Elena è stata rapita da Paride ed è trattenuta dietro le mura di Troia. Il conflitto è ineluttabile.
I soldati cercano di evitare lo scontro con un duello tra i due diretti interessati: Paride e Menelao, l’amante e il marito. Ma gli dei, sulle cime dell’Olimpo, giocano con la sorte degli uomini come giocherebbero a dadi. Preoccupati che gli umani riescano a scongiurare la guerra, decidono di dar fuoco alla miccia.
Zeus è in una posizione a dir poco delicata. Deve compiacere Era che, umiliata da Paride, brama la rovina di Troia, e al tempo stesso deve soddisfare Teti, che lo aveva soccorso in tempi lontanissimi e il cui figlio, Achille, beffato da Agamennone, brucia per la vittoria dei Troiani. Atena, dal canto suo, sostiene gli Achei. Apollo è al fianco dei Troiani. Quella di Zeus, insomma, è una specie di partita a domino.
Gli dei hanno sempre eccelso nel pilotare, a nostre spese, il «grande gioco» dello scacchiere mondiale. Le complesse macchinazioni di Zeus ricordano un po’ quel che accade oggi in Medio Oriente, dove le potenze mondiali muovono le loro pedine come se fossero torce infuocate sul coperchio di un barile pieno di polvere da sparo.
Il padre degli dei, quindi, vuole la guerra degli uomini per avere la pace sull’Olimpo.
Nei primi canti dell’Iliade Omero ci illustra questa verità, che tornerà ancora nel poema: è più facile regnare sugli uomini se sono lacerati da conflitti interni. Le nostre sciagure rappresentano una vittoria per gli dei.
Gli dei spezzano il patto tra gli uomini. Zeus invia Atena per «ravvivare» la guerra.
Va’ in tutta fretta al campo, fra Troiani ed Achei,
a provvedere che primi i Troiani comincino
a danneggiare gli Achei gloriosi, in deroga ai patti.
(Iliade, IV, 70-72)
La battaglia ha inizio. I canti che seguono sono tutti clangore e furore: Sturm und Drang, «tempesta e impeto», avrebbero detto i romantici tedeschi. Tempesta per gli uomini, impeto per gli dei dell’Olimpo. Ma Omero ha ancora un quadro da dipingere: l’addio di Ettore ad Andromaca. Il guerriero si scioglie dall’abbraccio della donna ed è posto di fronte all’antica, ben nota, questione: è giusto sacrificare la felicità di una vita placida sull’altare della gloria?
Ma allora, su, abbi pietà e resta qui sulla torre,
non rendere orfano il figlio, non fare della tua donna una vedova;
schiera l’esercito al fico selvatico, dove è più facile
penetrare nella città e superare le mura.
(Iliade, VI, 431-434)
Ettore non ascolterà la supplica:
Penso che nessun uomo sia sfuggito alla sorte,
né un vile né un valoroso, una volta venuto alla luce.
(Iliade, VI, 488-489)
Si precipiterà, così, verso l’ineluttabile, nella sua armatura splendente, riflesso delle glorie a venire.