L’uomo greco non aspetta l’aldilà. Ancora non erano intervenute le rivelazioni monoteiste a sventolargli davanti l’impostura delle promesse.
Del mito del vaso di Pandora Albert Camus aveva un’interpretazione diversa da quella abituale. Di tutti i mali liberati dal vaso scoperchiato, l’ultimo, il più terribile, era nientemeno che la speranza. Lo scrittore francese annovera dunque la speranza tra le sventure, perché equivale alla rassegnazione.
L’uomo greco non si affida alla trascendenza. Sa che la vita ci è data e ama ciò che esiste nella sua verità impartita.
Non dobbiamo cercare altro rispetto a quello di cui possiamo disporre oggi. Il futuro non ci arriderà, visto che non esiste. Accontentarsi può sembrare un ripiego, una resa, invece l’assenza di speranza ci permette di apprezzare le cose presenti. Omero glorifica l’immanenza in un passaggio dell’Iliade, un pezzo di bravura poetica. Si tratta del XVIII canto, del quale abbiamo già parlato, quando Teti si reca da Efesto per chiedergli di forgiare nuove armi per Achille.
Il dio fabbro ornerà lo scudo del guerriero con scene di vita familiare, pastorale, urbana, domestica e politica, offrendo una sorta di istantanea della quotidianità sulla Terra. Se tutte le ricchezze dell’esistenza umana riescono a essere incise su una lastra di metallo, ecco che non possono apparirci così inaccessibili. Sono a nostra disposizione, chiedono solo di essere raccolte dalle nostre mani.
Perché sperare in un altro mondo, quando abbiamo già tutto qui e ora? Non c’è alcun bisogno di aspettare un raccolto nell’aldilà. Ma bisogna avere l’intelligenza di capirlo e la forza di volerlo. Leggiamo la descrizione del mondo plasmato dal dio artigiano: ci renderemo conto che non abbiamo bisogno di altro in cui sperare. Accontentiamoci di rimanere entro i bordi dello scudo. Aderiamo al mondo di Efesto.
Al giorno d’oggi, in cui il rapporto tra uomo e natura si è incrinato, assistiamo a un’inversione di tendenza: più il mondo si degrada, più si cerca rifugio in precetti religiosi astratti. L’essere umano si inventa paradisi che lo dispensano dal venerare il proprio substrato. Io invece vi esorto a saccheggiare il mondo, fratelli umani!
Per prima cosa faceva lo scudo ampio e massiccio
istoriandolo tutto, intorno metteva un orlo bellissimo,
scintillante, a tre giri, vi applicava una cinghia d’argento.
Erano cinque gli strati di questo scudo; e su di esso
tracciava molte figure con arte sapiente.
Vi scolpì la terra ed il cielo ed il mare,
il sole che mai non si smorza, la luna nel pieno splendore,
e tutte le costellazioni, di cui s’incorona il cielo,
le Pleiadi, le Iadi, la forza d’Orione
e l’Orsa, detta anche Carro per soprannome,
che gira su se stessa guardando Orione,
ed è l’unica a non immergersi nelle acque d’Oceano.
Vi scolpì due belle città di uomini mortali.
Nella prima si celebravano nozze e banchetti,
portavano le spose dalle loro stanze alla rocca
con le torce accese, dappertutto echeggiava l’imeneo;
giovani danzatori volteggiavano, ed in mezzo a loro
suonavano flauti e cetre; le donne ammiravano,
stando ciascuna sulla porta della sua casa.
Altra gente s’accalcava in piazza: lì era sorta
una lite, due uomini erano in causa riguardo all’ammenda
per una persona uccisa; l’uno diceva d’aver tutto pagato,
giurandolo davanti al popolo, l’altro negava d’aver ricevuto;
si rimettevano entrambi ad un giudice, per aver la sentenza.
L’uno e l’altro acclamava la gente, in due partiti;
gli araldi tenevano indietro la folla; mentre gli anziani
sedevano su pietre lisce, nel cerchio sacro,
e stringevano in mano gli scettri degli araldi potenti di voce;
poi con questi s’alzavano e giudicavano a turno.
Stavano al centro due talenti d’oro,
da consegnare a colui che desse giudizio più retto.
(Iliade, XVIII, 478-508)