Il verbo come ambrosia

Ascoltiamo il genio della Musa attraverso la voce di Ulisse. Ci troviamo davanti alle mura di Troia e il re Agamennone propone ai suoi uomini di smettere di combattere e ritirarsi: li sta mettendo alla prova. La guerra si trascina da nove anni e tutti desiderano tornare a casa. Ma la situazione si rovescia con l’esortazione di Ulisse, che contesta Agamennone e arringa i guerrieri, infiammandoli.

Disse così; gli Argivi acclamarono forte, e intorno le navi

echeggiarono cupamente al grido degli Achei,

il discorso approvando di Odisseo [Ulisse] divino.

(Iliade, II, 333-335)

Il discorso di Ulisse ha conquistato il cuore della truppa. Lungo tutto il poema, a più riprese, Omero sottolinea il potere rinvigorente della parola, capace di insufflare forza negli animi abbattuti e in preda allo sconforto. Come la luce del sole risveglia un corpo dopo una notte all’addiaccio, la parola rianima il vigore, e in questo si rivela divina.

Per i Greci, il verbo si tramuta in forza: è quasi una divinità. Nell’Iliade sentiremo spesso un guerriero o un dio, in piedi sulla barricata, incitare l’esercito scorato. La possanza fisica sarà sempre associata a quella oratoria e il fervore del discorso saprà dare nuovo slancio ai soldati, come avviene, per esempio, con queste parole di Posidone:

Vergogna, Argivi, giovani in fiore, ho fiducia in voi,

che combattendo possiate salvare le nostre navi;

se abbandonerete invece la lotta affannosa,

oggi è spuntato il giorno della vittoria troiana.

(Iliade, XIII, 95-98)

Oppure con quelle di Diomede davanti alla truppa spossata dalle avanzate troiane:

Disse così, e tutti acclamarono, i figli degli Achei,

approvando il discorso di Diomede.

(Iliade, VII, 403-404)

O ancora con le imprecazioni di Achille che, rompendo il suo silenzio incollerito, incita gli uomini a seguire Patroclo, l’adorato amico fraterno:

Ognuno dunque, con animo impavido, si batta contro i Troiani!

Acuiva, dicendo così, lo slancio e il coraggio di ognuno.

Più si serrarono i ranghi, sentito che ebbero il re.

(Iliade, XVI, 209-211)

Non è entusiasmante sentire questi guerrieri che si esprimono come tribuni e fanno vibrare i propri uomini al solo suono della loro voce? La parola funziona come un elisir.

A noi cittadini del secolo digitale queste esortazioni appaiono impossibili: schermi e monitor ci separano ormai dal mondo reale, l’immagine ha spodestato la parola e influenza il corso della storia. Chi si lancerebbe oggi all’assalto in una battaglia, galvanizzato da un discorso?

All’inizio della crisi dei rifugiati, in questo secondo decennio del Ventunesimo secolo, nello stesso mare un tempo solcato dalle navi achee, uomini disperati fuggono dalle vessazioni dei fondamentalisti islamici. I «migranti» naufragano sulle spiagge, annegano in mare aperto. Giornalisti e scrittori ne hanno scritto invano. È stata alla fine l’immagine del cadavere di un bambino sulla riva a scuotere i politici europei, spingendoli a dichiarare che avrebbero aperto le frontiere. C’è voluta una fotografia per determinare quella decisione. Non sono più le parole a pesare sul corso degli eventi; non ci sarà più un appello come quello di Charles De Gaulle il 18 giugno del 1940, che esortava a non smettere di combattere il Terzo Reich, né ci sarà un Diomede sul campo di battaglia a rivolgersi ad alta voce ai soldati. Le parole non smuovono più le masse.

Nell’Iliade Omero si dichiara a volte sfinito dal valore magico della parola:

È ben difficile che come un dio tutto questo io possa narrare.

(Iliade, XII, 176)

Eppure è in virtù della sua forza divinatoria che il verbo mitologico ha attraversato i millenni per giungere fino a noi.