Prendere il mare

Gli dei sono di nuovo in assemblea e Hermes viene spedito da Calipso per ingiungerle di liberare Ulisse.

Umiliata, la ninfa obbedisce al volere di Zeus, concedendosi soltanto una blanda protesta sulla sorte avversa ai grandi amori:

Crudeli voi siete, o dei, e invidiosi senza pari,

voi che vi indignate con le dee se giacciono con gli uomini

manifestamente, quando qualcuna si procura un caro compagno.

(Odissea, V, 118-120)

Ulisse è affrancato dalla peggiore minaccia che possa turbare la vita di un uomo dopo l’oblio del proprio nome: l’oblio delle proprie gesta. E ora piange la patria perduta.

La dolcezza del vivere si dissolveva nel pianto

per il ritorno.

(Odissea, V, 152-153)

Alla base del pensiero greco in generale, e dell’insegnamento omerico in particolare, c’è l’assunto che tutte le sventure dell’uomo vengano dal non essere al proprio posto e che il senso della vita consista nel ristabilire lì dove dev’essere ciò che ne è stato esiliato.

Sollazzarsi voluttuosamente con una ninfa divina tra le dee non è di consolazione se si è stati cacciati dalla propria terra natale.

Vengono in mente le parole di Karen Blixen in La mia Africa: «Eccomi qui, è questo il mio posto».

L’Odissea è il poema del ritorno a sé, in sé e alla patria.

Perché gli dei hanno accettato di liberare Ulisse con il rischio di scatenare l’ira di Posidone? Perché Ulisse appare loro il più intelligente, il più scaltro e il più generoso tra gli uomini. Perché sono stanchi del caos generato dagli usurpatori che ne stanno dilapidando i beni. Le devastazioni della guerra di Troia appartengono alla storia. Adesso, dopo tutta la follia scatenata dal conflitto, l’Olimpo aspira alla pace.

Ulisse parte e noi assistiamo al naufragio, la prima di una lunga serie di catastrofi.

L’eroe approda sull’isola dei Feaci, popolo di navigatori che si incaricano di assicurare il collegamento tra uomini e dei. Vivono sereni, in una sorta di limbo. Atena manovra gli eventi per aiutare il naufrago Ulisse. La dea glaucopide, «dagli occhi di civetta», trama così l’incontro con Nausicaa, figlia del re dei Feaci, Alcinoo. Ulisse si nasconde tra i cespugli, mezzo nudo; getta lo scompiglio tra le ancelle, che si disperdono, ma seduce Nausicaa pronunciando un bel discorso. Le parole seducono, ci ricorda Omero. Così come un discorso poteva rovesciare le sorti di un combattimento sotto le mura di Troia, la parola salva Ulisse dopo il naufragio.

L’eroe viene condotto al palazzo del re, che gli promette aiuto. Avrà in prestito un’imbarcazione e supporto per il ritorno. Senza sapere chi sia, Alcinoo dà ordine di preparare per il suo ospite una nave e un banchetto. Così si accoglievano i rifugiati del Mediterraneo nel mondo antico.

Durante il banchetto, l’aedo canta della contesa tra Achille e Ulisse. L’episodio non è raccontato nell’Iliade, ma costituisce un passaggio cruciale dell’Odissea, poiché Ulisse, ascoltandolo, capisce di essere entrato nella Storia. La memoria gli concede la sua parte di eternità. Ulisse, che era stato a un passo dal perdere tutto sull’isola di Calipso, ha finalmente la certezza di non cadere nel dimenticatoio del tempo.

Il menestrello passa a raccontare l’episodio del cavallo di Troia. Ulisse, ideatore di quello stratagemma (dettaglio non menzionato nell’Iliade), non riesce a trattenere le lacrime e tradisce così la propria identità. Omero ci propone una chiave di lettura sconvolgente: noi siamo figli dei nostri dolori. Abbiamo visto Ulisse in lacrime sull’isola di Calipso, poi quando decide di rivelarsi e lo ritroveremo piangente nel grembo di Penelope.

Omero ci suggerisce che la vita non è fatta di gioie, ma al contrario è una lotta continua, della quale sta per renderci testimonianza. L’uomo deve conquistarsi ogni cosa, nulla gli è dovuto.

Smascherato, Ulisse si rivela al re dei Feaci:

Ulisse io sono, figlio di Laerte, che per ogni sorta di inganni

sono ben noto tra gli uomini e la mia fama va su fino al cielo.

La mia patria è Itaca.

(Odissea, IX, 19-21)

Il nostro eroe ha declinato il proprio nome, il nome del padre, la sua patria. Un modo antico di identificarsi: chi si è, da dove si viene, dove si va.

Presentandosi in questo modo celebra la trilogia dell’origine, della genealogia e della gloria (Ulisse è ben noto tra gli uomini per le sue astuzie), nella quale si articolano tempo, spazio e azione.

Su richiesta di Alcinoo, Ulisse comincia il racconto della sua «odissea» da Troia fino alla grotta di Calipso. In questo frangente del poema, Omero inventa la letteratura: l’arte di raccontare qualcosa che è già successo e che sopravviverà nella memoria.

La narrazione prosegue fino al canto XIII. Inizia con queste parole:

Da Ilio il vento mi portò via e mi spinse fino ai Ciconi,

a Ismaro, e io la città distrussi e uccisi gli uomini.

(Odissea, IX, 39-40)

Il vento, che per i navigatori rappresenta il fato, trascina l’eroe di Itaca presso un popolo sconosciuto. Ulisse è ancora animato dall’energia devastatrice della guerra. Distrugge e uccide, secondo le sue stesse parole. È ancora traboccante di hybris? Arriverà il momento in cui la tracotanza si placherà, poiché l’Odissea cela in sé la magia della metamorfosi.