Giunge così la notte d’amore tra Ulisse e Penelope. Gli anni sono passati senza alterare la bellezza di lei né l’ardore di lui. L’eroe racconta alla moglie ogni cosa: mostri, maghe, tempeste, discesa agli Inferi, canti delle Sirene, il dramma sull’isola del dio Sole. Ecco, riassunti in qualche verso, gli anni dell’assenza.
Penelope ascolta. Quale sciagura sarebbe stata per Ulisse se sua moglie non gli avesse creduto. È stato uno degli incubi di Primo Levi al ritorno dal campo di concentramento: che nessuno prestasse fede alla sua storia. Ed è anche l’origine della malinconia del colonnello Chabert, il personaggio di Balzac, al ritorno da Eylau: tutto è cambiato, sconvolto, nulla è rimasto come lo ha lasciato. Ulisse, invece, torna in un mondo che gli è stato sottratto, ma che è rimasto uguale a quando se n’è andato. La Storia non ha subito alcuna accelerazione: la restaurazione è dunque possibile.
Ulisse non ha accettato che il potere passasse di mano. Non è ossessionato dal mantra che perseguiterà il nostro secolo, ovvero che il mondo cambia e l’uomo non può che accettarlo. Nel pensiero antico, all’uomo non è inflitto questo ingrato compito, che Hannah Arendt avrebbe definito come il degradante obbligo di stare al passo col proprio tempo.
La notte con Penelope ci ricorda sottilmente che l’Odissea è stata una serie di avventure vissute dagli uomini, ma fomentate dalle donne. Erano sempre lì, dietro la cinepresa. La tela di Penelope non è forse il simbolo del telaio su cui si fa e si disfa la trama delle nostre sorti? Atena aiutava Ulisse, Calipso lo tratteneva, Penelope teneva a distanza gli usurpatori. Elena è stata la causa della guerra di Troia, le maghe ordivano le loro trappole, le mostruose figlie di Posidone e Gea, Scilla e Cariddi, falciavano i marinai. L’uomo pensa di condurre le proprie imprese, ma in realtà sono le donne a manipolarlo. Sarebbe un madornale errore, da parte loro, voler essere pari ai maschi, dal momento che sono superiori.
Ulisse sarebbe potuto diventare immortale grazie a Calipso, dimenticare il tempo sull’isola di Circe o presso i Lotofagi. Preferisce invece rientrare nella corsa lineare dei mortali, nella memoria. Se l’immortalità offerta da Calipso significa l’oblio, la notte con Penelope lo rimette in sella, a cavallo della vita.
Donna, di tante prove ormai ci siamo saziati
tutti e due: tu qui in casa il mio travagliato ritorno
piangevi, e me Zeus e gli altri dei dolente mi trattenevano,
lontano dalla mia terra patria e verso di essa proteso.
Ma ora che tutti e due abbiamo raggiunto il nostro amato letto,
in casa occorre prendersi cura dei beni che possiedo.
E per le greggi che i pretendenti superbi mi consumarono,
molte io da me stesso le prederò, e altre gli Achei
mi daranno, finché tutte le stalle non mi abbiano riempito.
Ma ora io vado via nella campagna riccamente alberata,
a vedere il nobile padre, che per me senza posa si affligge.
(Odissea, XXIII, 350-360)
Il nobile padre. Il poema si conclude con questa estrema preoccupazione: riannodare il filo della discendenza. Nessun uomo viene dal nulla. L’ultima missione di Ulisse è manifestarsi a suo padre. Ha riconquistato lo spazio, l’isola di Itaca. Adesso deve riannodare il filo del tempo: l’origine filiale. Nel pensiero antico, il legame con chi ci ha generati è indissolubile. Non era ancora stato teorizzato il dogma, tutto moderno, dell’individualismo, che ci riduce a monadi autogenerate, senza radici né ascendenti.
Niente potrà essere più dolce della patria, dei genitori
(Odissea, IX, 34)
diceva già Ulisse ai Feaci.
Ora ha esaudito il suo sogno, ha ritrovato il vecchio padre.
Non è forse raccontandogli la storia dei tredici peri, dieci meli, e quaranta fichi che Ulisse convince Laerte, ancora dubbioso, di essere proprio suo figlio? E non è tendendo al suo sposo il trabocchetto del letto coniugale costruito da lui stesso sul ceppo di un ulivo che Penelope ha avuto la definitiva conferma dell’identità del marito?
Gli alberi sono evocati da Omero come affermazione simbolica della verità.
Ciò che è piantato non mente.