«Mi scusi, sa dove si trova Lie Cester Square?»
«Prego?» rispondo, spaesata, battendo le palpebre nella nitida luce mattutina. Il cielo è terso, salvo un accenno di velatura all’orizzonte.
«Lie-Cester-Square», scandisce pazientemente la donna. Ha un accento americano, e indossa l’inconfondibile uniforme del turista: cappello e occhiali da sole, polo rossa, bermuda e scarpe da tennis, zainetto sulle spalle e guida tra le mani. Suo marito, in una tenuta quasi identica, resta muto alle sue spalle.
«Lie Cester?» le faccio eco io, perplessa. Ho lasciato Randolph Gardens per una passeggiata su Oxford Street, per godermi le vetrine e l’andirivieni di passanti in una delle principali vie commerciali della città, già affollata di primo mattino. Si stenta a credere che ci sia tanto movimento ad appena cinque minuti dal silenzioso appartamento di Celia. «Io... non ne sono sicura.»
«Guardi, è qui», insiste la donna, mostrandomi la cartina. «Voglio vedere la statua di Charlie Chaplin.»
«Oh, intende Leicester Square. Ma certo.»
«Lester?» storpia lei, sconcertata. Poi si gira verso il marito. «I londinesi lo pronunciano ’Lester’, tesoro. Non ci sarei mai arrivata.»
Sto per spiegarle che sono anch’io una turista, ma mi lusinga che mi credano londinese. Prendo la cartina. «Guardi, da qui potete arrivarci a piedi. Passate Oxford Circus, proseguite per Regent Street fino a Piccadilly Circus; poi svoltate a sinistra, andate avanti ancora un po’ e siete a Leicester Square.»
La donna mi rivolge un sorriso radioso. «Grazie, grazie mille, è stata davvero gentile. Ci eravamo un po’ persi. Londra è davvero caotica. Ma la adoriamo!»
Rispondo al sorriso. «Di nulla. E buone vacanze.»
Li guardo allontanarsi, sperando che riescano a trovare la piazza, e che la statua di Chaplin sia all’altezza delle loro aspettative. Forse dovrei andarci anch’io; magari merita un’occhiata.
Pesco la mia guida dalla borsa a tracolla e la sfoglio, ferma nella fiumana di pedoni. Sono circondata da negozi di marca e franchising – Gap, Disney, negozi di telefonia, boutique, occhiali firmati, gioiellerie –, e i marciapiedi sono ingombri di bancarelle di souvenir, valigie, cianfrusaglie e cibo: frutta, noci caramellate, waffles, bibite fresche.
Il mio programma per la mattinata prevede una visita alla Wallace Collection, un museo pubblico poco lontano, che vanta una straordinaria collezione d’arte e di mobili barocchi, poi pranzo, e il pomeriggio all’avventura. Provo un delizioso senso di libertà: ho davanti un’intera giornata e nessuno cui rendere conto. Potrò soddisfare ogni mio capriccio. Londra ha da offrire più di quanto non potrei mai cogliere, ma sono decisa a vedere tutte le attrazioni principali, soprattutto quelle in zona: la National Gallery, la National Portrait Gallery e il British Museum. Sono laureata in storia dell’arte, e il solo pensiero di tanti capolavori a un passo da casa mi fa venire l’acquolina in bocca.
Il sole splende e il cielo è azzurro. La calca della folla è impressionante, ma ha anche qualcosa di liberatorio. Nel paese dove abito, non posso mettere il naso fuori senza incrociare qualcuno che conosco. Proprio per questo era diventato tanto difficile uscire, sapendo che tutti parlavano di me e Adam, di quello che era successo. Senz’altro erano al corrente anche della nostra ultima, desolante conversazione, quando lui aveva confessato che la relazione con Hannah durava da mesi, fin da quand’ero all’università. Già allora la loro tresca doveva essere al centro dei pettegolezzi. E io ero tornata, ignara, ancora convinta di essere la sua anima gemella, l’unica donna al mondo per lui. Probabilmente mi ridevano tutti alle spalle, domandandosi quando mi sarei resa conto della verità, e come avrei reagito.
Be’, adesso lo sanno.
Qui, invece, nessuno sa niente. La mia umiliazione, il mio cuore spezzato, il tradimento dell’uomo che amavo non interessano a nessuno. Lungo la strada, vedo passare un grosso autobus rosso a due piani, e rammento a me stessa che sono a Londra, una delle capitali del mondo. La città è davanti a me, in attesa che io la esplori.
M’incammino, sentendomi più leggera di quanto non mi capitasse da settimane.
È tardo pomeriggio quando finalmente rientro a Randolph Gardens. La borsa della spesa è pesante, e il manico mi taglia le mani. Non desidero altro che bere qualcosa di fresco e togliermi le scarpe. Sono esausta, ma felice della giornata appena trascorsa. Sono riuscita a trovare la Wallace Collection, e ho passato una bellissima mattinata, a fare il pieno dei quadri e degli arredi rococò esposti nello splendido edificio in stile Reggenza: il tripudio di rosa e bianco dei Boucher, la gloria dei giardini da sogno di Fragonard, lo sfarzo dell’abito di Madame de Pompadour, sempre dipinta da Boucher. E poi statue, mobili e soprammobili, e infine la magnifica mostra di miniature.
Per pranzo, mi sono fermata in una caffetteria vicina – la fame che avevo mi ha aiutato a superare il fastidio di dover mangiare da sola – dopodiché mi sono lasciata guidare dal caso. Passeggiando, mi sono ritrovata a Regent’s Park, e ho occupato un paio d’ore percorrendo i sentieri nel verde del giardino all’inglese, con qualche laghetto, giostre per bambini e campi sportivi. Di colpo, ho sussultato. Era davvero un barrito d’elefante quello che sentivo? Ho alzato lo sguardo, e avvistato, in lontananza, il collo maculato di una giraffa. Sono scoppiata a ridere: ero arrivata nei pressi dello zoo. Al ritorno, mi sono imbattuta in una via molto elegante, con raffinate boutique e negozi di articoli per la casa, qualche sportello bancomat e un supermercato, dove ho potuto fare scorta di cibo e altri generi di prima necessità. Per raggiungere la casa di Celia ho dovuto consultare la cartina giusto un paio di volte, e quasi quasi comincio davvero a sentirmi londinese. La donna che mi aveva chiesto indicazioni stamattina non aveva idea che la città mi fosse sconosciuta quanto a lei, ma adesso sono un po’ più navigata, e già non vedo l’ora di scoprire cosa mi riservi l’escursione di domani. E la cosa migliore è che Adam non mi è mai venuto in mente. Be’, quasi. Ma, quand’è capitato, il pensiero di lui mi è sembrato lontanissimo, remoto e avulso dal mio presente, incapace di esercitare lo stesso potere.
«Buonasera, De Havilland», dico allegramente alla creaturina scura e ormai familiare che mi aspetta dietro la porta.
È entusiasta di vedermi, fa le fusa come un forsennato e mi si struscia addosso, incollandosi ai miei polpacci.
«Com’è andata la tua giornata? La mia è stata meravigliosa. E guarda un po’ cos’ho nella borsa. Ho fatto la spesa, stasera si cucina. Lo so, sei sorpreso. Scommetto che non ci contavi, ma per la verità non sono affatto male ai fornelli. Per cena avremo un ottimo salmone alla griglia, con contorno all’orientale, riso e verdure saltate, anche se di sicuro Celia non ha un wok, e dovremo arrangiarci con un tegame qualsiasi.»
Continuo a chiacchierare a ruota libera, contenta della compagnia di De Havilland e dello sguardo attento dei suoi occhi gialli. Certo, è solo un gatto, ma la sua presenza è comunque di conforto. Senza di lui, sarebbe più difficile.
Terminata la cena, riuscita alla perfezione anche in mancanza del wok, vado in salotto, domandandomi se l’uomo dell’appartamento di fronte farà un’apparizione, ma le sue luci sono spente.
Mi avvicino alla libreria, e passo in rassegna la biblioteca di Celia. Oltre a un vasto assortimento di romanzi, raccolte di poesia e saggi storici, trovo una splendida collezione di libri di moda. C’è di tutto, dalla storia delle maison più famose alle biografie degli stilisti ai grandi volumi illustrati. Ne scelgo un paio, mi siedo sul pavimento e comincio a sfogliarli, ammirando le foto. Una in particolare attira la mia attenzione. Risale agli anni ’60, e ritrae una giovane modella di straordinaria bellezza che mi fissa, con gli occhi resi felini dal tratto marcato della matita. Si sta mordendo il labbro, una posa che le dà un’aria di profonda vulnerabilità, in contrasto col trucco appariscente, con l’acconciatura impeccabile e col fantastico miniabito di pizzo.
Sfiorandole il volto con la punta delle dita, mi accorgo di conoscerla. Lancio un’occhiata ai ritratti disposti su un tavolino della sala. Sì, non c’è dubbio. La ragazza è Celia, agli esordi della sua carriera. Sfoglio in fretta il volume e trovo altri tre scatti, ciascuno con la stessa combinazione di delicatezza e classe. In un caso, i capelli scuri di Celia sono tagliati cortissimi, un look da monella che la fa davvero sembrare una bambina.
Che strano, penso, incuriosita. L’ho sempre pensata come una donna volitiva, eppure in queste foto sembra... non debole ma... fragile, direi. Come se avesse subito un colpo durissimo. Come se il mondo là fuori fosse cattivo, e lei fosse costretta ad affrontarlo da sola.
Eppure ce l’aveva fatta, no? Le foto in sala lo dimostrano: in quelle più recenti, la vulnerabilità diventa meno evidente. A trent’anni, radiosa e ridente, Celia appare decisamente più forte, sicura, meglio preparata a sfidare il mondo. A quarant’anni è sofisticata e consapevole; a cinquanta irradia un’aura di glamour e di esperienza, quando ancora non esistevano le iniezioni di Botox e collagene e, volente o nolente, la tua età ti si leggeva in faccia. E a lei dona molto la sua età.
Forse si è semplicemente resa conto che non si possono evitare i colpi della vita. Dipende tutto da come reagisci, e se riesci a rialzarti e ad andare avanti.
Uno squillo stridulo lacera il silenzio, facendomi balzare il cuore in gola. È soltanto il telefono, e vado a rispondere. Sono i miei genitori, ansiosi di sapere come sto e cos’ho combinato.
«Sto benissimo, mamma, sul serio. L’appartamento è stupendo e oggi ho passato una giornata perfetta. Non potrebbe andare meglio.»
«Hai mangiato?» domanda lei, preoccupata.
«Ma certo.»
«E hai abbastanza soldi?» interviene mio padre. Probabilmente sta usando il telefono del salotto, e mia madre quello della cucina.
«Giuro, papà, più di quanti me ne servano. Ho tutto sotto controllo.»
Una volta informati per filo e per segno del viaggio, della giornata, e dei piani per domani, e rassicurati che sono perfettamente al sicuro e in grado di badare a me stessa, riagganciano, e io mi ritrovo con un ronzio nelle orecchie, sprofondata in quello strano silenzio che cala quando s’interrompe una lunga e animata chiacchierata.
Mi alzo e raggiungo la finestra, sforzandomi di placare la solitudine che sento montarmi dentro. Sono contenta di aver parlato coi miei genitori ma, senza volerlo, mi hanno intristito di nuovo. È come se, a dispetto di ogni sforzo per emergere dalla palude nera in cui sono sprofondata dopo il tradimento di Adam, io riuscissi ad allontanarmi solo di qualche passo; basta la minima spintarella per rituffarmici dentro.
L’appartamento di fronte è ancora buio. Dov’è finito l’uomo di ieri sera? Mi rendo conto solo adesso che, tornando a casa, avevo sperato di vederlo; per la verità, il pensiero di lui mi è rimasto in un angolo della mente per tutto il giorno, senza mai affiorare del tutto alla coscienza. L’immagine del suo corpo seminudo, il suo modo di muoversi per la stanza, la luce nel suo sguardo quando mi ha fissato dritto negli occhi... ogni dettaglio mi è rimasto impresso a fuoco sulla retina.
Lo sconosciuto è diverso da qualunque uomo abbia mai incontrato, almeno nella vita reale.
Adam non è particolarmente alto e, sebbene gli abbia rafforzato i muscoli, il lavoro nell’impresa edile del padre li ha resi più tozzi che definiti. E, col passare del tempo, il suo fisico si è ulteriormente appesantito, forse per colpa della cattiva alimentazione, una dieta a base di fritti, salsicce e bacon a colazione. Senza contare che il suo passatempo preferito è tracannare birra e fare spuntini di mezzanotte a base di fish and chips. Quando, quella notte, si è girato verso di me, inorridito, il mio primo pensiero è stato: Quant’è ingrassato. La pelle biancastra del torace era molle, e la pancia pendeva sopra Hannah, altrettanto flaccida con le sue tette grosse e i fianchi larghi.
«Beth!» era trasalito, mentre la sua espressione passava da confusa a colpevole, poi a imbarazzata e, infine, incredibilmente, infastidita. «Che cazzo ci fai qui? Non dovevi badare ai figli dei vicini?»
Sotto di lui, Hannah era rimasta zitta ma, nei suoi occhi, la paura iniziale si era tramutata in una spavalderia crudele. Mi fissava come se non vedesse l’ora di aggredirmi. Era lei quella in torto, eppure era pronta a saltarmi alla gola. Rifiutando il ruolo della sfasciafamiglie, avrebbe addossato a me quello dell’idiota cocciuta che cerca d’intralciare un vero amore stile Romeo e Giulietta. Invece di vergognarsene, ostentava la sua nudità come una medaglia al valore. Sembrava dicesse: «Proprio così, stiamo scopando. Siamo pazzi l’uno dell’altra, non riusciamo a trattenerci. Sei tu quella di troppo».
Non domandatemi come abbia capito tutto questo in una manciata di secondi, ma è andata esattamente così. L’intuito femminile sarà anche un cliché, ma non significa che non ce l’abbiamo davvero. E, in quello stesso istante, mi ero resa conto che tutto ciò in cui avevo creduto fino a un minuto prima era morto e sepolto, e che quel dolore lancinante dentro di me era il mio cuore che andava in frantumi.
Alla fine avevo ritrovato la voce. «Perché? Perché?» avevo domandato, fissando Adam con uno sguardo implorante.
Mi sfugge un sospiro profondo. Nemmeno un’intera giornata in giro per Londra mi ha guarito dalla malattia che mi costringe a rivivere quella squallida scena. Riuscirò mai a dimenticarla? Quando finirà questo strazio? Perché, a dirla tutta, la depressione è spossante. Nessuno ci dice mai quante energie si sprechino, a essere tristi.
Guardo dalla finestra, ma quelle di fronte sono ancora buie. Il padrone di casa dev’essere uscito, a godersi la sua vita favolosa, piena di avventure eccitanti e di donne come lui: bellissime, sofisticate, e capricciose.
«Qui urge un gelato», decido all’improvviso. Volto le spalle alla finestra e mi rivolgo a De Havilland, raggomitolato sul divano. «Esco. Non aspettarmi alzato.» Poi afferro le chiavi e mi avventuro nella notte.
Una volta fuori, parte della sicurezza acquisita durante il giorno evapora, sgonfiandosi come un palloncino forato.
Alti palazzi incombono intorno a me. Non ho idea di dove mi trovo, né di dove andare. Scendendo nell’atrio, avevo contato di chiedere indicazioni al custode, ma ho trovato il bancone deserto, così mi sono diretta verso le strade principali. I negozi sono chiusi, le serrande abbassate e sprangate. E comunque le insegne promettono tappeti orientali, porcellane, candelieri o abiti firmati. Dove lo trovo, un gelato? Cammino a casaccio nella tiepida sera d’estate, sforzandomi di ricordare da quale direzione sono arrivata. Supero bar e ristoranti di un lusso a me sconosciuto, tutti piantonati da uomini imponenti, con indosso completi scuri e l’auricolare infilato nell’orecchio. Sui marciapiedi, in spazi delimitati dalle piante in vaso, gli avventori si attardano ai tavolini all’aperto. Trasudano ricchezza, fumando e bevendo champagne, senza degnare di uno sguardo le deliziose pietanze che hanno davanti.
Comincio davvero a sentirmi fuori posto. Cosa ci faccio qui? Come ho potuto pensare di sopravvivere in un mondo simile? Dovevo essere impazzita. Io non appartengo a questo ambiente, e non vi apparterrò mai. Mi viene da piangere.
Poi vedo un’insegna luminosa e, invasa da un sollievo enorme, corro a raggiungerla. Pochi minuti dopo, esco dal negozietto con una vaschetta di gelato costosissima. Mi sento già meglio. Adesso non resta che ritrovare la strada di casa.
Mi viene in mente che nell’appartamento di Celia non ho notato né televisori né computer. In valigia ho il mio vecchio portatile, ma chissà se in casa c’è la connessione Internet. Probabilmente no. Dubito di riuscire a godermi davvero il gelato senza un film, ma in fondo non è tanto grave. Il sapore sarà lo stesso, no?
Svolto l’angolo di Randolph Gardens, e non so come finisco quasi a sbattere contro un tizio. Forse camminava davanti a me e si è fermato di colpo, mentre io ho proseguito con lo sguardo fisso a terra, fino a trovarmi quasi col naso premuto sulla sua schiena.
«Oh!» Arretro di un passo, ma perdo l’equilibrio, e scivolo giù dal marciapiedi. Il sacchetto con dentro il gelato mi sfugge di mano e rotola via, arrestandosi sopra un tombino lurido, intasato d’immondizia e foglie secche.
«Mi scusi», dice lui, e si volta.
È l’uomo della casa di fronte.
«Tutto bene?»
Mi sento arrossire fino alle orecchie. «Sì», rispondo, senza fiato. «È stata colpa mia. Davvero. Non guardo mai dove vado.»
Da vicino è di una bellezza folgorante, non riesco quasi a guardarlo in faccia, e mi concentro sul taglio impeccabile del suo completo scuro, e sul mazzo di peonie bianche che tiene in mano. Strano, penso. Proprio i miei fiori preferiti.
«Mi permetta di recuperarle la borsa.» Ha una voce profonda, pacata, e un’inflessione sofisticata.
«No, non si disturbi. Ci penso io», dico, avvampando ancora di più, mentre lui si china sul tombino.
Tendiamo il braccio in sincrono, e la sua mano calda e forte si appoggia sulla mia. Io la ritraggo bruscamente, e mi sbilancio in avanti, rischiando di finire nel canale di scolo. Ma, con perfetto tempismo, lui mi afferra il braccio, impedendomi di atterrare di faccia.
«Si sente bene?» domanda, mentre io mi sforzo di ritrovare l’equilibrio. Non ha lasciato la presa, e io mi sento morire per l’imbarazzo.
«S-sì... grazie...» farfuglio, consapevole solo delle dita d’acciaio che mi reggono in piedi. «Sto bene.»
Lui mi lascia andare e io mi sporgo a prendere il sacchetto, che si è aperto, rivelando il gelato. Le foglie si sono incollate al cellophane e, passandomi la mano sul viso, lo sento coperto di polvere. Devo essere conciata da buttare.
«Proprio la serata giusta per un gelato», commenta lui, sorridendo.
Timidamente, alzo lo sguardo. Mi prende in giro? D’altronde io sono soltanto una ragazzetta qualsiasi, inciampata sul marciapiedi, con la faccia sporca e il gelato stretto fra le braccia, come il trofeo di un bambino. Lui viene da un altro pianeta. Gli occhi sono scurissimi, quasi neri, ma sono soprattutto le sopracciglia a colpirmi: decise, nere e arcuate, danno alla sua espressione un che di diabolico. Il naso è dritto, con una piccola gobbetta al centro che, stranamente, ne mette ancora di più in risalto la perfezione. Le labbra sono carnose, sensuali, e sollevate nel sorriso svelano denti candidi e impeccabili.
Il mio unico pensiero è: Wow. Riesco a rispondere solo con un cenno. Sono rimasta senza parole.
«Be’, buona serata, dunque. E buon gelato.» Si volta, imbocca rapido i gradini del palazzo e sparisce dietro il portone.
Io resto immobile, coi piedi nell’immondizia, a guardarlo allontanarsi. Inspiro profondamente, riempiendomi i polmoni. Sotto il suo sguardo, avevo trattenuto il fiato. Ancora adesso non riesco a scrollarmi di dosso una stranissima sensazione di vertigine. Sono confusa, disorientata.
Lentamente, raggiungo la porta e salgo in ascensore fino all’appartamento di Celia. Vado subito in salotto. Adesso le luci della casa di fronte sono accese. Prendo un cucchiaio dalla cucina, torno in sala e avvicino una poltrona alla finestra, pur rimanendo un po’ defilata, in modo da guardare senza essere vista. Apro la vaschetta di gelato e resto a osservare lo sconosciuto. Si è tolto giacca e cravatta e adesso indossa solo la camicia azzurra, che mette in risalto le spalle larghe, e i pantaloni scuri, che sembrano fatti su misura per i suoi fianchi stretti e virili. Ha una sensualità innata; sembra pronto per un servizio di moda. Nella stanza, noto un tavolo da pranzo e delle sedie. In effetti, se tutti gli appartamenti hanno la stessa planimetria, anche la sua cucina dev’essere piuttosto piccola e, se Celia se ne infischia, accontentandosi di un tavolino per due, lui evidentemente pretende una sistemazione più civile.
Chissà se sa cucinare, mi domando. E chi è? Che lavoro fa? Devo trovargli un nome. Pensare a lui come allo «sconosciuto» non mi pare adeguato. Dunque come posso chiamarlo? Mr Qualcosa, ovviamente, visto che non siamo stati presentati, e il nome di battesimo è troppo intimo. E poi mi sentirei stupida a battezzarlo Sebastian o Theodore, solo per scoprire che in realtà si chiama Reg, o Norm. No, mi serve una soluzione più evocativa e flessibile, che possa abbracciare tutte le possibilità...
Mr R.
Sì, lo chiamerò così. Mr R.
L’iniziale di Randolph Gardens. Mi sembra calzante.
Mr R sparisce in cucina e torna poco dopo con due bicchieri e un cestello di ghiaccio, da cui spunta il collo di una bottiglia avvolto da una promettente stagnola dorata... dunque aspetta visite. Non mi pare probabile che entrambi i calici siano per lui, ma non vedo più traccia del mazzo di fiori. Mi metto comoda, a gambe incrociate, come una bambina, e sollevo il coperchio della vaschetta. Prendo un cucchiaio di gelato e lo succhio lentamente, lasciandolo sciogliersi sulla lingua, assaporando la consistenza fredda e dolce che mi scende nella gola. Vaniglia, il mio gusto preferito.
Mr R sparisce di nuovo e questa volta l’assenza si protrae. Ho già finito un quarto di vaschetta, e De Havilland si è addormentato sulle mie gambe mentre mi faceva le fusa. Al ritorno, Mr R si è fatto la doccia, e si è cambiato; ora indossa un paio di comodi pantaloni di lino e una T-shirt blu. Manco a dirlo, sta da dio... ma non è più solo.
Quando la vedo provo una fitta al cuore, e poi me ne rimprovero subito. Che ti prende, non gli è permesso di avere una fidanzata? Nemmeno ti conosce! Due sere a guardarlo dalla finestra, e già sei gelosa?
Mi scappa quasi da ridere per quanto sono assurda, ma allo stesso tempo la strana intimità di poterlo osservare così, in casa sua, mi dà l’impressione che esista un legame tra noi. È solo frutto della mia immaginazione, naturalmente, eppure non riesco a togliermi dalla testa quest’idea. Mi sporgo per guardare meglio la fidanzata.
È proprio come pensavo. Come ho fatto a credere anche solo per un momento di poter competere con una ragazza simile?
Ragazza? Quella è una donna, una di quelle che mi fanno sentire una bambina maldestra e scombinata. È alta e magra, e indossa con disinvoltura un elegante tailleur pantalone di lino chiaro, con sotto una T-shirt bianca. Porta i capelli tagliati in un caschetto ondulato, e un rossetto di classe, per nulla appariscente. Col fisico sottile e con l’andatura decisa, pare appena uscita dalle pagine di Vogue. Una donna così non si farebbe mai sorprendere con gli abiti stropicciati, gli aloni di sudore, o una scialba coda di cavallo. Non inciamperebbe mai sul marciapiedi, né s’imbratterebbe la faccia di polvere.
Lei sì che merita un mazzo di peonie bianche e flûte di champagne in un appartamento di Mayfair. Non si ridurrebbe mai a mangiare un gelato con la sola compagnia di un gatto, perché il suo fidanzato l’ha lasciata per un’altra.
Basta il pensiero di Hannah – oddio, non riuscirò mai a dimenticarla, nuda in quel letto, coi capezzoli scuri in bella mostra, la pancia umida di sudore –, perché il gelato mi vada in acido nella bocca. Mi chino ad appoggiare la vaschetta sul pavimento, disturbando De Havilland, che stira le zampe, premendo appena gli artigli sulla mia coscia nuda, tanto per avvertirmi di stare ferma.
«Ahia, dispettoso», lo rimprovero, ma con dolcezza. La puntura leggera delle sue unghie non è sgradevole, e in un certo senso mi ha richiamato al presente. «Ho capito, ti chiedo scusa. Prometto di non farlo più. Adesso mettiti tranquillo e lasciami guardare.»
Mr R prende la bottiglia dal cestello. La donna solleva le flûte e scoppia a ridere, e dice qualcosa mentre Mr R strappa la stagnola e comincia a svitare la gabbietta di metallo sopra il tappo. Ride anche lui. A quanto pare, lei è spiritosa e intelligente, oltre che bellissima e di classe. Perché le fate madrine ricoprono di talenti e benedizioni solo certe persone? Non è giusto.
È strano guardarli senza riuscire a sentirli. È come un film muto, e provo quasi l’istinto di cercare un telecomando per alzare il volume.
Il tappo salta in silenzio, e un piccolo getto bianco esce dalla bottiglia. Lei tende i bicchieri, e Mr R aspetta che la schiuma si depositi, poi versa il liquido dorato. Appoggia la bottiglia, prende una flûte, poi entrambi li sollevano prima di bere un sorso. Seguo i loro gesti con una concentrazione tale che mi sembra di avvertire le bollicine sulla lingua. A cos’hanno brindato? Cosa festeggiano?
Immagino di sentire le parole di Mr R: «A te, mia cara».
Scommetto che lei ha provato un brivido al suono della sua voce, così intima e sexy. Vorrei tanto intrufolarmi nel loro mondo, al punto che devo trattenermi per non correre a raggiungerli. Sembrano così sereni, felici, adulti. Li guardo parlare mentre sorseggiano lo champagne, quindi si spostano sul divano, a conversare un altro po’. Mr R esce dalla stanza, lasciando sola la donna. Lei si appoggia allo schienale e risponde al cellulare. Di colpo, la sua espressione cambia. Diventa dura, crudele e arrogante. Le sue labbra si muovono in fretta, e sono certa che abbia alzato la voce. Dopo un rapido botta e risposta, chiude la comunicazione con un deciso tocco sul touchscreen e uno scatto fiero della testa.
Mr R fa ritorno con due piatti. Senz’altro deve avere sentito la conversazione, eppure il loro atteggiamento non è mutato, continuano a sorridersi. Lei si alza dal divano e si avvicina al tavolo, lui esce di nuovo e torna con altri piatti. Non riesco a distinguere cosa contengano, ma sembrano le ultime portate. I due si accomodano a tavola, e io provo un desiderio struggente di sedermi con loro, di fare parte del loro mondo, tanto più raffinato ed eccitante del mio banale tran tran quotidiano.
Scende il crepuscolo, e nel buio la stanza davanti a me diventa ancora più nitida e luminosa. Poi Mr R si alza e si avvicina alla finestra, guardando fuori. Io trattengo il respiro. I suoi occhi puntano dritti su di me, deve avermi visto...
Come reagirà?
Di colpo, la sua immagine sparisce. Ha abbassato una veneziana bianca, piano ma con decisione, escludendomi senz’appello.
Riprendo a respirare, ma mi sento orfana. Loro non ci sono più. Non sono stata io a spegnere lo schermo, mi hanno tagliato fuori. Dietro la veneziana, la loro vita da sogno continua, senza di me.
È pazzesco quanto mi senta sola. Accarezzo De Havilland, cercando conforto nel suo tepore, nel sonno profondo in cui è caduto. Ma ho solo voglia di piangere.