Amare le isole

Ci sono la luce, la nebbia e poi le isole.

Ogni isola è un mondo a sé. Galleggiano, scivolano, scompaiono, si sparpagliano. Sembrano piccoli universi. A volte si sfaldano, macchie di sole disperse dal vento. Cosa collega le une alle altre? Le vie del mare. La scia delle navi le riunisce come perle sfilate di una collana. Il marinaio circola tra i relitti. Quando l’aria è ferma, sembrano animali, o picchi di un massiccio di cui il mare ha inondato le valli. Sulla loro superficie la vegetazione è rada: i Greci hanno lasciato le loro isole alle capre, che se ne nutrono. Ognuna difende la sovranità di un mondo, di uno splendido impero flottante in miniatura, con i suoi animali, i suoi dei, le sue regole e i suoi mestieri. Certe mattine scompaiono nella bruma, poi tornano a stagliarsi nell’aria limpida. Come lampi. Basta aver soggiornato per qualche tempo su una briciola cicladica spazzata dal vento, tra i suoi giochi di luce, per soffrire la solitudine. L’isola si racchiude nella sua membrana, si erge a mondo a sé stante. I vicini diventano stranieri. Le isole spiccano in lontananza, inaccessibili, separate da pericolosi canali. Ognuna nasconde un doloroso segreto.

L’immaginazione antica ha tratto ispirazione da questa coesistenza di mondi separati?

Le isole non comunicano. Ecco l’insegnamento omerico: l’essere entità geografiche distinte impone che ciascuna mantenga la propria singolarità. Non ci si può mescolare se si tiene alla sopravvivenza del diverso.

Agli Achei le isole apparivano come patrie selvagge e pericolose, castelli di pietra sospesi tra il cielo e il mare. L’uomo sa che riservano delle prove: la lezione che riuscirà a trarne costituirà la sua ricompensa.

Ci imbattiamo così nell’isola dei Ciclopi, dove esseri inferiori vivono dei frutti che la terra dona loro spontaneamente, senza coltivarla, ignari della civilizzazione.

Poi nelle isole delle maghe, il cui unico scopo è far dimenticare all’uomo le proprie aspirazioni.

Leggeremo poi dell’isola dei Lotofagi, il regno in cui l’essere umano soccombe a un languido godimento.

E infine c’è Itaca, che non è un’isola «trappola». Itaca brilla, patria e centro del mondo di Ulisse. Questi inaugura la dinastia dei veri avventurieri, che non temono nulla poiché hanno un porto dove approdare. Possedere un regno rende forti. Folle è l’uomo che, come il Riccardo III di Shakespeare, sarebbe disposto a cederlo per un cavallo.

La vera geografia omerica è tutta riconducibile a quest’architettura: la patria, il focolare, il regno. L’isola da cui si proviene, il palazzo in cui si regna, l’alcova in cui si ama, il territorio in cui si costruisce. Non si può essere fieri di se stessi se non si appartiene a nessun luogo.