Abitare la luce

L’Iliade e l’Odissea sfavillano di fotoni.

I Greci hanno sempre venerato la luce. Per sua sciagura, Achille diventa un’ombra. Non godere della luce del sole costituisce per loro il destino più funesto. La luce inonda la vita e rallegra il mondo, ammanta i poemi di un oro impalpabile. Chiunque approdi alle sponde greche la cerca. «Il tema principale, in Grecia, è sempre la luce» scriveva lo scrittore e politico francese Maurice Barrès.

Da Omero in poi, gli scrittori viandanti dell’Egeo non hanno mancato di rendere omaggio al sole. Michel Déon si rallegra di trovare a Spetses un «mondo di luce». Miller crede di veder apparire, nei fuochi del giorno, distese deserte uscite da un mondo di eternità. E l’austriaco Hugo von Hofmannsthal idealizza quella luce in cui vede le «incessanti nozze tra lo spirito e il mondo». Nella sua intervista con il professor Alexandre Grandazzi, Jacqueline de Romilly afferma che la bellezza della lingua greca si ritrova nella «luminosità dei paesaggi».

Persino gli autoctoni, che pure potrebbero vedere il proprio Paese con altri occhi, si esprimono così: «Questo paesaggio è duro come il silenzio, stringe i denti. Non c’è acqua. C’è solo luce», come scrive Ghiannis Ritsos in Grecità. La devozione alla luminosità ellenica prende avvio proprio dall’Odissea: l’uccisione delle vacche del dio Sole costerà la vita all’intero equipaggio di Ulisse. Il Sole Iperione («colui che sta in alto») non perdonerà agli uomini di aver ucciso con tracotanza le bestie di cui si compiaceva. Ovvero, fuor di metafora, punisce l’uomo che abusa delle risorse della Terra, sfruttandone i tesori senza apprezzarne il valore.

Ritsos critica chi non ama la luce con un commento che avrebbe visto concorde Omero stesso: «Se la luce ti dà fastidio, è colpa tua».

La luce ha una carne, una consistenza, un odore. Quando fa caldo, la si sente ronzare. Vortica tra gli alberi e rivela ogni roccia, sottolinea i rilievi, si accende di scintille sul mare. Bisognerebbe studiare scientificamente i fenomeni atmosferici, idrografici e geologici che conferiscono alla luce greca quella peculiare immanenza, la sua dolorosa limpidezza. Perché il mare sembra, lì più che altrove, un sogno d’ombra scintillante? Perché le isole sembrano nascere con il giorno? È forse possibile che gli uomini, a forza di cantare l’incomparabile potenza della luce, abbiano finito per accentuarne il bagliore? O dovremmo accettare che gli dei esistano davvero e che quanto si racconta su di loro, da Esiodo a Kavafis, non siano favole? Nell’Iliade le armi sono sempre sfavillanti. Sullo scudo di Achille brilla «l’infaticabile Sole». Le armature riflettono la luce. E quando un soldato muore o viene ferito, sui suoi occhi cala «la tenebra».

I Greci hanno tratto degli insegnamenti da questa tempesta luminosa. Vivendo circonfusi del suo raggio dorato, hanno compreso che l’esistenza umana sulla Terra somiglia al breve intervallo tra la mattina e la sera, chiamato giorno, in cui tutto si svela e la cui somma costituisce una vita.

«Ciò che vive in questa luce vive realmente senza speranza, senza nostalgia» scrive Hugo von Hofmannsthal. Esplorando le isole, Ulisse va alla scoperta della loro verginità. È il primo a visitarle. Ardito capitano, posa lo sguardo dietro un velo che nessuno ha mai osato sollevare. La luce rivela ciò che l’occhio non ha ancora visto. Ulisse non ha riferimenti per analizzare ciò che si palesa ai suoi occhi: un ciclope, una maga che trasforma i propri amanti in maiali, un gigante aggressivo, un mostro ruggente. Tutto è nuovo sotto i fotoni.