Seguire la linea della vita

Per prime, le Sirene. La loro ambizione è privare l’uomo della propria volontà, di ogni scopo, deviarne la «linea della vita».

Il loro abominio non è di natura violenta. Peggio: le Sirene conoscono nel dettaglio la vita di tutti gli uomini. Ci spiano, prefigurazione dell’incubo in cui oggi navighiamo consenzienti, affidando i «contenuti» delle nostre esistenze ai dispositivi elettronici di cui ormai non sappiamo più fare a meno.

Noi sappiamo tutto ciò che avviene sulla terra nutrice di genti

(Odissea, XII, 191)

mormorano le Sirene. Nell’Odissea sono uccelli, non creature acquatiche, come una tradizione erronea ha poi diffuso. Ci attaccano dal cielo, proprio come i satelliti che volano sopra le nostre teste.

Ulisse resiste all’incantesimo facendosi legare all’albero della nave.

È poi il momento di Scilla e Cariddi, che privano l’equipaggio di sei marinai. Omero ha fornito rappresentazioni terrificanti della tempesta: per lui, come abbiamo visto, il mare era luogo di pericolo assoluto. Chiunque si sia trovato su una nave in balia di un vento di burrasca non troverà strano che un poeta attribuisca alla furia dei mari l’aspetto di un’idra.

Nell’ultimo episodio raccontato alla corte dei Feaci, Omero coglie un’altra occasione per descrivere l’incapacità degli uomini di comportarsi con misura.

L’equipaggio sbarca sull’isola del Sole, culmine della geografia sacra, territorio dell’onnipotente Helios. Simbolicamente potremmo vederci la metafora della nostra Terra, governata dal sole, fecondata di fotoni. Circe ha avvisato l’eroe di evitare l’isola che allieta i mortali e lui lo ha riferito ai suoi marinai. Eppure, non solo gli uomini dell’equipaggio approdano sull’isola, ma trasgrediscono al giuramento fatto al loro capitano sacrificando le vacche del dio Sole per placare la fame. Ancora una volta, dunque, gli umani si sono rivelati inaffidabili. Eppure Tiresia aveva detto a Ulisse che esisteva un modo per sfuggire a Helios:

Se tu le lasci illese e il tuo pensiero sarà rivolto al ritorno.

(Odissea, XI, 110)

Sempre lo stesso imperativo, ossessione ellenica: non deviare, comportarsi bene, tenere dritta la barra. Dall’episodio dell’otre di Eolo a quello delle mandrie di Helios, è quando Ulisse si addormenta che i suoi uomini contravvengono ai patti e si comportano da incoscienti. Il sonno simboleggia l’oblio.

Il dio Sole li punisce scatenando contro di loro una tempesta.

È il disastro finale, cui solo Ulisse sfugge. Dieci giorni dopo arriva sull’isola di Calipso. Finisce la narrazione di Ulisse alla reggia di Alcinoo; riprendiamo il filo da dove lo avevamo lasciato. Il cerchio è chiuso, il viaggio verso Itaca ha inizio.

Cosa ci resta di questi primi canti dell’Odissea?

Che la vita ci impone dei doveri.

Che non dobbiamo oltrepassare certi limiti.

Che per rimediare a un misfatto non bisogna deviare dalla rotta o rinnegare gli obiettivi fissati.

E, infine, che non dobbiamo mai dimenticare chi siamo, da dove veniamo e dove siamo diretti.

Ciò che conta per Ulisse è tornare in patria e scacciare gli usurpatori. Riuscirà a trionfare proprio perché non si è mai lasciato distogliere dal suo scopo.

Un guerriero troppo orgoglioso, un uomo trasformato in maiale dalla lussuria, un marinaio inebetito per aver mangiato un loto o un morto che si aggira negli Inferi hanno tutti in comune una cosa: hanno disobbedito a una regola, hanno deviato dal loro asse.

A partire dal canto XIII, la riconquista di Itaca costituisce la seconda parte dell’Odissea.

I Feaci, fedeli alla loro vocazione di ambasciatori tra dei e umani, riconducono Ulisse alle sponde della sua isola. Gli avevano promesso di aiutarlo. Lo depongono quindi sulla costa, addormentato.

Posidone porta a termine la vendetta promessa, non prendendosela con Ulisse, carnefice di suo figlio, ma trasformando la nave dei Feaci che lo hanno scortato in uno scoglio. È un’immagine forte: il vascello che si erge sulla superficie del mare a perenne monito per chiunque osi sfidare gli dei.

Nell’attuale Itaca, in mezzo allo Ionio, si scorge un minuscolo isolotto. Difficile non riconoscervi l’imbarcazione dei Feaci. Questo scoglio è la pietra che Posidone pone a cesura tra il mondo degli uomini e la dimensione magica. Ulisse tornerà ancora nel regno dei morti, dopo la riconquista del proprio regno, ma non vedrà più intorno a sé un viavai di mostri e streghe. Addio, magia! È giunto il momento della ragione. Benvenuto a te, Ulisse, nel mondo che rimpiangevi.

Per il momento si sveglia sulla riva, con la mente ottenebrata. Di nuovo lo colpisce la maledizione tutta greca di non sapere dove ci si trova né quel che si cerca. Il nostro eroe non riconosce la sua isola, poiché

nebbia intorno diffuse

la dea, Pallade Atena, figlia di Zeus, perché lo rendesse

irriconoscibile.

(Odissea, XIII, 189-191)

Comincia la parte del poema dedicata al ritorno dell’eroe. La riconquista della dolcezza attraverso la violenza, la restaurazione dell’ordine, l’eradicazione degli invasori.

Il ritorno di Ulisse suonerà allora come un addio al grande racconto d’avventura.