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Adele Grillo capì prima di aprire gli occhi che qualcosa non andava.

Ombre. Forme oblunghe o aguzze che si protendevano verso di lei.

Si mise a sedere sul letto, tentò di rendersi conto di cosa stesse succedendo. Il vecchio materasso cigolava. La terra si muoveva, un gorgo si spalancava sotto i piedi e lei ritirò le gambe.

Ansimando, tese le orecchie e allungò lo sguardo. Ma fu l’olfatto a fornirle la chiave per interpretare gli eventi. Quell’odore.

Cavolo bollito che invadeva le narici. L’olfatto la riportò alla realtà, adempì al compito a cui gli altri sensi sembravano ribellarsi. Adele era nella sua stanza. Eppure, non c’era più nulla di familiare. Si girò, non distingueva il comodino, cercò a tentoni il filo della lampada senza trovarlo. Le mani palpavano, strusciavano, tremavano, e infine si arresero. Avrebbe voluto alzarsi, ma come faceva a fidarsi? Lo sforzo di concentrazione le provocava un dolore lancinante alle tempie. Non aveva mai provato niente di paragonabile: era come se vi si fosse conficcata una punta arroventata. Nonostante la sofferenza, però, riuscì a pensare.

L’odore di cavolo bollito saliva dal piano terra. La signora Tattilo lo preparava per cena tre volte a settimana. Il che significava che era primo pomeriggio, perché poi, inderogabilmente, usciva con il cane. Perché allora era buio? Dov’era finita la luce? Chi aveva spento il sole che a quell’ora entrava in camera sua? C’era qualcuno in casa? Dov’era suo figlio? Al lavoro, come sempre. A fare quel lavoro schifoso e indegno, di cui lei si vergognava e che, ogni volta che andava al cimitero, faceva a meno di dire a Rocco. Lui era morto prima che il ragazzo dirazzasse, e quando lei raccontava al marito per filo e per segno come andavano le cose si consentiva qualche omissione. L’aveva confessato al parroco, e lui, con un filo di imbarazzo, l’aveva assolta. «Va bene così, Lina, va bene così», e le aveva impartito la benedizione. Del resto, lei andava a messa tutte le domeniche, non come suo figlio che due volte su tre era persino di turno. Altro che santificare le feste, pensò la donna.

Concentrati, si disse. Non era facile, però. Il dolore defluiva: è proprio così, pensò, adesso è liquido e si spande nel cervello, che lo assorbe come una spugna. Adele ridacchiò per la metafora. E sputò. Qualcosa di solido, invece. Scuro, filamentoso, che macchiò il lenzuolo. Non vedeva la macchia, ma sapeva che c’era. Qualcosa non andava, questo era sicuro. Era come se il suo organismo, tutto quanto era contenuto all’interno del suo corpo, stesse ballando una danza folle. Ogni pezzo per conto proprio. La cosa strana era che non c’erano rumori. Era tutto silenzioso, ovattato, sereno. La luce, in fondo, c’era: un chiarore luminescente, uniforme, vago ma abbastanza deciso da scacciare le ombre se lei lo fissava a lungo.

Adele capì all’improvviso. La cosa non era fuori: era dentro di lei.

Le ombre erano i mobili della stanza, il gorgo il pavimento, la lampada era al suo posto. Era lei a fallire; il cervello non le obbediva, la imbrogliava, le mandava impulsi sbagliati. Il nemico era interno. Adele stava male, molto male. Si chiese se sarebbe morta. E per la prima volta in tanti anni pensò a suo figlio. Non a quello che era diventato, ma a quello di prima. Il bambino che andava in bici sui marciapiedi, giocava a palla in cortile, scavalcava i cancelli come un gatto, scappava dopo averla combinata grossa.

Il moccioso che non esitava a picchiare i bulli più temuti se osavano chiamarlo Pel di Carota. L’adolescente che aveva lasciato il calcio per potersi allenare freneticamente in palestra, per diventare un campioncino di arti marziali, per essere più agguerrito degli altri. Alfredo. Il figlio che Rocco aveva visto poco e soprattutto di notte, quando tornava da uno dei suoi lunghi tragitti. Perché Rocco faceva il camionista, lungo l’Autosole, su e giù per il Brennero, fino al Mezzogiorno, dove i trasporti diventavano viaggi della speranza. Suo marito era un asso al volante e in quegli anni prima della crisi, mentre tante ditte si davano da fare, il lavoro non gli mancava. Le aziende se lo contendevano: portava frutta e verdura, merci deperibili che richiedevano riflessi pronti e resistenza alla fatica.

Ma facendo l’autotrasportatore, ricchi non si diventava. E Rocco, Adele lo sapeva, a un certo punto aveva preso un altro percorso. Certi amici si erano rivolti a lui, conoscendone la fama di pilota eccezionale. Continuava a lavorare di notte, ma alla moglie non raccontava più i dettagli. Guidava camion, furgoni, auto e qualche volta persino motociclette di grossa cilindrata. La voce nel quartiere si era sparsa: se Adele non aveva soldi con sé, il droghiere le faceva credito, e difficilmente Alfredino veniva ancora infastidito. C’era scappata pure una settimana di villeggiatura ad Anzio. La vita scorreva, anche se Rocco continuava a non occuparsi del figlio. E forse era meglio così. Fino a quel giorno d’inverno.

Faceva così freddo che lei era costretta a indossare i guanti dentro casa. Così, se lo ricorda, aveva aperto la porta con le muffole di lana e se li era trovati di fronte. Erano in due. Poliziotti. Cercavano Rocco, che non c’era. Volevano sapere come avesse trascorso il pomeriggio precedente, se si fosse licenziato dal lavoro, se fosse successo qualcosa di insolito. Erano gentili ma Adele non si era lasciata ingannare neanche per un istante. C’era stata una rapina all’ufficio postale: un bel bottino, tre uomini armati, un’auto con il palo a bordo pronta a sgommare, un inseguimento. I banditi si erano dileguati, ma la caccia era solo agli inizi.

Due giorni dopo Rocco era tornato. Veniva dall’Austria, dove aveva consegnato un carico di legname. Aveva i documenti a posto, la bolla di accompagnamento, gli scontrini dei caselli. Anche i piedipiatti erano tornati, molte altre volte, con le loro domande falsamente cortesi e gli occhi a capocchia di spillo.

Rocco diceva: «Tieni i nervi a posto e vedrai che ci lasceranno stare.»

Probabilmente aveva ragione, ma alla fine li avevano lasciati stare per un altro motivo. Mentre guidava un bestione stipato di taniche di gasolio, suo marito era precipitato da un viadotto dopo aver tamponato una betoniera. Il camion si era disintegrato in una palla di fuoco, di lui era rimasta cenere a mezz’aria. Non c’era stato bisogno del funerale: era stato cremato dalle circostanze. Adele aveva accolto le tante condoglianze con parole automatiche e una certezza nel cuore: era finita. Niente domande, niente dubbi sull’incidente, niente pensieri sui soldi, niente più passato.

Il passato, per loro, era una minaccia.

Quel giorno era cominciato il futuro, fatto del piccolo appartamento di sempre, di una pensione minima di reversibilità, di un ragazzo scontroso da crescere e della rinuncia a qualsiasi sogno. Lei aveva fatto del suo meglio, non era colpa sua.

I pensieri si interruppero di botto. Il dolore alla testa era infernale. Adesso, quella che sentiva defluire era lava. Tornarono le ombre. Lunghe e poi corte, vicine e di nuovo lontane, concave e convesse. Si protendevano e si ritiravano. Amiche o nemiche? In fin dei conti, non avrebbe saputo dirlo. Fu ancora l’odore di cavolo a riportarla alla realtà. Bollito del tutto, salato al punto giusto, pronto da scolare e condire con un filo di olio. Se avesse potuto, avrebbe detto alla vicina di spicciarsi ché niente è più disgustoso del cavolo stracotto e spappolato. Adele doveva agire prima che la signora Tattilo uscisse. Le sembrò di sentire l’abbaiare del cane, ma chissà se poteva fidarsi dei suoi sensi ormai compromessi.

Adele Grillo, detta Lina, vedova Pani, allungò la mano sul comodino. Un colpo secco, come una mannaia. E stavolta trovò ciò che cercava.

Prima che il nero la inghiottisse, afferrò la cornetta del vecchio Sirio che non aveva mai voluto cambiare. Si chiese se avrebbe trovato la voce, se almeno la lingua le avrebbe obbedito. Si chiese, soprattutto, se avesse ancora tempo davanti a sé.

Alfredino.

Non aveva nemmeno ritirato la sua camicia buona dalla tintoria.