La sottomissione alle Parche offre all’uomo l’occasione di essere sollevato da ogni responsabilità.
Come sentirci in colpa delle nostre mancanze se si parte dal presupposto che le Moire ci governano la vita?
Il greco Agamennone si rivolge alle truppe dopo la riconciliazione con Achille con le seguenti parole. La sua autodifesa ricorda i discorsi di certi professionisti della politica a noi contemporanei.
Il colpevole non sono io,
bensì Zeus e la Moira e l’Erinni che vaga nel buio,
che cieca follia m’ispirarono nell’assemblea,
il giorno in cui strappai ad Achille il suo premio.
Ma che potevo fare? Qualsiasi cosa un dio manda ad effetto.
La figlia maggiore di Zeus è Ate che tutti acceca,
maledetta; ha i piedi leggeri: non poggia sul suolo,
ma invece cammina sopra le teste degli uomini,
danneggiandoli; su due, uno lo prende.
(Iliade, XIX, 86-94)
Poco oltre prosegue la sua linea difensiva.
Dato che fui accecato e il senno me lo tolse Zeus.
(Iliade, XIX, 137)
Certo, non tutti gli eroi si nascondono dietro l’alibi delle volontà esterne. Alcuni si assumono la responsabilità delle proprie azioni. Anzi, forse l’eroe omerico è proprio l’uomo che accetta la sua sorte e, lungi dal rinnegarle, rivendica le sue azioni.
I poemi omerici rendono palese ai nostri occhi il mistero dell’intervento degli dei nelle vicende umane. La loro ingerenza assume diverse forme: di volta in volta, ispirano gli uomini, li guidano, fanno loro delle rivelazioni, a volte li manipolano.
Gli dei infondono la propria forza nei soldati, instillando nei loro corpi un vigore magico, invisibile, una pozione che li fortifica. I guerrieri avanzano allora avvolti da una sorta di aura: l’elisir scorre loro nelle vene e ne centuplica la potenza. Non diventano delle divinità, ma non sono più nemmeno soltanto uomini. È come se fossero «posseduti» da un dio.
In termini moderni, definiremmo questa percolazione del potere degli dei negli uomini «stato di grazia», «ispirazione». In gergo militare, diremmo che senz’altro giova al morale della truppa.
Sappiamo quanto i canti patriottici galvanizzino i popoli. Durante il Primo Impero francese, la sola presenza di Napoleone Bonaparte sul campo di battaglia bastava a scuotere i veterani dal torpore.
Nell’Iliade, non il condottiero Napoleone, ma la dea Atena dice a Diomede:
Con ardimento ora, Diomede, combatti contro i Troiani;
ché ti ho ispirato nel petto la furia paterna
intrepida.
(Iliade, V, 124-126)
Omero descrive la trasformazione fisiologica del guerriero:
già prima bramoso in cuor suo di battersi con i Troiani;
tre volte tanto allora lo prese la furia, come un leone,
che il pastore nei campi, vicino alle pecore folte di lana,
ha ferito mentre balzava sopra al recinto, senza ammazzarlo;
ne ha stimolata la forza, poi non si batte a difesa,
ma si rimpiatta dentro le stalle, e le bestie da sole hanno paura;
strette strette s’accalcano l’una sull’altra,
quello, pieno di brama, balza giù dall’alto recinto:
bramoso così sui Troiani si scagliò il forte Diomede.
(Iliade, V, 135-143)
Il dio è sceso nell’uomo, è avvenuta una transustanziazione. Il fluido divino scorre nel guerriero e lo innalza al di sopra dei suoi simili.
Capita, nella vita profana, di vedere persone animate da una forza insospettabile. Henri Guillaumet, un aviatore che dopo un atterraggio di fortuna riuscì a tornare alla civiltà a piedi attraverso le Ande, commentò così la sua incredibile sopravvivenza: «Ciò che ho fatto non l’avrebbe fatto alcuna bestia al mondo». Nella Certosa di Parma, Stendhal descrive Fabrizio al momento dell’evasione «spinto come da una forza innaturale», che gli fa superare bastioni e precipizi.
Un’altra immagine omerica: un giorno Posidone decide di incoraggiare gli Achei e, emergendo dal mare, tocca i due Aiace con il proprio scettro, come fosse un colpo di bacchetta magica. Uno dei due guerrieri confida allora:
«Proprio così anche a me le mani invincibili smaniano intorno
alla lancia, mi s’è scatenata la furia, e dai piedi, giù in basso,
mi sento portare all’assalto; voglio battermi anche da solo
con Ettore figlio di Priamo, sempre bramoso di guerra».
Così tra loro facevano questi discorsi,
gioiosi dell’ardimento ispirato loro dal dio.
(Iliade, XIII, 77-82)
Ecco i due eroi improvvisamente «aumentati» dal dio (questa vecchia chimera dell’uomo «aumentato», impostura tecnoide dei nostri tempi, affonda dunque le radici in epoche molto lontane). Il favore degli dei riservato ad alcuni esseri umani solleva il disappunto degli altri, i poveri sfortunati che non ne godono mai.
Spesso nell’Iliade sentiremo questa recriminazione. Menelao rimprovera per esempio a Ettore:
Se contro il volere dei numi vogliamo resistere a un uomo
favorito da un dio, presto ci coglie grave rovina.
Perciò nessuno dei Danai, che pure mi veda cedere ad Ettore,
potrà biasimarmi, perché combatte mandato da un dio.
(Iliade, XVII, 98-101)
È una questione cruciale: ci si può definire eroi anche quando si è supportati da un dio?