Un epiteto per il mondo

Per competere con la magnificenza delle forme che ha il compito di descrivere, Omero associa un epiteto a ciascuna di esse. Animali, uomini e dei avranno diritto a questo ornamento del loro essere attraverso il suggello dell’aggettivo.

Alcuni studiosi sostengono che il poeta avrebbe utilizzato tale espediente anche per esigenze di metrica. I versi di Omero sono esametri, composti da sei piedi, o misure, divisi in due tempi dalla cesura e con una precisa successione di sillabe lunghe e corte. Talora la complessità di questo solfeggio rende necessaria qualche acrobazia linguistica e le qualifiche attribuite al personaggio sarebbero funzionali al ritmo. A seconda che Atena sia glaucopide, figlia di Zeus portatore dell’egida, la dea dagli occhi azzurri, o colei che spinge gli eserciti, oppure che Posidone sia lo scuotitore della terra, il dio che avvolge e scuote la terra, colui che sostiene la terra, il dio dalla chioma azzurra, e via discorrendo, la scelta di un epiteto più o meno lungo nel corpo del testo avrebbe permesso di far quadrare la scansione del verso. Ma questa è una spiegazione da contabili.

Gli esegeti affermano inoltre che gli epiteti garantivano all’aedo un prezioso strumento mnemotecnico, permettendogli di fare affidamento su quelle formule fisse per aiutarsi nella recitazione e che, grazie al loro ausilio, i bardi jugoslavi erano capaci di declamare senza sforzo diecimila versi.

Noi ci permettiamo però di obiettare che l’utilizzo degli epiteti deve aver risposto a esigenze più nobili del computo metrico o del sostegno della memoria.

Gli epiteti manifestano l’essenza del soggetto a cui sono attribuiti. L’aggettivo è un’aureola intorno all’essere; tratteggia l’«aura» dell’eroe, il dna dell’anima. Il dio, l’eroe o l’uomo avanzano blasonati di epiteti, la loro stessa presenza è rivelata dagli aggettivi a loro associati. Riconoscere Achille dal piede veloce, simile a un dio, rampollo di Zeus o distruttore di città risparmia altre descrizioni. Così come il nostro sguardo, senza sapere perché, riconosce qualcuno a noi caro, anche solo intravedendolo, l’epiteto descrive l’eroe anche con un’unica parola.

Ulisse è per esempio l’uomo dai molti accorgimenti, astuto, dai cangianti raggiri, che ha cuore paziente, l’intelligente figlio di Laerte. L’eroe più complesso di Omero è quello al quale è assegnato il maggior numero di epiteti.

Ma tutti gli eroi impegnati in scena sono accompagnati dai loro epiteti come da un’ombra: Diomede possente nel grido di guerra, Afrodite che ama il sorriso, Ettore dall’elmo ondeggiante, Efesto l’abile artigiano, Idomeneo celebre per la sua lancia, Iris che ha nei piedi il vento, Fenice vecchio cavaliere. Zeus sarà di volta in volta adunatore di nembi, il dio che tuona dall’alto o che vive nel cielo, Zeus fulminatore o tonante.

Anche la città di Troia ha diritto alla sua identità psico-poetica. Sarà l’alta città, la sacra rocca, cinta di torri, la città dalle alte porte, ben popolata, ben costruita, dalle ampie strade, dai bei puledri.

Cosa può fare un povero bardo con il suo papiro davanti alla multiforme natura del mondo? Rischia di essere soffocato dalla complessità delle cose. A meno di non opporre allo spessore dell’immanenza la grazia degli epiteti: l’aggettivo è l’omaggio del verbo al caleidoscopio della realtà.

C’è un epiteto nell’Odissea, del quale abbiamo già parlato, che illustra questa disputa artistica tra l’immaginazione e il reale. Quando Ulisse torna a Itaca e incontra il vecchio guardiano di porci, l’unico che abbia mantenuto intatti il suo onore e la sua fedeltà, Omero non utilizza per definirlo gli aggettivi «fedele» o «virtuoso»: sarebbe troppo banale. Usa l’epiteto divino, sul quale sono stati versati fiumi di inchiostro. Perché designare come divino un porcaro? Forse perché questa parola esprime esattamente ciò che gli epiteti cercano di definire, ciò a cui l’aggettivo aspira: l’espressione della completa manifestazione di se stessi, la verità pura, la forza di ciò che la presenza offre allo sguardo. Essere divini significherebbe dunque emanare la propria identità più pura, senza sotterfugi, maschere e infingimenti. In termini colti, l’epiteto indicherebbe lo spessore del Dasein heideggeriano.

Questo guardiano di porci è l’uomo su cui si può contare. Non ha tradito il suo re, non ha ambizioni o secondi fini, custodisce dentro di sé il ricordo dei tempi andati, è fedele alla memoria del padrone. Non cambia. Accoglie il mendicante senza riconoscere che si tratta di Ulisse. È il primo uomo «vero» che l’eroe incontra dopo mostri e maghe e, per di più, si rivela buono. È forse questo essere divini: aderire a se stessi in piena luce, calarsi interamente nella propria presenza, armonizzarsi con la propria nuda vibrazione, stare lì, modestamente ritti nello splendore dell’esistenza. È divino quest’uomo che ritroviamo, vent’anni dopo averlo lasciato, tale e quale a com’era. Il porcaro non è diventato quel che è, parafrasando l’Ecce Homo nietzschiano, ma ha continuato a essere ciò che era già diventato: divino. Chi può fregiarsi di un simile epiteto?