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L’Audi divorava la strada a morsi.
All’interno si era formata la solita bolla da cui umori, voci e movimenti rimanevano fuori.
Abbandonata la costa, il panorama dell’entroterra scorreva come un rullo: il verde brillante del ligustro, il giallo dei limoni talmente pesanti da incurvare i rami, il viola polposo delle bouganvillee arrampicate dietro i cancelli. E allontanandosi dai centri abitati, i boschi di querce e castagni. La strada saliva fiancheggiata dall’impasto grigio e marrone delle rocce. Sullo sfondo le montagne, valli e dirupi, e una distesa di ginestre in fiore. Visibile soltanto agli occhi della memoria, da qualche parte c’era il piccolo asfodelo mediterraneo. Fabrizio ne era certo mentre scrutava i dintorni: quella pianta racchiudeva insieme tre generazioni – lo stelo verde con la spiga appena sfiorita, la rosetta di foglie strette e aguzze, e in fondo il secco della stagione precedente, di cui le capre andavano ghiotte. E il pensiero lo riportava all’infanzia.
L’autista sterzò bruscamente infilandosi in un viottolo. Dopo un centinaio di metri, giunto a un bivio, svoltò a sinistra. La casa era dietro la curva. Alta, solida, imponente ma non cupa. Le tende di pizzo alle finestre, sotto cui si allargavano i balconcini con il tavolo e le sedie, le conferivano un’aria vagamente altoatesina. Nel giardino, accanto all’erba ben rasata, crescevano magnolie con le foglie lucide. Una bicicletta era appoggiata alla siepe. Un albero di avocado aveva lasciato cadere i frutti troppo maturi che giacevano spappolati a terra, banchetto per api e farfalle. Tutto era studiato per offrire ai visitatori un piacevole colpo d’occhio.
Alves e Terranera scesero dalla macchina.
«Le faccio strada» disse il siciliano.
Appena ebbe varcato la porta, notò che l’interno non manteneva le promesse. Senza la vegetazione che il sole della Sicilia accarezzava molti mesi all’anno, restavano un salotto con quattro poltroncine e un corridoio di porte chiuse che terminava in una rampa di scale. Terranera si diresse con passo sicuro alla reception.
«Buongiorno. Salvatore Locurto, per favore.»
L’uomo alzò gli occhi dalla Settimana Enigmistica. «Avete un appuntamento?» domandò.
«No, ma è orario di visita» fece notare Fabrizio. Aveva parlato in tono educato, ma qualcosa spinse il receptionist a prestare più attenzione. Vide un giovanotto con una luce dura negli occhi e un uomo maturo, troppo biondo e dalla pelle troppo bianca. Dall’atteggiamento di entrambi trapelava qualcosa di spasmodico.
Il receptionist esitò: «È che… il signor Locurto non gradisce visite inattese.»
«Questo è un ospite speciale. È venuto da lontano per rivederlo.» Mentre indicava l’uomo con il cappello in testa, il giovane allungò una banconota da cinquanta euro nella fessura tra il vetro e il banco. Il receptionist la ghermì.
«Secondo piano, stanza 105. Vi consiglio di bussare forte prima di entrare. C’è un pulsante rosso al fianco del letto: se avete bisogno di assistenza, premetelo.»
«Vedrà che non servirà.»
Il receptionist alzò le spalle: mica erano affari suoi. Si concentrò sul sei orizzontale delle parole crociate: «Amichevole mammifero che si nutre di foglie di eucalipto», cinque lettere.
I due ospiti salirono la rampa che odorava di disinfettante. La moquette era pulita ma usurata da anni di aspirapolvere passato in modo meccanico. Terranera immaginò che la brochure della struttura contenesse foto del giardino, guardandosi bene dal rivelare anzitempo gli interni. Rifletté che era una clinica di seconda classe, una delle tante che aprivano e chiudevano sul territorio sfruttando convenzioni con il politico di turno e il bisogno di assistenza di una popolazione a rapido tasso di invecchiamento. La sanità pubblica della sua regione, come di tante altre, continuava a rappresentare un calvario per i pazienti e un’occasione di business per gli imprenditori privati.
Il secondo piano si apriva su un corridoio uguale agli altri: porte numerate e luce al neon che avrebbe fatto apparire malsano persino il colorito di un campione di vela transoceanica. Avanzarono sotto quella luce fredda, da obitorio. Uno dei faretti era fulminato. Il resto era fuori dalla loro vista. Ma non dall’udito: da qualche parte proveniva un lamento femminile. Terranera non avrebbe saputo dire se emettesse disperazione o rassegnazione. Alves accelerò il passo per sincronizzarlo con i battiti del cuore. Di fronte alla 105, bussò con energia. Nessuno rispose. Picchiò di nuovo fino a farsi dolere le nocche. Fabrizio, con dolcezza, girò la maniglia.
La stanza assolata affacciava sul retro del giardino. Non c’era balcone, ma dalla finestra aperta entrava una corrente d’aria. I pochi mobili – un letto dotato di comodino ad altezza regolabile, un tavolo rotondo sotto la finestra, una panca su cui poggiare gli abiti – erano bianchi come le lenzuola. Alle pareti, foderate di carta da parati color avorio, non erano appesi quadri: solo un crocifisso in legno di faggio pendeva sulla testiera del letto. Alves annuì in modo impercettibile: quell’ambiente candido, dove ogni cosa era al suo posto, gli piaceva. Era la cornice giusta per il loro incontro.
Sprofondato in una poltroncina verde foglia, unica nota di colore all’interno della stanza, un uomo dava loro le spalle, immerso nella contemplazione del panorama. Aveva una testa piccola con la pelle chiazzata da cui spuntavano pochi ciuffi, lunghi e radi, di capelli grigi. Sui braccioli poggiavano due mani rinsecchite e altrettanto piene di macchie, dovute forse al fumo o all’eccessiva esposizione ai raggi solari. Terranera si strinse nelle spalle: a quel punto della vita lo stato dell’epidermide non aveva più alcuna importanza. L’esistenza aveva fatto il suo corso, con la sua giostra di gioie e dolori; vanità e orgoglio erano caduti come bucce di cipolla, non era rimasta che l’essenza, quella che ognuno di noi avrebbe sfoderato di fronte al tribunale delle anime nel momento supremo.
Il vecchio doveva pensarla allo stesso modo. Se ne stava immobile al sole come una lucertola, preso dalla brama di godere di quel benessere quasi fuori tempo massimo. Indossava un pigiama azzurrognolo e ai piedi calzava pantofole di spugna da albergo. Fabrizio tossicchiò, ma l’uomo non diede segno di essersi accorto della loro presenza. Il siciliano gettò un’occhiata ad Alves: quella mano doveva essere lui a giocarla.
Il brasiliano non si era mosso dalla soglia. Se ne stava impietrito, con il panama in una mano e l’altra appoggiata allo stipite come se avesse bisogno di sostenersi per non cadere. Aveva un’espressione indecifrabile, un misto di gioia e paura, come un bambino che non sa se sta per ricevere un regalo o una punizione.
«Papà» disse alla fine con una vocetta acuta come una sega elettrica.
L’uomo si voltò.
La Cinquecento correva lungo le curve, sobbalzando a ogni buca.
Alfredo schiacciava l’acceleratore incurante dei limiti di velocità e delle contorsioni dello stomaco di Amalia. Al mattino presto aveva ricevuto la telefonata di un maresciallo dei carabinieri di sua conoscenza: avevano localizzato il furgone blu. O almeno così credevano. Un amico di un amico, che faceva il contadino, si era ritrovato una carcassa metallica ai bordi dei filari di melanzane, zucchine e fagiolini. Bruciata come un mucchio di stoppie. Dopo aver soppesato pro e contro, aveva avvisato l’Arma. I rilievi li stavano facendo loro – aveva messo in chiaro il maresciallo – e il modello corrispondeva alle immagini del rapimento di Amalia. Anche la zona tornava: nel parco delle Madonie, dove in passato avevano trovato rifugio i latitanti e adesso brulicavano agriturismi di lusso. Il carabiniere aveva chiamato Pani per amicizia, gli aveva detto, e per rispetto. E anche perché, aveva pensato il poliziotto, la Dac non è quel genere di organismo che puoi tenere fuori dalle indagini per questioni di beghe territoriali senza mettere in conto che prima o poi la pagheresti. Comunque fosse, il maresciallo aveva acconsentito a dargli le generalità dell’informatore, facendosi però garantire che lo avrebbero interrogato in modo informale, e che i “cugini” dell’Arma non avrebbero saputo chi aveva fatto la soffiata. In quel modo, ognuno avrebbe avuto la propria soddisfazione e le apparenze sarebbero state salve. Era così che funzionava la cooperazione tra sbirri.
Alfredo pigiò di nuovo l’acceleratore. Il contadino abitava in una casa colonica poco distante dall’orto, e per spicciarsi l’agente aveva scavalcato la burocrazia: era andato all’autonoleggio più vicino, uscendone con le chiavi di una Cinquecento nera ultimo modello. «Andiamo a dare un’occhiata» aveva detto tutto contento. «Poi, nel caso, avvisiamo. Il grosso l’hanno fatto i caramba, ma non si sa mai…»
Amalia, i cui organi interni non volevano saperne di stare al proprio posto, spalancò il finestrino e inghiottì sorsate d’aria. Niente. L’ossigeno si rifiutava di infilarsi nei polmoni, a differenza dei pollini.
«Cosa si sa del nostro contadino?» domandò per distrarsi.
«Agliotti Paride, cinquantatré anni, coltivatore diretto. Moglie casalinga e niente figli. Incensurato.»
«Un bravo cittadino che collabora con le forze dell’ordine? Nient’altro?»
Alfredo staccò la mano sinistra dal volante e la fece ruotare nell’aria. «Può darsi che restituisca un favore, o piuttosto uno sgarbo. Il maresciallo dice che lo conosce e che è pulito.»
«Tu non ci credi?»
«Non necessariamente. Penso soltanto che occhi estranei vedano meglio di occhi assuefatti. Magari Paride è un bravo ragazzo ma, che so, il suocero frequenta brutta gente. E da cosa nasce cosa…»
Il messaggio sbirresco l’aveva raggiunta forte e chiaro. La telefonata era arrivata mentre facevano colazione nell’albergo a tre stelle che la polizia di stato pagava ai suoi agenti in trasferta. La sera precedente, al momento di prendere le camere, si erano guardati in faccia di fronte al concierge, che vedeva un agente in divisa e una ragazza scarmigliata, entrambi piuttosto imbarazzati. Alla fine lei aveva chiesto una stanza con letto singolo, ottenendo l’affaccio sui rumori di strada, e si erano salutati in corridoio. Amalia aveva sentito distintamente un sospiro mentre Alfredo girava la chiave nella toppa della propria stanza, ma non avrebbe saputo dire se fosse dispiacere o sollievo. E lei? La stanchezza l’aveva tradita, o forse salvata. Era crollata in un sonno profondo e, per una volta, senza sogni. Al mattino, con gli occhi pesti, stavano inzuppando nel latte i cornetti arrivati surgelati dalla Romania quando la telefonata aveva tolto entrambi da una conversazione di circostanza in una situazione che non lo era affatto.
La Cinquecento abbandonò l’asfalto. Con una sterzata che quasi sollevò due ruote, svoltò nella strada sterrata rischiando le sospensioni a ogni radice, sasso, montarozzo. Davanti a un bivio, Alfredo esitò. Controllò il gps e prese a destra, dove spuntava il tetto di un capannone.
Dopo aver parcheggiato, si affacciarono all’interno del fabbricato. Videro dei macchinari agricoli a riposo: due trattori, una piccola ruspa, un aratro arrugginito. I vetri erano spaccati e sulle travi più alte c’era il nido abbandonato di un falco. A terra, escrementi e rami secchi. Una fila di piccioni, allineati sui davanzali, li fissava in attesa di capire se fossero amici o nemici. Alfredo controllava ogni lato. La mano era scivolata lungo la coscia, ma anziché la pistola aveva incontrato il tessuto grezzo dei jeans. Il nervosismo contagiò Amalia. Forse muoversi senza appoggi non era stata una mossa brillante. Forse la vicinanza con Polimeni non aveva reso Alfredo più acuto. Solo più arrogante. La ragazza non ebbe il tempo di trarre le conclusioni. Un’ombra apparve alle loro spalle, facendo scricchiolare gli sterpi.
Alfredo si buttò a terra prima ancora di girarsi. Amalia si voltò e vide gli occhi spenti di una donna di mezza età, con gli zoccoli e una canottiera incapace di nascondere la pelle floscia. La ragazza scoppiò in una risata: «Super addestramento e nervi a fior di pelle combinano di questi scherzi. Ma non lo racconteremo in giro.»
Alfredo si rialzò imbronciato, spolverandosi le spalle.
«Cosa desiderate?» chiese la donna con un pesante accento siciliano.
«Agliotti Paride» latrò il poliziotto.
«Mio marito? Cosa volete da lui?» Aveva un’espressione circospetta.
«Vorremmo ordinargli una fornitura di verdure. Abbiamo una trattoria in città» spiegò Amalia, sperando che non fosse la moglie a gestire gli affari.
La donna indicò con il pollice dietro di sé: «È alla clinica.»
«Come? Sta male?» saltò su Alfredo.
«No, no. Fa il giardiniere. Per arrotondare.»
«È lontana la clinica, signora?»
«No, no. Prendete quaggiù a sinistra. E non vi scantate a guardarli. Quelli non fanno male a una mosca.»