Il verbo trionferà?

Omero interrompe i combattimenti.

Ulisse, Fenice e Aiace si recano in delegazione da Achille. Il poeta modulerà, con la propria arpa, le sfumature della persuasione. Lo scopo è esortare il guerriero offeso a rientrare in battaglia: in sua assenza gli Achei subiscono perdite e sconfitte. Il suo ritorno potrebbe rovesciarne le sorti.

Ulisse utilizza un’arma politica, assicurando ad Achille che Agamennone lo coprirà di tesori se cesserà dall’ira. Fenice gli fa un toccante discorso, supplicandolo di desistere dalla sua posizione. Ma Achille non cede. Aiace punta sul suo orgoglio di soldato, gli ricorda che l’esercito lo ama e che ha bisogno di lui. Questo argomento lo tocca. Non tornerà in battaglia, ma accetterà di non lasciare le sponde troiane, promettendo di battersi se le navi saranno minacciate o se Ettore oserà avvicinarsi.

La rabbia di Achille è stata talora interpretata come espressione di un narcisismo patologico, ma questo solo perché siamo ormai così calcolatori da non riuscire a concepire come le ferite inferte all’orgoglio possano essere ben più gravi di quelle fisiche.

La guerra riprende, tra colpi di lancia e ampi mulinelli. Lacrime e sangue scorrono a fiotti. Le pupille si velano, le armi si abbattono sui corpi (risonarono, dice Omero), i soldati cadono. È un massacro.

Agamennone viene ferito, così pure Ulisse e infine Diomede. Gli Achei accusano il colpo. I Troiani avanzano fino ai piedi del muro acheo, sorto contro il volere dei numi, ricorda Omero. Ancora una volta, l’Iliade ci mostra quale sia il prezzo da pagare per aver disobbedito agli dei e oltrepassato i limiti.

Dappertutto le torri e i parapetti erano intrisi

di sangue umano, sia dai Troiani che dagli Achei.

Ma neppure così riuscivano a provocare la rotta degli Achei,

ma resistevano come tiene la bilancia un’onesta lavoratrice,

che solleva da una parte e dall’altra mettendo il peso e la lana

in eguale misura, per guadagnare misera paga ai propri figli:

così per loro alla pari era sospesa la battaglia e la guerra,

finché Zeus non dette gloria maggiore ad Ettore

figlio di Priamo, che fu il primo a saltare sul muro degli Achei.

(Iliade, XII, 430-438)

Capiamo bene questi versi: gli dei «giocano» con noi e, se giudicheranno la sorte tendenziosa, avvantaggeranno un altro campione. Omero distilla spesso questa idea: gli uomini rappresentano la «variabile di aggiustamento» nei maneggi degli dei. In sostanza, noi disponiamo della nostra vita, gli dei dispongono di noi.

Omero esplora tutti i possibili rovesciamenti strategici. Nel canto XIV la tecnica rasenta il ridicolo. È il suo genio: la fantasia non si inaridisce mai, nemmeno quando si trova a descrivere una situazione ripetuta più volte. In questo caso, si tratta di un nuovo ribaltamento tattico nella controffensiva achea.

Era decide di raggirare Zeus con l’aiuto di Afrodite. Ecco dunque le dee del cielo e della Terra che si scambiano gli abiti ed Era intenta a sedurre Zeus, per distrarlo, e lui che cade nella trappola (una dolce voglia mi strugge). La scena d’amore è umana, troppo umana.

Dopo l’amplesso Zeus, complice il dio del sonno, si addormenta e la dea manda Posidone in aiuto agli Achei, per concedere loro una breve tregua nell’assalto troiano.

Furioso per essere stato raggirato, Zeus ristabilirà i rapporti di forza orchestrando lo sfondamento delle loro linee. Questo continuo avanzare e indietreggiare delle truppe ricorda le offensive della Grande Guerra descritte da Jünger, Barbusse o Genevoix, in cui gli eserciti sacrificavano mesi, e migliaia di uomini, per conquistare qualche palmo di terra fangosa. La differenza? I soldati della Prima guerra mondiale non indossavano armature di bronzo ed elmi scintillanti. Ma è possibile che degli dei nefasti stessero ancora «giocando» sopra i campi di battaglia.