Vi ricordate quando, da adolescenti, ci obbligavano a leggere questi testi antichi? I poemi omerici erano parte del programma sui banchi di scuola. A quell’età, però, a noi piaceva correre all’aperto. Durante le lezioni ci annoiavamo e passavamo il tempo a guardare fuori dalla finestra, fissando un cielo nel quale il Carro non appariva mai. Perché non eravamo capaci di lasciarci travolgere da quei poemi dorati, eterni proprio perché primigeni, da quel canto potente e fragoroso, carico di insegnamenti e di una bellezza così dolorosa che ancora oggi ci commuove nel profondo?
Un consiglio dadaista: abbandoniamo le nostre futili preoccupazioni! Rimandiamo a domani i piatti da lavare, spegniamo computer e cellulari, lasciamo piangere i bambini e apriamo senza indugio l’Iliade e l’Odissea per leggerne qualche passaggio ad alta voce, seduti di fronte al mare, davanti a una finestra, in cima a una montagna. Lasciamo entrare in noi i loro canti sublimi e sovrumani: ci aiuteranno a diradare la nebbia del nostro tempo.
Secoli orribili si annunciano. Tra non molto, i droni sorveglieranno un cielo saturo di biossido, sistemi automatizzati controlleranno le nostre identità biometriche e sarà proibito rivendicare una propria specificità culturale. Dieci miliardi di esseri umani connessi gli uni agli altri potranno spiarsi a vicenda in ogni momento. Lucrando sulla chirurgia genetica, le multinazionali del settore ci offriranno la possibilità di vivere qualche decennio in più.
Omero, vecchio compagno dell’oggi, può scacciare questo incubo postumanista. Ci mostra una possibile condotta: quella di un uomo che si muove in una realtà mutevole e non «aumentata», anzi su un pianeta rimpicciolito.