Omero (facendo concorrenza a Sun Tzu) ha sempre descritto l’arte della guerra da tecnico. La «duplice» arte della guerra, potremmo precisare: quella delle armi, combattuta sul campo, e quella, più sottile, dell’acume.
Achille incarna la forza bruta. Ettore e Ulisse associano il vigore alla mètis, la virtù dell’astuzia e dell’intelligenza.
Omero descrive la guerra in tutta la sua ampiezza: risuonano nelle pagine i tumulti delle battaglie, il grido degli dei, il fracasso delle manovre. L’Iliade è un’opera rock!
Omero sembra il regista di un colossal sull’antica Grecia, seduto sulla sua poltrona, mentre dispone le comparse sulla scena prima di gridare: «Azione!». Ma nessun effetto speciale hollywoodiano eguaglierà mai davvero i suoi versi eterni.
A volte domina la scena, sceglie il campo lungo: gli eserciti si affrontano, lo sguardo si eleva e osserva i movimenti dall’alto, come dalle vette dell’Olimpo.
Gli dei, da strateghi, occupano questa posizione sopraelevata. In Paysages politiques, il geografo francese Yves Lacoste commenta così la geografia degli dei guerrafondai: «Tra i luoghi da cui si può vedere un paesaggio, quello dal quale la vista è più bella è quasi sempre anche il più interessante in termini di tattica militare». Pensiamo, per esempio, alla collina da cui Napoleone osservava lo svolgimento delle operazioni sul campo di battaglia.
Omero interseca alle scene concitate di combattimento immagini oniriche. Per queste, dietro la cinepresa, ci vorrebbero Akira Kurosawa o il Terrence Malick della Sottile linea rossa:
[...] mentre quelli [gli Achei] sciamavano via dalle rapide navi.
Come scendono fitti da Zeus i fiocchi di neve,
gelati, sotto la spinta di Borea figlio dell’aria,
così fitti quel giorno venivano via dalle navi
elmi dal vivo splendore e scudi ombelicati
e corazze a salde piastre e lance di frassino.
Saliva al cielo il fulgore, rideva tutta la terra
per lo scintillio del bronzo; un fragore s’alzava dai piedi
degli uomini.
(Iliade, XIX, 356-364)
All’improvviso il campo si restringe, l’occhio del poeta si avvicina: gli eroi si scontrano, irruenti, impetuosi. Sono duellanti furiosi. Ridley Scott conduce l’azione e Sergio Leone osserva tutto con cinica distanza. La scena è in 35 millimetri:
Balzò incontro come un leone
il figlio d’Atreo;
[...]
e gettò Pisandro a terra giù dai cavalli,
colpendolo al petto di lancia: questi giacque supino.
Ippoloco scese dal carro, dunque a terra lo uccise,
falciando le braccia con la spada, mozzandogli il collo,
e poi lo spinse come un rullo, a rotolare in mezzo alla folla.
(Iliade, XI, 129-147)
Poi il lettore si avvicina ancora e scopre, attonito, il primo piano. Sembra che Peter Jackson o i nerd di Game of Thrones siano al lavoro per catapultarci nel vivo degli eventi.
Ma Omero aveva qualcosa di meglio della GoPro, dei droni e delle immagini digitali: aveva la poesia.
Dopo di lui Achille colpì Demoleonte,
combattente valoroso, figlio di Antenore,
lo colpì sulla tempia, attraverso l’elmo dalla guancia di bronzo.
La celata metallica non resistette, ma da parte a parte
la punta passando penetrò nell’osso e, dentro, il cervello
si spappolò tutto quanto: lo fiaccò nel suo slancio.
Colpì quindi Ippodamante, sceso giù dai cavalli,
in fuga davanti a lui, lo ferì con l’asta nel dorso.
Esalò il respiro e mugolò, come quando mugghia
un toro trascinato all’altare del dio Eliconio,
mentre i ragazzi lo tirano; e lo scuotitore della terra ne gode;
così mugolava, e lasciò il suo corpo l’animo ardito.
(Iliade, XX, 395-406)
Omero è implacabile: la guerra sarà il nostro ineffabile destino. Mai potremo sfuggire al suo respiro e i focolai odierni – in Medio Oriente, nel Pacifico, nelle pianure del Donbass – sono l’eco della cosa più naturale e antica che esista.
L’Iliade ci appare attuale perché è il poema della guerra; dopo millenni, la sete di sangue pulsa ancora. Solo le armi sono cambiate, diventando più performanti: il progresso e le capacità umane ne hanno aumentato il potere distruttivo.
Il singhiozzo della guerra non si spegnerà; essa corre aldilà dell’orizzonte. Dovremmo esserne consapevoli e godere il più possibile della pace. Dovremmo ricordarci che Ettore non vedrà suo figlio crescere. Dovremmo benedire ogni istante in cui abbiamo la possibilità di tenere il nostro sulle ginocchia.
È uno strano tesoro, la pace, che trascuriamo quando la viviamo salvo poi rimpiangerla una volta perduta. L’Iliade è il poema della sua assenza. Non è, del resto, il biotopo naturale dell’umanità: il progetto della pace universale è un’idea da filosofi, che permette di costruire castelli speculativi mentre si affilano le spade dell’età del bronzo o si preparano i microchip dell’epoca dei droni.
Leggiamo Omero e godiamo dei frutti della pace, baci fugaci deposti talora, per alcuni fortunati, in un decennio terrestre.