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Oltre il finestrino del taxi, la vista della città è mozzafiato, un gigantesco fondale allestito da uno scenografo invisibile. L’interno dell’abitacolo è fresco, e io mi sento tranquilla, intoccabile. Una spettatrice. Ma là fuori, nell’afa soffocante del pomeriggio di luglio, il ritmo di Londra è frenetico: il traffico intasa le corsie e i passanti affollano i marciapiedi, attraversando la strada a frotte a ogni semaforo. Vedo corpi ovunque, di ogni tipo, età, dimensione e razza. Il pensiero dei milioni di vite che s’incrociano in questo luogo è sconvolgente.

Che cosa ho fatto?

Passiamo accanto a una vasta distesa verde, colonizzata da centinaia di persone che prendono il sole. È Hyde Park? mi chiedo. Mio padre mi ha spiegato che Hyde Park è più grande di Monaco. Incredibile. Monaco è piccola, ma resta comunque una città. La proporzione mi provoca un brivido, e mi rendo conto di avere paura. Strano, in genere non mi considero una fifona.

Chiunque al mio posto sarebbe nervoso, mi dico. Visto quanto mi è capitato ultimamente, non c’è da stupirsi che la mia sicurezza vacilli. Un senso di nausea ormai familiare mi prende allo stomaco, ma io mi sforzo d’ignorarlo.

Non oggi. Ho ben altro per la testa. E poi basta arrovellarsi e piangere. Per questo sono qui.

«Siamo quasi arrivati, cara», sento dire a qualcuno di punto in bianco, e mi accorgo che è il tassista, con la voce distorta dall’interfono. Mi scruta dallo specchietto retrovisore. «Conosco una scorciatoia. Così evitiamo il traffico.»

Lo ringrazio, sebbene non mi aspettassi altro da un tassista londinese. Lo sanno tutti che conoscono a menadito le strade cittadine. Precisamente il motivo per cui ho preferito concedermi questo lusso, invece di affrontare la metropolitana. Non ho un bagaglio enorme, ma non mi andava affatto di trascinarlo su e giù dai vagoni e dalle scale mobili, con questo caldo. Mi domando se il conducente mi stia soppesando, cercando d’indovinare cosa diavolo ci vada a fare a un indirizzo tanto prestigioso una ragazzetta come me, così giovane e insignificante col suo abito a fiori, col cardigan rosso e con le infradito, gli occhiali da sole sollevati sulla fronte e i capelli raccolti in una coda arruffata, con ciocche che sfuggono da tutte le parti.

«È la sua prima volta a Londra, vero?» domanda lui, sorridendomi dallo specchietto.

«Sì.» Per la verità, non è proprio così. Ci ero già stata da piccola coi miei genitori, per Natale; conservo un ricordo sfocato di negozi enormi e rumorosi, vetrine illuminate, l’elettricità statica dei pantaloni sintetici di Babbo Natale quando mi ero seduta sulle sue ginocchia, la finta barba bianca che mi sfregava le guance. Ma non ho voglia di parlarne col tassista, e comunque la città mi è estranea a tutti gli effetti. Dopotutto è la prima volta che ci vengo per conto mio.

«È qui da sola?» mi chiede, un po’ impacciato, come se si sforzasse di sostenere la conversazione solo per gentilezza.

«No, sono ospite da una zia», rispondo. Altra bugia.

Lui annuisce, compiaciuto. Ci stiamo allontanando dal parco, e lui s’infila con uno slalom collaudato tra macchine e autobus, superando ciclisti, sterzando rapido alle curve e sfrecciando ai semafori gialli. Infine lasciamo le trafficate arterie principali e c’inoltriamo in viette fiancheggiate da alti palazzi in pietra e mattoni, con enormi finestre, porte in legno lucidato, ringhiere in ferro battuto e davanzali fioriti. La ricchezza si sente nell’aria, e non solo per le auto di lusso parcheggiate lungo i marciapiedi, ma anche per gli edifici impeccabili, la pulizia delle strade, le domestiche intraviste oltre i vetri, mentre accostano le tende per proteggere gli interni dal riverbero del sole.

«Se la passa bene, sua zia», scherza il tassista, svoltando in una traversa, e poi imboccandone una ancora più appartata. «Economico, vivere da queste parti...»

Rido, ma non rispondo. Non saprei cosa dire. Su un lato della strada sorge un’ex scuderia, senz’altro riconvertita in appartamenti a prezzi da capogiro, e sull’altro un vasto complesso residenziale alto almeno sei piani che occupa quasi tutto l’isolato. A giudicare dallo stile Art Déco, deve risalire agli anni ’30; la facciata è grigia, e al centro campeggia un portone a vetri, col telaio in legno di noce. Il conducente accosta. «Siamo arrivati. Questa è Randolph Gardens.»

Io scruto la distesa di pietra e asfalto. «E i giardini dove sarebbero?» L’unica nota di verde è data dai vasi di gerani rossi e viola sospesi ai due lati dell’ingresso.

«Immagino ci fossero, anni fa», risponde lui. «Vede l’edificio di fronte? Una volta là c’erano i cavalli. Se c’era la scuderia, dovevano esserci anche delle ville. Le avranno demolite, oppure sono state bombardate durante la guerra.» Lancia un’occhiata al tassametro. «Sono dodici sterline e settanta, cara.»

Frugo nella borsetta e gli consegno quindici sterline. «Tenga pure il resto», aggiungo, sperando di avere calcolato la mancia giusta. Lui non sembra risentito, quindi devo averci azzeccato. Aspetta che scenda dall’auto, appoggia la valigia sul marciapiedi e chiude la portiera. Poi esegue un’abile inversione a U nella stradina, e sgomma via.

Io alzo gli occhi. Eccola, dunque. La mia nuova casa. Almeno per un po’.

Il custode ha i capelli bianchi e mi lancia un’occhiata interrogativa quando entro e mi avvicino alla sua postazione, col fiato un po’ corto per il peso del bagaglio. «Dovrei trasferirmi nell’appartamento di Celia Reilly», gli spiego, resistendo alla tentazione di asciugarmi il sudore dalla fronte. «Dovrebbe aver lasciato un mazzo di chiavi per me.»

«Lei si chiama?» domanda lui, burbero.

«Beth. Cioè, Elizabeth. Elizabeth Villiers.»

«Ora controllo...» Sbuffa tra i baffi, sfogliando un fascicolo sulla scrivania. «Ah, sì. Miss E. Villiers. Ospite di Miss Reilly, appartamento 514.» Mi fissa con gli occhietti porcini, ma lo sguardo non è ostile. «Bada alla casa, in assenza della signorina?»

«Sì. Be’, al suo gatto, per la precisione.» Sorrido, ma lui non reagisce.

«Già, è vero. Ha un gatto. È assurdo tenere una creatura al chiuso per tutta la vita, ma va’ a capire la gente. Ecco le chiavi.» Mi allunga una busta sul bancone. «Dovrebbe firmare il registro.»

Eseguo, docile, e lui mi elenca le regole del condominio, poi indica l’ascensore. Si offre di portarmi di sopra il bagaglio più tardi, ma preferisco farlo da sola. Almeno avrò subito le mie cose a portata di mano. Un attimo dopo, mi ritrovo in ascensore, a osservare nello specchio il mio viso accaldato. Il mio aspetto non è nemmeno lontanamente raffinato quanto l’ambiente che mi circonda, d’altronde, col volto a forma di cuore e coi grandi occhi azzurri che mi ritrovo, non potrei mai aspirare ad avere quella fisionomia che trovo così elegante, ovvero zigomi alti e tratti decisi. Neppure i miei ricci arruffati, biondo scuro e lunghi fino alle spalle, somiglieranno mai alla capigliatura liscia e lucida che avrei desiderato. Ridurre i miei capelli all’obbedienza richiede tempo, e di solito mi accontento di domarli alla meno peggio con un elastico.

«Non proprio una signora di Mayfair», commento, a voce alta. Il mio riflesso mi tradisce, porta i segni delle mie vicissitudini. La faccia è smagrita e, in fondo agli occhi, nascondo a stento una tristezza inconsolabile. È come se fossi rimpicciolita, schiacciata sotto il peso della depressione. «Sii forte», sussurro a me stessa, cercando inutilmente il guizzo di un tempo nel mio sguardo spento. Per questo sono venuta qui. Non per scappare – almeno non solo –, ma per tornare quella che ero prima, una ragazza piena di vita, coraggiosa e curiosa.

Sempre che quella Beth non sia ormai morta e sepolta.

Mi auguro di no, ma il timore è fondato.

L’appartamento 514 è al quinto piano, in fondo a un corridoio silenzioso. Giro la chiave nella serratura, e un attimo dopo mi ritrovo all’interno. La mia prima reazione è di sorpresa. Ad accogliermi è una sorta di brontolio gutturale, seguito da un miagolare acuto, e poi dalla carezza di pelo soffice che mi si struscia sul polpaccio e mi s’insinua tra le gambe, facendomi quasi inciampare.

«Ciao, piccolo!» esclamo, abbassando lo sguardo su un musetto coi baffi neri e con un’aureola di pelo scuro, schiacciato come se qualcuno ci si fosse seduto sopra. «Tu devi essere De Havilland.»

Lui miagola di nuovo, svelando dentini bianchi e aguzzi, e la linguetta rosea.

Mi guardo intorno mentre il gatto fa le fusa come un pazzo, strofinandosi con forza contro le mie gambe: evidentemente è contento di vedermi. Sono in anticamera, e già da qui si capisce che Celia ha mantenuto anche all’interno lo stile anni ’30 del palazzo. Le piastrelle del pavimento sono a scacchi, bianche e nere, con un tappeto di cashmere al centro. Un tavolino laterale, nero e lucido, è accostato alla parete sotto un grande specchio Art Déco fiancheggiato da due applique cromate, di forma geometrica. Sopra sono appoggiati un’enorme coppa in porcellana bianca col bordo argentato e due vasi. Ogni dettaglio è raffinato, e di sobria bellezza.

Proprio come mi aspettavo. Con mio sommo fastidio, mio padre è sempre stato vago nel descrivere l’appartamento della sua madrina, visto durante i suoi rari soggiorni londinesi, ma avevo comunque avuto l’impressione che fosse un luogo chic quanto la padrona di casa. Da giovane, Celia aveva lavorato come modella, riscuotendo un notevole successo, ma in seguito ci aveva rinunciato per dedicarsi al giornalismo di moda. Il suo primo matrimonio era finito col divorzio, il secondo con la morte del marito. Non ha mai avuto figli, e forse per questo si è conservata tanto giovane e vitale, una presenza incostante nella vita di mio padre, con apparizioni e sparizioni altrettanto imprevedibili. A volte lui non la sentiva per anni e poi, senza preavviso, Celia – sempre elegantissima e all’ultima moda – gli piombava in casa carica di regali e lo soffocava di baci per farsi perdonare di averlo trascurato. Anch’io l’ho vista qualche volta, quand’ero ancora una ragazzina timida e impacciata, in pantaloncini e maglietta, coi ricci sparati da tutte le parti, e non riuscivo proprio a immaginare come si potesse diventare tanto impeccabili e sofisticate, con quei cortissimi capelli d’argento, gli abiti strepitosi e i magnifici gioielli.

Per la verità non riesco a immaginarlo neanche adesso. Nemmeno per un secondo.

Eppure eccomi qui, col suo appartamento a mia completa disposizione per cinque settimane.

La telefonata ci aveva colto di sorpresa. Io ero rimasta assorta nel mio libro, finché mio padre non aveva riagganciato, guardandomi con aria divertita. «Che ne diresti di una vacanza a Londra, Beth? Celia starà via per un po’ e le serve qualcuno che badi al gatto. Ha pensato che potrebbe farti piacere stare per un po’ a casa sua.»

«Io, a casa sua?» gli avevo fatto eco, alzando gli occhi dalla pagina.

«Sì. È in una zona piuttosto ’in’, se non ricordo male. Mayfair o Belgravia, qualcosa del genere. Non ci vado da anni.» Aveva scoccato un’occhiata a mia madre, inarcando le sopracciglia. «Celia va in ritiro nei boschi del Montana per cinque settimane. A quanto dice, le serve un periodo di rinnovamento spirituale. Potrebbe far bene anche a te.»

«Be’, certo si mantiene giovane», aveva replicato mia madre, passando lo strofinaccio sul tavolo della cucina. «A settantadue anni, sono poche le donne cui verrebbe in mente un’idea simile.» Si era raddrizzata, fissando il piano di legno appena pulito con aria malinconica. «In effetti sembra bellissimo. Non mi dispiacerebbe affatto andarci.»

La sua espressione tradiva il rimpianto delle occasioni non colte, delle vite non vissute. Mio padre sembrava sul punto di fare un commento sarcastico, ma si era trattenuto. Mia madre aveva rinunciato alla carriera per sposarlo, e poi per dedicarsi a me e ai miei fratelli. Aveva almeno diritto ai suoi sogni.

Mio padre si era voltato verso di me. «Allora, che ne pensi, Beth? T’interessa?»

Quando anche mia madre mi aveva guardato, gliel’avevo letto negli occhi: voleva che accettassi. Sapeva che era la cosa migliore, date le circostanze. «Dovresti farlo. È un’occasione per voltare pagina, dopo quanto è successo.»

Ero stata percorsa da un brivido. Non sopportavo di sentirne parlare. L’umiliazione mi aveva fatto avvampare. «Non dirlo», avevo mormorato, mentre le lacrime mi riempivano gli occhi. La ferita era ancora fresca, il dolore cocente.

I miei genitori si erano scambiati uno sguardo, poi mio padre aveva detto, quasi brusco: «Ha ragione tua madre. Ti farebbe bene cambiare aria».

Non uscivo di casa da più di un mese, per il timore di vederli insieme. Adam e Hannah. Il solo pensiero mi dava la nausea e mi faceva girare la testa, come se fossi sul punto di svenire.

«Forse», avevo detto, con un filo di voce. «Ci penserò.»

Per quella sera la faccenda era rimasta in sospeso. Facevo fatica ad alzarmi dal letto la mattina, figurarsi prendere una decisione di quella portata. Avevo perso ogni fiducia in me stessa: non sapevo nemmeno scegliere cosa mangiare a pranzo, come potevo pensare di valutare l’offerta di Celia? Dopotutto avevo scelto Adam, e guarda com’era finita. L’indomani, mia madre aveva telefonato a Celia per discutere di alcuni dettagli pratici, e più tardi l’avevo chiamata anch’io. Era bastato il suono della sua voce forte, piena di entusiasmo e convinzione, a farmi sentire meglio.

«Mi faresti un favore enorme, Beth», aveva detto. «Ma credo che sarebbe un bene anche per te. È ora di lasciarti alle spalle quel posto senza sbocchi, e fare nuove esperienze.»

Celia è una donna indipendente, ha sempre vissuto a modo suo e, se credeva che potessi farcela, allora senz’altro ci sarei riuscita. Così avevo accettato. E anche quando, con l’avvicinarsi della partenza, ero tornata ad avere dei dubbi e avevo cominciato a chiedermi se non ci fosse un modo per tirarmi indietro, ormai sentivo che dovevo farlo. Se fossi riuscita a fare le valigie e andarmene da sola in una delle città più grandi del mondo, forse si sarebbe stata ancora una speranza per me. Ho sempre adorato il paesino nel Norfolk dove sono cresciuta ma, se dovevo restarmene tappata in casa, incapace di affrontare gli altri a causa di quello che mi aveva fatto Adam, allora tanto valeva mollare tutto e uscire di scena. D’altra parte, cos’avevo da perdere? Un lavoro part-time in una caffetteria locale, lo stesso da quando avevo quindici anni, interrotto solo nel periodo dell’università e ripreso subito dopo, ancora incerta su cosa fare della mia vita. I miei genitori non mi trattenevano di certo. Non erano affatto contenti di vedermi rintanata in camera, col muso lungo. Per me sognavano ben altro.

In realtà ero tornata per Adam. Dopo la laurea, i miei compagni di università si preparavano a lunghi viaggi, ad accettare entusiasmanti offerte di lavoro, o a trasferirsi all’estero. Io li ascoltavo parlare delle avventure che li attendevano, sapendo che il mio futuro era a casa. Adam era il centro del mio universo, l’unico uomo che avessi mai amato, e desideravo solo stare con lui. Fin dai tempi della scuola, lui lavorava per l’impresa edile di suo padre, che un giorno sarebbe diventata sua, e non aveva altre ambizioni che passare il resto della vita nel posto dov’era nato. Io non ero altrettanto sicura che fosse la cosa giusta per me, ma lo amavo, e per lui ero disposta a chiudere in un cassetto il sogno di esplorare il mondo e fare nuove esperienze.

Adesso, però, non avevo scelta.

De Havilland miagola ai miei piedi, e mi mordicchia piano la caviglia, per ricordarmi la sua presenza.

«Scusami, micio», gli dico, e appoggio il bagaglio sul pavimento. «Hai fame?»

Lui mi resta incollato alle gambe mentre, alla ricerca della cucina, apro la porta di un ripostiglio e poi quella di un bagno. Finalmente trovo un cucinino lungo e stretto, con le ciotole del gatto ordinatamente allineate davanti alla finestra. De Havilland ha leccato fino all’ultima briciola, e adesso pretende la pappa. Sul tavolo da pranzo in legno chiaro, appoggiato alla parete, con lo spazio appena sufficiente per due persone, vedo qualche confezione di crocchette e un fascio di fogli. Su quello in cima, c’è un messaggio scritto in una calligrafia ampia e disordinata.



Ciao, tesoro!

Ce l’hai fatta. Brava. Queste sono le pappe di De Havilland. Mangia due volte al giorno, basta riempirgli la ciotolina di crocchette, come se servissi i salatini per un aperitivo. Beato lui. Bisogna anche cambiargli l’acqua. Per tutto il resto, trovi le istruzioni negli altri fogli, ma in realtà non ci sono regole, mia cara. Pensa solo a divertirti.

Ci vediamo tra cinque settimane.

xx C.



Gli altri fogli sono battuti a macchina, contengono informazioni dettagliate sulla sabbietta del gatto, sul funzionamento degli elettrodomestici e del boiler, sul contenuto della cassetta di pronto soccorso, e un elenco di persone da chiamare in caso di emergenza. Il portiere nell’atrio è il primo della lista. Il mio angelo custode, a quanto pare. Ehi, ho fatto una battuta! Sarà anche fiacca, ma forse è la prova che il viaggio sta già esercitando i suoi effetti benefici.

Il miagolio di De Havilland è diventato costante e stridulo, e gli vedo tremare la linguetta rosa mentre mi fissa con gli occhi giallo scuro.

«Eccoti servito», gli dico, versando le crocchette in una ciotolina e cambiando l’acqua nell’altra.

Mentre lui sgranocchia contento, io esploro il resto della casa: il magnifico bagno bianco e nero, con gli accessori cromati e in bachelite, e la splendida camera matrimoniale, col letto a baldacchino, coperto da una soffice trapunta e da un mucchio di candidi guanciali, e con l’elaborata carta da parati d’ispirazione orientale, con pappagalli variopinti che si guardano, appollaiati su rami di ciliegio. C’è un caminetto con uno specchio enorme, in una cornice d’argento, e un mobile da toilette, con uno specchio antico, davanti alla finestra, accanto a una poltrona rivestita in velluto viola, coi bottoni sullo schienale.

«Che meraviglia», esclamo ad alta voce. Forse, abitando qui, verrò contagiata dallo stile di Celia, e diventerò un po’ più elegante anch’io.

Percorrendo il corridoio verso il salotto, mi rendo conto che quella casa supera persino le mie aspettative. Avevo previsto di trovarmi in un luogo raffinato, adatto a una donna ricca e indipendente, ma questo posto è molto di più: non ho mai visto niente di simile. La sala è una stanza spaziosa e rilassante, dalle sfumature verde pallido e grigio pietra, con qualche tocco di nero, bianco e argento. L’ispirazione anni ’30 si rispecchia magnificamente anche nel mobilio: poltrone basse con ampi braccioli curvi, un lungo divano coperto di cuscini bianchi, una lampada da lettura cromata dalle linee essenziali, col sostegno ad arco, un sobrio tavolino laccato nero. La parete in fondo è dominata da una grande libreria bianca, incassata a muro e stipata di volumi e soprammobili, compresi pezzi unici in giada e statuine cinesi. La parete di fronte alla finestra, invece, è intonacata di un fresco verde pastello, intervallato a pannelli di lacca argentata, quasi a specchio, con delicate incisioni di salici. Tra i pannelli sono fissate applique in vetro opaco e smerigliato, e una gigantesca pelle di zebra, antica, copre il pavimento di parquet.

Resto incantata da quella raffinata evocazione di un’epoca di eleganza. Adoro ogni dettaglio, dai vasi di cristallo – che contengono calle dagli steli scuri e dalle corolle color avorio – alle teiere cinesi gemelle, giallo zenzero, poste ai lati del caminetto in lucida cromatura, con un’enorme tela moderna appesa sopra la mensola; avvicinandomi, leggo la firma di Patrick Heron, confermata dal tratto caratteristico, con pennellate di colori decisi – scarlatto, arancio bruciato, terra e vermiglione – che mettono in risalto un’oasi di bianco e di verde.

Mi guardo intorno, sgranando gli occhi. Non avevo idea che fosse possibile creare un ambiente del genere, così curato, così ricco di oggetti preziosi, per viverci ogni giorno. Casa mia è all’estremo opposto, comoda e accogliente, ma sempre in disordine, con mucchi di roba lasciata in giro, con la scusa di tenerla a portata di mano.

La finestra che occupa l’intera parete laterale attira la mia attenzione. Di solito, trovo che le veneziane siano démodé, ma qui s’intonano perfettamente all’atmosfera. A parte quelle, non ci sono altre tende, e la cosa mi sorprende, perché la finestra si affaccia su un altro condominio. Mi avvicino. Sì, l’edificio di fronte, alto come questo, è vicinissimo.

Che strano. Chissà perché non li hanno costruiti più distanti.

Guardo fuori, cercando di orientarmi. Poi comincio a capire. Ecco il motivo del nome, Randolph Gardens: l’edificio è a ferro di cavallo e racchiude un grande giardino, costellato di aiuole fiorite, piante e alberi nel loro splendore estivo. Ci sono vialetti di ghiaia, un campo da tennis, panchine e una fontana, oltre a un prato dove alcune persone siedono sull’erba, a godersi il tramonto. La disposizione dell’edificio, sui tre lati del giardino, ne offre la vista a quasi tutti i condomini, tranne a quelli che abitano negli appartamenti che si affacciano sulla strada sul lato più corto del ferro di cavallo, lato che è davvero corto: l’appartamento di Celia e quello di fronte sono talmente vicini che non ci passerebbe nemmeno una strada in mezzo.

Forse, per via di questo piccolo inconveniente, la casa di Celia costava meno, penso, guardando distrattamente la finestra di fronte. Ora mi spiego anche la scelta dei colori chiari e dei pannelli riflettenti alle pareti: da quella vetrata non deve entrare molta luce. Comunque, quello che conta è la posizione. E qui siamo pur sempre a Mayfair.

Il sole è tramontato, lasciando la sala in una penombra rilassante. Vado ad accendere una lampada, ma con la coda dell’occhio colgo un bagliore dorato che proviene dall’appartamento di fronte. Le luci accese lo fanno sembrare lo schermo di un cinema, o il palcoscenico di un teatro. Si vede tutto alla perfezione, e io mi fermo di colpo, col fiato sospeso. Nella sala di fronte a quella dove mi trovo c’è un uomo. Niente di strano, di per sé, se non fosse che lo sconosciuto indossa soltanto un paio di pantaloni scuri. Cammina avanti e indietro per il salotto, parlando al telefono, in una passerella involontaria che ne mette in mostra il fisico perfetto. Non riesco a distinguerne i lineamenti, ma si capisce subito che pure il viso è bellissimo, coi tratti simmetrici di una statua greca, con le sopracciglia decise, nere, come i capelli folti. Le spalle sono larghe, le braccia muscolose, i pettorali e gli addominali definiti, la pelle abbronzata come dopo una vacanza ai Tropici.

Comincio a sentirmi a disagio. Lo sconosciuto sa che posso vederlo, mentre si aggira mezzo nudo per casa? Le luci nel mio appartamento sono spente, dunque, no, non immagina che qualcuno lo stia spiando. Meglio così, almeno mi godo il panorama. È talmente bello da sembrare irreale. È come guardare un attore in televisione, una visione deliziosa da apprezzare a distanza. D’un tratto, mi scappa da ridere: Celia ha davvero tutto ciò che si potrebbe desiderare, compresa una vista mozzafiato.

Lui continua a passeggiare un altro po’, sempre al telefono, poi di colpo si volta, ed esce dalla mia visuale.

Forse è andato a vestirsi, penso, con una punta di delusione. Ora che l’uomo è sparito, mi decido ad accendere la lampada, che inonda la stanza di un morbido alone color albicocca. L’ambiente assume una nuova magia, coi riflessi che rimbalzano sui pannelli argentati, e danno ai soprammobili di giada una sfumatura rosata. De Havilland entra in salotto, a passi felpati, e balza sul divano, rivolgendomi uno sguardo speranzoso. Lo raggiungo e, non appena mi siedo, lui mi salta in grembo, facendo le fusa come un motorino. Gira un paio di volte su se stesso, poi si accuccia. Lo accarezzo, immergendo le dita nel suo pelo morbido, lasciandomi invadere dal suo calore rassicurante.

Ma non riesco a levarmi dalla testa l’uomo dell’appartamento di fronte. Era di una bellezza davvero inconsueta, quasi soprannaturale. Si muoveva con una grazia innata, e una sicurezza assoluta. Non c’era nessuno con lui, eppure non sembrava sentirsi solo. Forse al telefono parlava con la fidanzata. Oppure con qualcun altro, mentre lei lo aspettava in camera e, quand’è sparito, magari è andato a raggiungerla, si è spogliato e si è sdraiato al suo fianco, incollando la bocca alla sua. Lei ha aperto le braccia, attirando su di sé quel corpo perfetto, avvinghiandosi alla schiena ampia...

Smettila. Così non fai che peggiorare le cose.

Chino la testa. Il pensiero di Adam mi riempie la mente, e lo rivedo com’era una volta, con quel sorrisetto che riusciva a farmi sciogliere. Era stato proprio quello a conquistarmi, il suo sorriso un po’ obliquo, che gli faceva venire le fossette sulle guance, e gli accendeva l’allegria negli occhi azzurri. Ci eravamo innamorati durante l’estate dei miei sedici anni, nelle lunghe, oziose giornate di vacanza, liberi di dedicarci soltanto a noi stessi. Ci davamo appuntamento nel parco dell’abbazia abbandonata e passavamo ore e ore a gironzolare senza meta, a chiacchierare, e poi a baciarci. Non ci stancavamo mai l’uno dell’altra. Adam era ancora un adolescente ossuto, e i miei seni avevano cominciato da poco ad attirarsi le occhiate degli uomini. Un anno dopo, eravamo andati a letto insieme, la prima volta per entrambi, un’esperienza imbarazzante e insoddisfacente; nessuno dei due sapeva cosa fare, ma non aveva importanza, perché ci amavamo. Col tempo, eravamo migliorati e io non riuscivo nemmeno a immaginare di farlo con un altro. Solo Adam sapeva essere tanto tenero e dolce. Adoravo quando mi baciava, tenendomi stretta fra le sue braccia, e ripetendomi quanto mi amava. Gli altri non li vedevo nemmeno.

Non torturarti, Beth. Metti da parte i ricordi. Non permettergli di farti ancora del male.

Mi sforzo di non pensarci, ma non ci riesco. Continuo a rivivere quella sera terribile. Facevo la baby-sitter dai vicini, ed ero convinta che avrei lavorato almeno fino a mezzanotte, ma i padroni di casa erano tornati in anticipo, perché a lei era venuta un’emicrania. Erano appena le dieci, e di colpo mi ero ritrovata libera, e con in tasca il compenso per l’intera serata.

Farò una sorpresa a Adam, avevo pensato, elettrizzata. Pagando un affitto simbolico, lui si era sistemato nella stanza degli ospiti di suo fratello Jimmy. Quella sera Jimmy non c’era, e Adam avrebbe invitato qualche amico a bere una birra e a guardare un film. Era sembrato deluso che io non potessi esserci, quindi sarebbe stato entusiasta di vedermi arrivare senza preavviso.

Il ricordo è così vivido che provo ancora le stesse emozioni: la sorpresa di entrare nella casa e trovarla buia e vuota, chiedendomi dove siano spariti tutti. Il televisore è spento, non c’è nessuno stravaccato sul divano, a stappare lattine o a commentare il film. Mi rendo conto che la sorpresa sarà un fiasco. Forse Adam non si è sentito bene e se n’è andato a letto presto. Imbocco il corridoio per raggiungere la sua stanza; conosco la casa talmente bene che potrei girarla a occhi chiusi.

Abbasso la maniglia, e lo chiamo per nome, sottovoce, in caso si sia già addormentato. Se è così non lo disturberò, resterò a guardarlo solo per un momento, contemplando il volto che amo tanto, domandandomi cosa stia sognando; oppure gli darò un bacio sulla guancia, e mi rannicchierò al suo fianco...

Apro la porta. C’è una lampada accesa, quella che a Adam piace coprire con un foulard rosso quando facciamo l’amore, per immergerci in una luce soffusa... e in effetti vedo un bagliore scarlatto. Forse è ancora sveglio. Strizzo le palpebre nella penombra, e vedo qualcosa che si muove sotto la trapunta. Cosa diamine sta combinando là sotto?

«Adam?» lo chiamo di nuovo, alzando un po’ la voce.

Il movimento si ferma, poi la sagoma nel letto cambia posizione e abbassa la trapunta, rivelando...

Il ricordo mi mozza ancora il fiato, facendomi strizzare le palpebre nel tentativo inutile di cancellare quell’immagine dai miei occhi. È come un vecchio film che continuo a rivedere, mio malgrado. Ma questa volta spengo con decisione il proiettore mentale, sollevo De Havilland dalle mie ginocchia e lo deposito sul cuscino accanto. Ripensare a quella scena ha ancora il potere di mettermi fuori combattimento, di farmi piangere fino a ridurmi a uno straccio. Sono venuta qui apposta per dimenticare, e comincerò da adesso.

Mi brontola lo stomaco, e mi rendo conto che ho fame. Vado in cucina a cercare qualcosa da mangiare. Il frigorifero di Celia è pressoché vuoto, così preparo una lista della spesa, il mio primo impegno per l’indomani. Frugando negli armadietti, scovo un pacchetto di cracker e una scatoletta di sardine. Per ora, dovrò accontentarmi; in realtà, ho un tale appetito che mi sembrano buonissimi. Mentre lavo il piatto, sbadiglio. Guardo l’orologio: è ancora presto, nemmeno le nove, ma sono sfinita. È stata una giornata lunga; sembrano passati secoli da quando mi sono svegliata questa mattina.

Meglio andare a dormire. E poi non vedo l’ora di sperimentare quel letto fantastico. Non si può essere infelici sotto un baldacchino, tra lenzuola color avorio. Vado in sala a spegnere la luce, e ho già le dita sull’interruttore, quando mi accorgo che anche lo sconosciuto è tornato in salotto. Al posto dei pantaloni adesso porta un asciugamano legato in vita, e ha i capelli bagnati, pettinati all’indietro. È in piedi al centro della stanza, davanti alla finestra, e guarda dritto verso il mio appartamento. Anzi sta fissando proprio me. I nostri sguardi s’incrociano, anche se la distanza c’impedisce di decifrare l’espressione sui nostri volti.

D’istinto, spengo la lampada e la stanza sprofonda nell’oscurità. Lui non può più vedermi, ma il suo salotto è ancora illuminato, messo ulteriormente in risalto dal buio che mi circonda. Lo sconosciuto avanza verso la finestra e si sporge dal davanzale, cercando di distinguere qualcosa. Io sono come pietrificata, trattengo persino il respiro. Non so perché mi sembri tanto vitale non farmi vedere, ma l’impulso di nascondermi è più forte di me. Lui resta a scrutare ancora per qualche minuto, mentre io continuo a spiarlo, senza muovermi, ammirando ancora una volta l’addome scolpito e i bicipiti contratti.

Infine lui rinuncia e si gira. Io colgo l’attimo e scappo in corridoio, chiudendomi la porta alle spalle. Qui non ci sono finestre, sono invisibile. Faccio un lungo sospiro. «Ma cosa mi è preso?»

Il suono della mia voce mi rassicura. Mi viene da ridere.

«Okay, questa è l’ultima volta. Quel tizio mi prenderà per pazza se continua a sorprendermi appostata al buio, e a giocare alle belle statuine quando si accorge di me. Forza, a nanna.»

All’ultimo minuto, mi ricordo di De Havilland e riapro la porta del salotto, per non lasciarlo chiuso dentro. La sua lettiera è in cucina, così lascio aperta anche l’altra porta. Sto per spegnere la luce in corridoio, poi cambio idea.

Lo so, è infantile credere che basti una luce accesa a scacciare i mostri e a tenere lontani assassini e rapinatori, ma sono sola, in una casa che non conosco nel bel mezzo di una metropoli, quindi per stanotte preferisco crogiolarmi in questa illusione.

Nemmeno dopo trovo il coraggio di spegnere l’abat-jour, quando ormai sono nell’abbraccio del piumino di Celia, e con un sonno tale da non riuscire a tenere gli occhi aperti. Alla fine, e senza neanche rendermene conto, mi addormento nel suo alone soffuso.