Ma non deprimiamoci. Una prima consolazione ci viene dai poemi di Omero, che può apparire magra, ma a me sembra dirimente: nemmeno gli dei sfuggono agli ordini del destino. Anch’essi subiscono il volere della sorte.
Sbaglieremmo, se nel pensiero mitologico confondessimo il destino e la divinità. Gli dei non sono padroni del gioco.
Il destino non è un dio. Simboleggia il disegno cosmico e immanente nel quale è stabilito ciò che appare nel mondo e ciò che si cela nei retroscena.
Il destino è l’architettura del tempo, dello spazio, della vita e della morte, il mosaico in cui tutto si incastona, vive, scompare e si rinnova.
Quando gli uomini turbano l’ordine e oltraggiano la vita, devono pagare la propria tracotanza. Il loro furore a Troia costerà a Ulisse vent’anni di calvario e ad Achille il diventare un’ombra nell’Ade.
Ma gli dei? Devono soggiacere anche loro agli editti del destino o sono padroni dei propri intenti? Hanno il dovere di rispettare un ordinamento supremo? Omero non dà mai una risposta chiara a questa domanda che interesserà, più tardi, i fedeli delle religioni monoteiste, nelle quali l’onnipotenza di Dio coincide con il destino e agli uomini non resta che rimettersi alla «volontà di Dio». Al tempo di Omero, invece, la situazione è più instabile. Anche i piani degli dei greci vengono intralciati dagli avvenimenti.
Pensiamo all’episodio in cui Zeus, padre degli dei e degli uomini, vede il figlio Sarpedone morire sul campo di battaglia per mano di Patroclo, nel canto XVI dell’Iliade. Zeus vorrebbe salvarlo, ma Era lo convince a non influenzarne la sorte, a non volerlo sottrarre di nuovo alla morte crudele. Così Zeus abbandonerà il figlio. Qualche secolo dopo, un giovane palestinese rivoluzionario, crocifisso sul Golgota, rivolgerà al Padre parole dall’accento omerico: «Padre, perché mi hai abbandonato?».
Dunque, persino Zeus non ha il controllo totale di ciò che avviene. Deve scendere a patti con la Moira, la sorte. Che siamo uomini, bestie o dei, tutti dobbiamo accettarlo.
Gli dei perseguono i loro piani senza curarsi troppo degli uomini. Non desiderano né la nostra salvezza, né la nostra maledizione. Non hanno altri obiettivi se non i propri interessi. Se incarnassero il destino, orienterebbero il fascio degli eventi verso un’idea superiore.
Li ritroviamo spesso, seduti intorno a Zeus, a convegno sul pavimento d’oro, a chiedersi con nonchalance se far scoppiare o meno la guerra tra gli uomini.
Mettiamoci dunque a pensare come andranno le cose,
se guerra funesta di nuovo e battaglia crudele
dobbiamo attizzare, o stabilire fra loro la pace
(Iliade, IV, 14-16)
esorta Zeus, rivolto agli altri dei.
Che scena incredibile! A decidere le nostre sorti è dunque un manipolo di dei che discutono indolenti, semisdraiati sotto un portico, davanti a un bel bicchiere di ouzo fresco?
Alla fine Zeus scatenerà la guerra per compiacere Era, che vuole la rovina dei Troiani come vendetta per essere stata umiliata da Paride quando il giovane pastore aveva decretato che la più bella tra le dee era Afrodite. Ma il padre degli dei non può ignorare del tutto le richieste di Teti e di Era, che vogliono l’una la vittoria dei Troiani, l’altra degli Achei. Zeus deve cercare di mediare tra le opposte fazioni. Le cose sono altrettanto complicate sull’Olimpo che sulla Terra.
All’interno dello stato maggiore delle divinità regna una politica confusa, mutevole, una strategia del «domino». Le guerre moderne ci hanno abituati a queste dinamiche. Una potenza sostiene i nemici dei propri nemici, senza rendersi conto che fomentare il disordine del mondo non è mai un buon investimento per il futuro.