La nostra epoca è ipnotizzata dalle immagini: preferiamo una GoPro a una chiacchierata, ci illudiamo che un drone possa far volare il pensiero, esigiamo l’alta definizione ancora prima di avere qualcosa da definire. Ai tempi di Omero, invece, regnava la poesia, il verbo era sacro. Per il poeta, sono le parole stesse che volano. Inscrivere il proprio nome nell’epopea era per un eroe il vanto supremo. Ci si radicava nella memoria degli uomini, assicurandosi una fetta di immortalità. Insomma, la parola consacrava l’esistenza. Le Muse non erano forse le figlie di Mnemosine, dea della memoria, e di Zeus?
Una sera Ulisse è invitato alla tavola dei Feaci. Nessuno lo ha riconosciuto. Lui chiede all’aedo del banchetto di narrare un episodio della guerra di Troia e in quel momento, sentendo citare il proprio nome, capisce di essere stato «incorporato» nella memoria collettiva. Ha varcato la linea di confine, ha trionfato sull’oblio.
Raccontare storie è proprio dell’uomo: gli animali non scrivono romanzi.
Un mezzo millennio dopo Omero, quando Alessandro Magno varca l’Ellesponto nel 334 a.C. e visita la tomba di Ulisse, commenta che l’invincibile guerriero di Troia è un eroe fortunato, poiché ha avuto Omero come araldo delle sue gesta. A quei tempi la gloria non consisteva nel superare il milione di clic, ma nell’essere celebrati da un poeta, uno di quegli aedi ispirati dalla divinità.
Da letterato, non posso non rimpiangere i tempi in cui:
per gli uomini tutti sulla terra gli aedi
sono partecipi di onore e rispetto, perché ad essi
la Musa insegna le tracce dei canti e ama gli aedi.
(Odissea, VIII, 479-481)
Erano i secoli della parola. Magari torneranno, un giorno.
Parlare era allora una virtù paragonabile all’arte della guerra. La figura dell’aedo fa del resto bella mostra di sé sullo scudo di Efesto, che rappresenta nel suo perimetro lo spettro delle azioni umane. I poemi venivano proclamati ad alta voce e il cantore si accompagnava con uno strumento a corde, come dimostra la rappresentazione simbolica, arrivata fino a noi, del poeta con la lira. La pratica della lettura silenziosa, alla quale siamo abituati oggi, è un’abitudine relativamente recente, datata intorno all’Alto Medioevo. Molti santi letterati la condannavano, vedendoci una forma di ripiegamento e, ancora peggio, di deviazione.
Io sarei pronto a battermi per tornare a declamare le letture sulla pubblica piazza.