Per scrivere Un’estate con Omero mi sono segregato per un mese nelle Cicladi. Ho vissuto in una piccionaia sull’isola di Tinos, di fronte a Mykonos, affacciata sull’Egeo. Una civetta frequentava assiduamente la scogliera vicina. Le sue grida squarciavano la notte. I terrazzamenti, popolati dalle capre, digradavano verso il mare.
Leggevo l’Iliade e l’Odissea alla luce di una lampadina alimentata da un generatore. Il vento incessante sferzava le acque del mare, sollevandole, come a suon di pugni, in onde maestose, strappava le pagine dei miei libri, mi faceva volare via i fogli. Gli asfodeli chinavano il capo e le scolopendre correvano sui muri. Perché tanto accanimento da parte del vento?
Bisogna starsene per un po’ su uno scoglio come quello per comprendere da dove abbia tratto origine l’ispirazione di un anziano poeta cieco, come un neonato allattato di luce, schiuma e vento. Io credo che il genio dei luoghi nutra gli uomini, che la geografia ci perfonda l’anima. «Noi siamo i figli del nostro paesaggio» diceva lo scrittore inglese Lawrence Durrell.
Quel soggiorno nella mia torretta di guardia mi ha avvicinato alla sostanza fisica dell’Odissea e dell’Iliade.
Henry Miller sosteneva che il viaggio in Grecia fosse punteggiato di «apparizioni spirituali». Per questo ho deciso di immergermi nella «materia» con cui Omero scolpì il suo poema.
La luce del cielo, il vento tra gli alberi, le isole avvolte dalla nebbia, le ombre sul mare, le tempeste: ho sentito l’eco dell’araldica antica. Ogni luogo ha il suo stemma distintivo. Quello della Grecia è frastagliato dal vento, trafitto di luce, drappeggiato di terre che affiorano dal mare. Ulisse aveva colto questi stessi segnali a bordo della propria nave. I soldati di Priamo e Agamennone li avevano percepiti sulla piana di Troia. Vivere nella geografia significa abbattere la distanza tra la carne del lettore e l’astrazione del testo.