imbuto. Ombrelli aperti per schermare il sole, bottigliette d’acqua che passavano di mano. Molti ragazzi a torso nudo con le schiene lucide di crema solare e le magliette arrotolate in testa a mo’ di turbanti. Intorno, l’anello era la pista su cui si sarebbe corso il Palio. Al margine più esterno della piazza e sui balconi, file di sedie. Erano le postazioni vip, pagate centinaia di euro e destinate a popolarsi all’ultimo minuto. Il sole del primo pomeriggio picchiava, e chi poteva permetterselo ritardava il momento dell’incontro.

Affacciata alla finestra del primo piano di un importante istituto di credito, esattamente a metà del giro di campo che i cavalli avrebbero compiuto, Amalia osservava i preparativi con un quadratino di focaccia alle erbe amare nella mano sinistra e una flûte di spumante nella destra. Diventare un’agente undercover aveva i suoi lati positivi. Per l’occasione si era comprata un abito di Liu Jo con stampate grandi campanule viola che desiderava da tanto. Girellò con il naso per aria lungo le sale affrescate, non prima di aver appoggiato il golfino sulla balaustra a guardia della postazione. Incrociò volti noti della politica e della finanza, molti in compagnia di mogli e figli. I camerieri servivano bevande e stuzzichini rinforzati.

La ragazza svoltò nel corridoio e se li trovò di fronte. Fabrizio Terranera indossava pantaloni kaki e scarpe di pelle. Il colletto della camicia slacciato sul torace abbronzato gli dava l’aria della simpatica canaglia. Portava un maglione rosso legato al collo. Le scoccò un sorriso chi-mai-potrebbe-resistermi, ma gli occhi mandarono un lampo. Il ragazzo si chinò all’orecchio del suo accompagnatore. Ezequiel Alves, in bianco abbagliante, si era tenuto il panama in testa. Quegli occhi trasparenti si posarono su Amalia prima di volare altrove.

Fu un attimo, eppure lei si sentì trapassare come una farfallina da uno spillo.

Li superò con il cuore che batteva a mille. Andò in bagno e immerse i polsi nell’acqua fredda, lasciandola scorrere finché qualcuno bussò con impazienza alla porta. Amalia si trovò di fronte una bionda, in tubino leopardato con tanto di macchie, che la fissò con astio. Lei mormorò una scusa e tornò alla finestra.

Gli altri ospiti sciamavano nella stessa direzione. Il corteo storico stava per iniziare.

La ragazza si immobilizzò. Dalla finestra accanto alla sua, due schiene sporgevano nel vuoto. Accanto a loro, uno scialle di pizzo nero – uno di quelli che sua nonna avrebbe apprezzato perché passava attraverso la circonferenza di un anello. Amalia lo agguantò e con mossa degna di un prestigiatore lo sostituì al proprio golfino, lanciando quest’ultimo sulla balaustra adiacente.

Nessuno sembrava essersi accorto dello scambio. Amalia si incuneò nell’angolo della sua nuova postazione, rivolgendo l’attenzione allo spettacolo sottostante. D’un tratto sentì su di sé una corrente gelida: la bionda maculata la fissava tenendo in mano lo scialle di pizzo. A quanto pareva, le aveva fregato il posto. Occasione sfumata cara, le disse mentalmente Amalia, sarà per la prossima volta. Non aveva dubbi: l’interesse della pantera a due zampe non risiedeva nella corsa.

Ora in piazza non c’era un buco libero. Ogni sedia, ogni strapuntino, ogni centimetro era stato invaso. Il Campo formicolava. Erano già sfilate le contrade, con i cavalli benedetti in Duomo e i cavalieri arrivati dalle vie strette e ombreggiate dove si erano lasciati motivare dai contradaioli. La Lupa, acclamata vincitrice di entrambe le tornate dell’anno precedente. Il Nicchio, outsider orgoglioso. La plurivittoriosa Selva. L’Istrice desiderosa di rivalsa.

Il sole calante indorava i costumi e le facciate dei palazzi.

La folla agitava fazzoletti e bandane con i colori dei propri favoriti. Bianco e blu, oro e rosso, frange bianconere, arancio salmonato. Felini rampanti e serpi dalla lingua velenosa sugli stemmi. E poi le contrade che non esistevano più: l’Orso, la Vipera, la mano che spuntava dall’elmo del cavaliere con una spada in pugno… Sembrava di essere piombati nel Medioevo.

Cadde il silenzio. Il carroccio stava uscendo dal Campo. I preliminari erano finiti. Amalia colse concitazione alla sua destra, in fondo alla piazza. Era la “mossa”, la postazione della partenza, dove cavalli e fantini stavano confluendo. Una busta chiusa fu recapitata con deferenza a un tizio in piedi su un palco, chiaramente la massima autorità dell’evento.

Amalia osservava senza capire.

Fabrizio Terranera si voltò verso di lei. Se era sorpreso di ritrovarsela a fianco, non lo manifestò. Invece, come se avesse intuito i pensieri di Amalia, indicò l’uomo sul palco: «È il mossiere, giudice unico e arbitro della validità della “mossa”. La busta sigillata contiene l’ordine di partenza dei cavalli. È casuale – risultato dell’allineamento dei bàrberi, vale a dire dieci sfere con i colori delle contrade agitate in una fiasca – e segretissimo.»

Lei avrebbe voluto saperne di più, ma Terranera si interruppe: «Li sta chiamando.» Uno dopo l’altro, il mossiere scandì nove nomi: Nicchio, Selva, Onda, Leocorno, Torre, Civetta, Montone… Ognuno accolto da un ululato di gioia.

«Ma…» iniziò Amalia.

«Aspetti. Non è finita.»

L’ultimo nome, il decimo, fu accolto da grida selvagge. Centinaia di mani batterono contro la transenna. Il siciliano ebbe pietà della faccia a punto interrogativo di Amalia: «Competono tutti ma, di fatto, possono vincere in quattro. I primi tre ai canapi, i nastri di partenza, e l’ultimo a essere chiamato. Quello» indicò un bel baio con i finimenti bianchi, rossi e blu, «è il cavallo di rincorsa. Non si allinea. Passa al galoppo e dà il via alla corsa. Se il mossiere è abile, sgancia subito le corde. Altrimenti gli altri partono in svantaggio, ma il giudice non si candida a trascorrere una bella serata.»

Esagerato, pensò Amalia, che da animalista militante si era sempre rifiutata di interessarsi al Palio. Ebbe una fugace visione di Kira, che per quella giornata aveva affidato alle cure amorevoli di Sanji. Per fortuna, sua e non di Sanji, il Bar dell’Angolo era aperto, e il suo amico indiano di turno: lei aveva giurato di tornare a un’ora decente, conscia di mentire.

Notò del movimento ai canapi.

«Che stanno facendo?» chiese. Anziché allinearsi in modo ordinato, i fantini conducevano i loro cavalli in cerchio, appaiandosi e separandosi per poi avvicinarsi ad altri, disegnando con gli zoccoli degli 8 sulla terra. Gli animali, sempre più nervosi, scartavano e nitrivano. Non capivano le direttive dei fantini che erano passati a comporre e scomporre figure geometriche sempre gesticolando.

«Accordi» rispose Terranera con semplicità. «Come le ho detto, le contrade dalla quarta alla nona – a meno di miracoli – non hanno chance. Le altre, in compenso, hanno bisogno di alleati. I minuti decisivi per la corsa non sono i tre giri di campo: sono quelli immediatamente precedenti. Si stringono intese, si mettono a punto strategie. Ognuno tesse la propria tela.»

Amalia rimaneva confusa. «Alleanze su quale base?»

«Il nemico del mio nemico è mio amico.»

«E quindi lo raggiungo a cena per festeggiare la sua vittoria?»

«No, gli spiano la strada. Ostacolando chi può impedirgli di trionfare.»

Lei sgranò gli occhi: «Ma non è corretto.»

Lui fece una risata rauca. «Secondo quali parametri? Il Palio esiste dall’anno Mille, ha visto la peste e le guerre. Prima del frustino, i fantini impugnavano il gatto a nove code. Si scambiavano colpi furibondi, si azzuffavano come leoni, e quelli che non finivano a terra finivano in carcere. C’è stato pure qualche accoltellamento. Anche ora i colpi proibiti non mancano. Minacce e tradimento fanno parte della giostra quanto redini e finimenti.» Le scoccò un’occhiata: «È una fedele rappresentazione della vita, non trova?»

Prima che Amalia potesse rispondere, scoppiò un mortaretto.

Il sole ormai illuminava solo uno spicchio della piazza, il resto era avvolto dall’ombra ristoratrice. Sulla folla era sceso il silenzio dell’attesa.

Amalia vide i cavalli tra i due canapi, uno accanto all’altro, bardati di tinte e di storia, ma quel fermo immagine non durò. Un bolide scuro ammantato di rosso e blu si infilò in mezzo al gruppo alla velocità di un proiettile.

«Eccellente» commentò Terranera. «Nessuna falsa partenza. Vai così.»

Amalia aveva infilato entrambe le mani nella borsetta, muovendo le dita con leggerezza. Aguzzò le orecchie, ma sotto il fragore riusciva a cogliere poche parole smozzicate. La diretta proveniva dalla televisione alle sue spalle: in piazza non era previsto nessuno speaker. «Il Palio è dei senesi, chi non lo capisce vada al mare» aveva sintetizzato l’edicolante. Lei capì che il cavallo di rincorsa apparteneva alla contrada della Pantera e aveva fatto un ottimo avvio, incuneandosi proprio mentre i primi due – il Nicchio, con il suo blu color del mare intarsiato di corallo, e la Selva verdearancio – tentavano di disimpegnarsi.

Passarono sotto la sua finestra: la Pantera in testa, con il fantino incollato alla schiena che brandiva il durissimo tendine essiccato, e appaiati alle calcagna il Nicchio e la Selva. Più indietro, il branco che non aveva ancora preso il ritmo.

Terranera indicò gli inseguitori con un ghigno: «Vede quello?» puntò l’indice sul sauro con il mantello rossonero della Civetta. «Arriva in testa al gruppo e poi rallenta. Li tiene a bada come un pastore col gregge. Dieci a uno che sta dando una mano a qualche amico.»

Dalla folla montò un urlo. Il Nicchio aveva raggiunto la Pantera, staccando la Selva.

Amalia colse frammenti di telecronaca. «Ecco… Ce la fa… Il giovane Riccardino su Splendida Sorpresa sta superando Ronnie Tracotanza che monta Dinamite Blu… Ce l’ha fatta, signori… È in testa al secondo giro.»

L’eccitazione percorreva piazza del Campo come un filo elettrico, sfiorando mani e bocche degli spettatori. Riccardino, diciannove anni, era il figlio di una leggenda locale con diciassette palii corsi e otto vinti. Era all’esordio su una puledra angloaraba pluripremiata, accompagnato da una solida educazione familiare e dall’affetto dei contradaioli. Al bar Nannini, Amalia aveva sfogliato La Nazione e il Corriere di Siena, che dedicavano alla giornata corposi inserti, scoprendo che la competizione ippica reggeva un’economia da grandi numeri: turismo, ristorazione e catering, aste dei cavalli, ma soprattutto sponsorizzazioni e scommesse. Un giro, quest’ultimo, che muoveva cospicue somme, non tutte alla luce del sole.

Di nuovo, Terranera parve leggerle nel pensiero: «Il ragazzo è bravo, ma non ha ancora la tempra giusta.»

«Giusta per cosa?» domandò lei, distratta dalla corsa.

«Per strappare l’osso a una muta di cani affamati.»

Intanto, la coppia di testa aveva percorso l’intero anello ed era di nuovo sotto la loro finestra. A mezzo giro esatto dal traguardo.

Successe in quel momento. Alla curva più pericolosa.

Amalia ne ebbe una visione limpida, sebbene la sua mente rifiutasse di registrarla.

Ronnie Tracotanza, il fantino della Pantera, spronava Dinamite Blu fino a fargli uscire la schiuma dalla bocca. Centimetro dopo centimetro, il cavallo rimontò finché la testa di Dinamite fu all’altezza del fianco madido di sudore di Splendida Sorpresa. Le bestie galoppavano furiosamente. Splendida Sorpresa sbandò in curva, sbatté contro i materassi che riparavano il muro, ma Riccardino riprese la pista in modo magnifico e non perse la posizione. Tuttavia, il giovane fantino barcollò: non aveva assorbito l’impatto. Dinamite Blu restava appaiata, quando la frusta di Ronnie Tracotanza calò con forza bestiale sulla pelle della cavalla avversaria. Con un nitrito, quella si alzò sulle zampe posteriori. Riccardino fu preso alla sprovvista e venne sbalzato di sella. Il suo corpo disegnò un arco nell’aria e cadde sulla pista rimanendo inerte.

Splendida Sorpresa, invece, continuò la sua corsa.

Amalia sfilò le mani che teneva ancora nella borsa e si coprì la bocca.

Terranera reagì con freddezza. «Può ancora vincere. Il cavallo scosso, cioè senza fantino, può tranquillamente arrivare primo al bandierino.»

Lei lo fissò basita. Non avrebbe scelto quell’avverbio.

Il siciliano aveva ragione nel dire che non era finita, ma aveva torto nel merito. Dinamite Blu non si scollava dall’avversaria. Ronnie Tracotanza era un veterano che aveva corso anche all’estero per scuderie blasonate. Si passò il gomito sulla fronte per asciugarla, poi il braccio si arcuò nell’aria e proseguì la traiettoria mollando una seconda scudisciata, stavolta sul muso di Splendida Sorpresa. Stravolta dal dolore, la cavalla finì contro la staccionata rischiando di travolgere gli spettatori, che fuggirono all’impazzata. Era troppo anche per i contradaioli più rudi. Una gragnuola di fischi si alzò dagli spalti e dal centro della piazza, mentre giù dai canapi la gente aveva invaso la pista.

Le mani di Amalia si muovevano rapide all’interno della borsetta. Non sapeva più dove rivolgere l’obiettivo della Nikon che sporgeva appena dalla tela. Ma nessuno le badava. Giù, i medici stavano cercando di rianimare Riccardino. Poliziotti e carabinieri si mescolavano alla folla tentando di ristabilire l’ordine. Il grosso dei cavalieri si era fermato per evitare di aggravare l’incidente.

Tenendo il cavallo al passo, Ronnie Tracotanza tagliò il traguardo incurante dell’odio che lo circondava.

«Non possono lasciarlo vincere!» esclamò Amalia.

«Ovviamente no» rispose il siciliano, «e credo che i giudici esamineranno a fondo il frustino: visto l’effetto dei colpi, non mi stupirei se fosse stato arricchito di chiodi o sostanze urticanti. Ronnie Tracotanza verrà squalificato a vita. Non monterà mai più in un circuito. Dubito che gli importi, però: per comportarsi così, deve avere ricevuto un’ottima pensione per la vecchiaia.»

La ragazza era disorientata. «Ma chi ci guadagna in questo disastro?»

«Lui.» Amalia seguì il dito. Fino al cavallo della Selva, un grigio robusto dai garretti poderosi. Il terzo incomodo che a metà corsa, mentre gli occhi di tutti erano puntati sul duello all’ultimo sangue, aveva staccato il gruppo e si era portato a breve distanza da Nicchio e Pantera. Senza impegolarsi in confronti diretti. Adesso andava al passo, trattenuto al millimetro dal suo fantino. La visiera del cap impediva ad Amalia di scorgerne il volto, ma non lo stemma con il rinoceronte all’ombra della quercia.

«Signore e signori» proruppe lo speaker della diretta televisiva, emozionatissimo, «Tabacco su Scintilla taglia il traguardo e si assicura questa edizione del Palio di Provenzano del 2 luglio 2017.»

Un pensiero attraversò Amalia: la preoccupazione per la salute dei cavalli era un nobile punto di vista, ma non sarebbe più stato l’unico con cui avrebbe guardato al Palio.

Dal canto suo, Ronnie Tracotanza teneva Dinamite Blu con una mano e lo scudiscio nell’altra, come a sfidare gli altri a farsi sotto. Percorreva la pista impassibile sotto le bestemmie di senesi e turisti. Ruotava la testa con arroganza, e quando fu a poca distanza dalla finestra della banca sollevò leggermente il mento. Amalia ne scorse lo sguardo infossato sotto sopracciglia così folte e ravvicinate da apparire un’unica linea. Ma il fantino la ignorò. Quello sguardo duro raggiunse Ezequiel Alves. L’uomo fino a quel momento era rimasto immobile come una statua con il cappello. Quando si girò per la prima volta, lei rimase ipnotizzata da quel volto così vicino. Aveva le sopracciglia color polvere, quasi inesistenti, che unite al pallore gli conferivano l’aspetto glabro di un cucciolo di rettile, appena uscito dall’uovo e senza scaglie. In compenso gli occhi chiarissimi bruciavano di un’energia sconosciuta: «Così mi piace» disse con voce sottile. «Così deve essere. Il Palio degli Assassini.»