Sulla bellezza formale di questi poemi, Jacqueline de Romilly aveva una teoria. La complessa tecnica di scrittura all’epoca rendeva pressoché impossibili i ripensamenti, richiedendo subito una stesura definitiva: sarebbe stata dunque la difficoltà pratica a «spronare» lo stile. Immaginiamo Omero che detta il proprio poema a uno scriba. Era così complicato trascrivere una frase con il calamo sul papiro che bisognava averla perfettamente cesellata prima di vergarla. Ognuna doveva inserirsi nel testo come una pietra preziosa in un diadema.
Lo stile di Omero risponde a due caratteristiche principali, che fanno risplendere il testo con lo stesso luccichio del Mediterraneo sotto il sole: il continuo ricorso agli epiteti e l’utilizzo delle analogie. L’epiteto orna il nome, il paragone dà ritmo alla narrazione: grazie a questi due espedienti la musica omerica suona perfettamente riconoscibile.
Aggettivi e similitudini! I nostri maestri di scuola ci hanno insegnato a non utilizzarli troppo. «Snellire» ci ammonivano, riconsegnandoci temi martoriati di scritte rosse. Avevano mai letto questa descrizione delle schiere achee sulla piana di Troia?
Come fuoco rovinoso incendia una selva immensa
sulle cime d’un monte, e da lontano si vede il bagliore,
così mentre quelli marciavano, dalle armi di splendido bronzo,
uno scintillio sterminato si levava al cielo per l’aria.
Come innumerevoli stormi di uccelli alati,
d’oche e di gru e di cigni dal collo lunghissimo,
sulla pianura Asia, lungo le acque del Caistro,
di qua, di là vanno volando, superbi nel loro piumaggio,
schiamazzando calano a terra, e ne riecheggia la piana,
così di loro le genti molteplici, dalle navi e dalle tende,
si riversavano sulla pianura dello Scamandro; ed il terreno
risonava cupamente sotto i piedi di loro e dei cavalli.
(Iliade, II, 455-466)
In uno sfavillio di parole Omero evoca le immagini della natura. Le analogie aiutano il poeta a spezzare la tensione narrativa; racchiudono il mondo in un’unica vibrazione, nella quale animali, uomini e dei sono partecipi della stessa avventura, complessa ed esplosiva. La bellezza della rivelazione pagana si svela: tutto è legato e unito nel molteplice vivente. Un greco non avrebbe mai avuto la pochezza d’animo e la mediocrità di credere che esistesse un unico dio, e per giunta esterno al mondo che aveva creato.
Le analogie possono riferirsi agli animali, ai vegetali, ai fenomeni atmosferici o alle scene pastorali. Le immagini poetiche riflettono le azioni dell’uomo.
Talora i fenomeni cosmici simboleggiano l’ordine che regna nell’universo, armonioso, crudele, eternamente tragico, sovranamente perfetto, a volte sconvolto.
Come sotto un ciclone si fa pesante e scura tutta la terra
in un giorno d’autunno, quando con più violenza Zeus
versa pioggia, quando sdegnato s’adira con gli uomini,
che con prepotenza in piazza danno sentenze inique,
perseguitando la giustizia, non curando lo sguardo degli dei;
i loro fiumi si gonfiano tutti nell’alveo,
i torrenti erodono allora molti declivi
e con grande fragore si riversano nel mare spumeggiante
a precipizio dai monti, devastando i coltivati:
con altrettanto fragore correvano i cavalli troiani.
(Iliade, XVI, 384-393)
La bellezza di queste immagini, con la loro precisione, suggerisce che Omero – anche se cieco – deve essere stato un amorevole osservatore delle colline, un appassionato viandante, un uomo capace di godere delle cose e di ascoltare il vento nelle notti di tempesta. Possiamo immaginare che gli piacesse navigare, pescare, bivaccare in collina, inebriarsi delle stelle e annusare il grano dei raccolti. Ha sicuramente «visto» i rapaci cacciare le colombe e il mare infuriato levarsi oltre il parapetto delle navi, altrimenti descrizioni così precise non sarebbero possibili. Ci si può improvvisare fotografi, ma non poeti. L’immaginazione non si inventa.
Il gran numero di bestie e di animali presente nel testo dà a Omero la possibilità di tracciare la gerarchia verticale del mondo.
In cima, gli dei; in basso, gli animali: tra i due il mondo, in cui uomini, mostri ed eroi si dividono i vari gradi. A volte l’uomo è ricondotto alla sua parte animale: quando Omero lo paragona a una belva, è per criticarne la violenza.
Così Apollo parla per esempio di Achille:
Che non ha mente sana né volontà che si possa
piegare nel petto, ma pensa ferocemente come un leone,
che indulgendo alla forza, al suo animo ardito,
aggredisce le greggi degli uomini, per farne il suo pasto.
(Iliade, XXIV, 40-43)
L’utilizzo delle similitudini dà al poeta l’occasione di ricordare che il mondo non è una lastra di pietra, dove tutto si equivale in base all’orrido principio dell’uguaglianza. Tra gli animali come tra gli uomini, ognuno ha il proprio posto nell’edificio della vita. Alcuni sono più forti, più belli, più dotati. Se il leone sbrana la vitella è perché la natura ha permesso questa fatalità: l’uno è dotato di zanne, l’altra è un pacifico erbivoro; il primo mangerà la seconda.
Non bisogna turbare l’ordine delle cose. La bellezza del mondo è assoggettata all’ingiustizia, che governa le cose.
Quello come leone feroce balzato tra i buoi,
che sono al pascolo nella bassura di grande convalle,
a migliaia, e fra loro un pastore non molto esperto
a lottare contro la belva, a difesa del suo bestiame,
si sposta continuamente ora alla testa
ora alla coda del branco, ma la belva piombata nel mezzo
divora un bue, tutti gli altri si sbandano; così gli Achei
allora fuggirono alla rinfusa, di fronte ad Ettore ed al padre Zeus,
tutti quanti, ed Ettore uccise il solo Perifete di Micene,
il caro figlio di Copreo, che da parte di Euristeo sovrano
soleva portare messaggi alla forza di Eracle.
(Iliade, XV, 630-640)
Evocando la perfezione dell’organizzazione naturale, la grazia degli animali, la magnificenza dei fenomeni naturali e il vigore delle piante, Omero coglie una delle sfaccettature del divino. È divino ciò che è nella «presenza pura», nell’esplosione del reale. Il divino scintilla nella complessità immanente della natura. È un tutt’uno con essa.