La geografia di Omero disegna il volto della Terra. Il sole si leva su isole splendide e pericolose. Le forme di vita che le abitano esplodono in un caleidoscopio, proliferando senza sosta. A voler fare l’inventario di questa esplosione, i versi non si esauriscono mai. Gli animali e le piante sono lì, incastonati nell’ordine del mondo come le gemme tra le crepe delle rocce, e, per il solo fatto di esistere, ognuno di quei gioielli viventi incarna il divino.
Dovremmo saperci accontentare del mondo, invece di sognare paradisi inaccessibili e vite eterne. Al tempo di Omero le religioni monoteiste non avevano ancora inoculato negli uomini la speranza con fumose promesse. Nell’antichità, realizzare l’unione tra l’essere umano e il mondo reale rappresentava un obiettivo grandioso, una vittoria immensa. Perché sperare nell’aldilà quando è possibile compiere con passione il proprio cammino nella panoplia del reale?
Nel Secondo secolo d.C., Clemente Alessandrino ci esortava a stupirci di ciò che esiste. Omero, in quanto pagano, non aveva atteso la sua ingiunzione per rendere omaggio all’immanente scintillio del reale. Ci offrirà, con il passo dello scudo di Achille, la più bella dichiarazione d’amore alla realtà.
Nel XVIII canto dell’Iliade, Teti si reca da Efesto e chiede al fabbro degli dei di forgiare delle armi per suo figlio, Achille.
Il divino artigiano confeziona uno scudo, che ornerà con la rappresentazione di tutte le sfaccettature del mondo umano.
La letteratura descrittiva conosce in questi versi la sua espressione più geniale: un poeta racchiude il cosmo intero in un disco di metallo che servirà a parare gli urti in battaglia. Sullo scudo, come nel mondo, tutto coesiste. Caldo e freddo, vita e morte, guerra e pace, campagna e città. È bene accettare e adorare tutto. Ogni cosa può convivere con il suo contrario senza svanire, a condizione di restare se stessa. Così equilibrato, il mondo si dispone in un ordine gerarchico prestabilito, armonioso quanto la meccanica degli astri.
Poi lo sciancato abilissimo ci fece un grande pascolo
di pecore bianche in una bella valle,
e ci mise stazzi, capanne, recinti coperti.
Poi disegnò una pista di danza lo sciancato abilissimo,
simile a quella che nella grande città di Cnosso
Dedalo fece per Arianna dalla bella chioma.
Vi danzavano giovani e fanciulle desiderabili,
al polso gli uni alle altre tenendo la mano.
Queste avevano vesti sottili di lino, quelli indossavano
chitoni ben lavorati, ancora brillanti d’olio;
le une portavano belle corone, gli altri avevano
spade d’oro appese a cinturoni d’argento.
Talvolta con piede esperto giravano su se stessi
agilmente, come quando la ruota girevole tra le sue mani
il vasaio prova seduto, per vedere se scorre;
altre volte in fila si venivano incontro fra loro.
[...]
Infine metteva la grande corrente del fiume Oceano
lungo l’orlo estremo dello scudo ben costruito.
(Iliade, XVIII, 587-608)
Questa è la geografia di Omero.
È un inno all’ineguagliabile realtà, testimone della forza sovrana del mondo. È il palco su cui è installata la giostra delle nostre vite.
Noi godiamo della luce, periamo sui mari, viviamo dei frutti della terra, Omero lo sa: siamo figli della terra e non dobbiamo mai dimenticarlo. Bisogna essere grati alla vita che ci proietta nell’incanto del reale.
L’illustre fabbro termina la propria opera disegnando una danza di giovani. L’accettazione pagana della vita è fonte di gioia. Oh, dei delle foreste, dei mari e dei deserti, salvateci dall’autoinganno! Non ci saranno delle vergini ad attenderci dopo la morte.
Quale altro senso potrebbe avere vivere sulla Terra, nel vento e nel sole, sul suolo che ci è offerto, se non danzare finché ne avremo la forza, bagnati dalla luce di un mondo senza speranza, ovvero senza prospettive ultraterrene?