La Locanda del Torrione non aveva un grande aspetto, ma a me piacciono queste stamberghe con le travi annerite dal tempo e dal fumo del focolare, edifici traballanti che presto non saranno che un ricordo. Appartengono al passato, si ricollegano alla storia, sono la continuazione di qualcosa e fanno pensare ai vecchi racconti di strada, quando sulla strada capitavano ancora avventure.
Vidi subito che la Locanda del Torrione aveva i suoi buoni due secoli, e forse perfino di più. Pietrame e calcinacci si erano staccati qua e là dalla solida armatura di legno, le cui X e V sopportavano ancora allegramente il tetto vetusto. Questo era scivolato leggermente sui suoi sostegni, come un berretto scivola sulla fronte di un ubriaco. Sopra la porta di ingresso, un’insegna di ferro cigolava per il vento autunnale. Un artista del luogo vi aveva dipinto una sorta di torre sormontata da un tetto aguzzo e da una lanterna come se ne vedono al castello di Glandier. Sotto quell’insegna, sulla soglia, un uomo dall’aspetto piuttosto arcigno sembrava immerso in pensieri assai ombrosi, stando alle pieghe della sua fronte e al misero accostamento delle folte sopracciglia.
Quando gli fummo vicino, ci degnò di uno sguardo e ci domandò in un modo poco caloroso se avevamo bisogno di qualcosa. Era, senza alcun dubbio, l’ospite poco cortese di quell’affascinante dimora. Dal momento che manifestammo la speranza che volesse servirci da mangiare, ci confessò che non aveva alcuna provvista e che avrebbe avuto difficoltà nell’accontentarci; e, dicendo questo, ci fissava con uno sguardo la cui diffidenza non riuscivo a spiegarmi.
«Potete pure accoglierci» gli disse Rouletabille, «non siamo della polizia».
«Non ho paura della polizia» rispose l’uomo. «Non ho paura di nessuno».
Stavo già facendo capire al mio amico con un cenno che sarebbe stato meglio non insistere, ma Rouletabille, che evidentemente ci teneva a entrare in quella locanda, scivolò sotto la spalla dell’uomo ed entrò nella sala.
«Venite» mi disse, «si sta molto bene qui».
In effetti, un grande fuoco ardeva nel camino. Ci avvicinammo e tendemmo le mani verso il calore del focolare perché, quella mattina, si sentiva già arrivare l’inverno. Il locale era piuttosto ampio: lo arredavano due spesse tavole di legno, qualche sgabello, un bancone su cui erano allineate bottiglie di sciroppo e generi alcolici. Tre finestre davano sulla strada. Un cartellone pubblicitario, sul muro, sotto le fattezze di una giovane parigina che sollevava sfacciatamente un bicchiere, vantava le virtù aperitive di un nuovo vermut. Sulla mensola dell’ampio camino, il locandiere aveva disposto un gran numero di vasi e di brocche di ceramica e di terraglia.
«Ecco un bel camino per fare arrostire un pollo!» disse Rouletabille.
«Non abbiamo polli» fece l’oste; «e nemmeno uno straccio di coniglio».
«So» disse il mio amico con una voce beffarda che mi sorprese, «so che ora bisognerà mangiare carne al sangue».
Confesso che non comprendevo niente della frase di Rouletabille. Perché diceva a quell’uomo: «Ora bisognerà mangiare carne al sangue»? E perché il locandiere, non appena ebbe udito quella frase, si lasciò sfuggire una bestemmia che subito soffocò e si mise a nostra disposizione con la stessa docilità di Robert Darzac quando aveva udito quelle parole fatidiche: «Il presbiterio non ha perduto nulla del suo fascino, né il giardino del suo splendore»? Decisamente il mio amico aveva il dono di farsi comprendere dalla gente usando frasi del tutto incomprensibili. Glielo feci osservare e lui sorrise. Avrei preferito che si degnasse di darmi qualche spiegazione, ma si mise un dito sulla bocca, il che evidentemente significava che non solo avrebbe evitato di parlare ma anche che mi raccomandava il silenzio. Nel frattempo l’uomo, spingendo una porticina, aveva ordinato gridando una mezza dozzina di uova e «il pezzo di controfiletto». La commissione fu presto eseguita da una giovane donna molto vezzosa, dai meravigliosi capelli biondi: i suoi occhi grandi e belli ci guardarono con curiosità.
Il locandiere le disse con voce rude: «Vattene! E se arriva l’uomo verde, che non ti veda!»
La giovane scomparve mentre Rouletabille si impadronì delle uova che gli portarono in una tazza e della carne che gli servirono su un piatto, sistemò tutto per precauzione di fianco a sé nel camino, staccò una padella e una griglia appese nel focolare e cominciò a sbattere la nostra omelette aspettando che il fuoco cuocesse la carne. Ordinò ancora all’uomo due buone bottiglie di sidro e pareva che il suo ospite gli fosse altrettanto indifferente quanto invece questo era preoccupato di lui. L’uomo a volte lo covava con gli occhi, a volte mi guardava con un’aria ansiosa che cercava invano di dissimulare. Ci lasciò cucinare e mise i nostri coperti accanto a una finestra.
D’un tratto, lo sentii mormorare: «Ah, eccolo!» E, con il volto sconvolto, che non esprimeva nient’altro che un odio atroce, andò ad appiccicarsi alla finestra e a guardare la strada. Non ebbi bisogno di avvertire Rouletabille. Il giovane aveva già abbandonato la sua omelette e raggiunto l’oste alla finestra. Ci andai anch’io.
Un uomo, tutto vestito di velluto verde, la testa coperta da un berretto rotondo dello stesso colore, avanzava a passo tranquillo sulla strada, fumando la pipa. Portava un fucile a tracolla e mostrava nei suoi movimenti una spigliatezza quasi aristocratica. Poteva avere quarantacinque anni. I capelli e i baffi erano brizzolati. Era notevolmente bello. Portava un binocolo. Quando passò vicino alla locanda, parve esitare, domandandosi se entrare o meno: gettò uno sguardo dalla nostra parte, fece qualche boccata dalla pipa e, con lo stesso passo noncurante, riprese la sua passeggiata.
Io e Rouletabille guardammo l’oste. I suoi occhi folgoranti, i pugni chiusi, la bocca tremante, ci ragguagliavano sui sentimenti tumultuosi che lo agitavano.
«Ha fatto bene a non entrare oggi!» sbuffò.
«Chi è quell’uomo?» domandò Rouletabille ritornando alla sua omelette.
«L’uomo verde» brontolò il locandiere. «Non lo conoscete? Tanto meglio per voi. Non è una conoscenza da fare… È il guardiano del signor Stangerson».
«Non mi sembra che vi piaccia granché, vero?» domandò il cronista versando l’omelette nella padella.
«A nessuno del paese piace, signore; e poi è un uomo orgoglioso, che un tempo doveva essere ricco; e non perdona a nessuno di essersi visto costretto a fare il domestico per vivere. Perché un guardiano è un servo come un altro, non è vero? Parola d’onore! Si direbbe che sia lui il padrone di Glandier, che tutte le terre e tutti i boschi appartengano a lui. Non permetterebbe a un povero di mangiare un pezzo di pane sull’erba, sulla sua erba!»
«Viene qui qualche volta?»
«Ci viene troppo spesso. Ma gli farò capire che la sua faccia non mi piace. Fino a un mese fa non mi faceva imbestialire. La Locanda del Torrione non era mai esistita per lui. Non aveva tempo. Doveva fare la corte all’ostessa dei Tre Gigli, a Saint-Michel. Ora che ha avuto dei problemi in amore, cerca di passare il tempo altrove… Donnaiolo, sciupafemmine, un esseraccio. Nessun uomo onesto lo potrebbe sopportare, quel tipo lì. Vedete, i custodi del castello non potevano vederlo nemmeno dipinto, l’uomo verde».
«Dunque i custodi del castello sono persone oneste, signor locandiere?»
«Chiamatemi Mathieu; è il mio nome… Ebbene, come è vero che mi chiamo Mathieu, sì, signore, li giudico onesti».
«Tuttavia li hanno arrestati».
«Questo che cosa prova? Ma non voglio immischiarmi negli affari altrui…»
«E cosa pensate dell’attentato?»
«Dell’attentato a quella povera signorina? Una brava ragazza, davvero, molto amata in paese. Che cosa ne penso?»
«Sì, che cosa ne pensate».
«Niente… e tante cose… Ma questo non riguarda nessuno».
«Nemmeno me?» insistette Rouletabille.
Il locandiere lo guardò di traverso, brontolò e disse: «Nemmeno voi».
L’omelette era pronta; ci mettemmo a tavola e mangiammo in silenzio quando la porta d’ingresso si aprì e una vecchia vestita di stracci, appoggiata a un bastone, la testa barcollante, i capelli bianchi che pendevano in ciocche sulla fronte incrostata, apparve sulla soglia.
«Ah, eccovi, comare Genuflessa! Era molto tempo che non vi si vedeva!» fece il nostro ospite.
«Sono stata molto malata, in punto di morte» disse la vecchia. «Non avete per caso degli avanzi per la Bestia del Buon Dio?» Ed entrò nella locanda, seguita da un gatto così grosso che non immaginavo ne potessero esistere. L’animale ci guardò e fece udire un miagolio così disperato che mi sentii rabbrividire. Non avevo mai sentito un grido tanto lugubre.
Come se fosse stato attirato da quel grido, un uomo entrò dietro la vecchia. Era l’‘uomo verde’. Ci salutò con un cenno della mano sul berretto e si sedette al tavolo accanto al nostro.
«Datemi un bicchiere di sidro, compare Mathieu».
Quando l’uomo verde era entrato, compare Mathieu aveva avuto un fremito violento di tutta la persona contro il nuovo venuto; ma si controllò, visibilmente, e rispose: «Non c’è più sidro, ho dato le ultime bottiglie a questi signori».
«Allora datemi un bicchiere di vino bianco» fece l’uomo verde senza mostrare il minimo stupore.
«Non c’è più vino bianco, non c’è più niente!» Compare Mathieu ripeté con voce sorda: «Non c’è più niente».
«Come sta la signora Mathieu?»
A questa domanda dell’uomo verde, il locandiere strinse i pugni, si girò verso di lui, il volto così scuro che credetti stesse per picchiarlo, e poi disse: «Sta bene, grazie».
Così la giovane donna dagli occhi grandi e dolci che avevamo visto poco prima era la moglie di quello zoticone ripugnante e brutale, di cui tutti i difetti fisici sembravano dominati da un difetto morale: la gelosia.
Sbattendo la porta, il locandiere abbandonò la stanza. Comare Genuflessa era sempre lì, in piedi, appoggiata al bastone, il gatto sotto la gonna.
L’uomo verde le domandò: «Siete stata malata, comare Genuflessa, ché non vi si è vista da ben otto giorni?»
«Sì, signor guardiano. Mi sono alzata soltanto tre volte per andare a pregare santa Genoveffa, la nostra buona patrona, e il resto del tempo sono stata stesa sul mio giaciglio. A curarmi c’era solo la Bestia del Buon Dio».
«Non vi ha mai lasciata?»
«Né di giorno né di notte».
«Ne siete sicura?»
«Come del paradiso».
«Allora come è possibile, comare Genuflessa, che per tutta la notte del delitto non abbiamo sentito altro che il grido della Bestia del Buon Dio?»
Comare Genuflessa andò a piantarsi di fronte al guardiano e colpì il pavimento con il bastone: «Non ne so niente di niente. Ma cosa volete che vi dica? Non esistono al mondo due bestie che hanno quel grido… Ebbene, anch’io, la notte del crimine, ho sentito, fuori, il grido della Bestia del Buon Dio; eppure lei era sulle mie ginocchia, signor guardiano, e non ha miagolato nemmeno una volta, ve lo giuro. Mi sono fatta il segno della croce, quando ho udito quell’urlo, come se avessi udito il diavolo!»
Osservavo il guardiano mentre faceva quest’ultima domanda e sono certo di non sbagliarmi se dico di aver sorpreso sulle sue labbra un sorriso malvagio e beffardo.
In quel momento, giunse fino a noi lo schiamazzo di un acuto litigio. Ci parve perfino di udire dei colpi sordi, come se picchiassero a sangue qualcuno. L’uomo verde si alzò e corse risoluto alla porta di fianco al camino ma questa si aprì e l’oste, che era apparso, disse al guardiano: «Non temete, signor guardiano; è mia moglie che ha mal di denti» e sogghignò. «Tenete, comare Genuflessa, ecco del polmone per il vostro gatto».
Tese alla vecchia un pacchetto; quest’ultima lo afferrò avidamente e uscì, sempre seguita dal suo gatto.
L’uomo verde domandò: «Non volete servirmi nulla?»
Compare Mathieu non trattenne più il suo odio: «Per voi non c’è niente! Per voi non c’è niente! Andatevene!»
L’uomo verde, tranquillamente, caricò la pipa, l’accese, ci salutò e uscì. Non aveva ancora varcato la soglia che Mathieu gli sbatté la porta alle spalle e, girandosi verso di noi, gli occhi iniettati di sangue, la bocca schiumante, ci sussurrò, il pugno teso verso la porta appena chiusa dietro all’uomo che detestava: «Non so chi siate voi che venite a dirmi: ‘Ora bisognerà mangiare carne al sangue’. Ma forse questo vi interessa: l’assassino è quello lì».
Non appena ebbe finito di parlare, compare Mathieu se ne andò. Rouletabille si voltò verso il focolare e disse: «Ora ci cuciniamo la nostra bistecca. Come trovate il sidro? Un po’ aspro, come piace a me».
Quel giorno non rivedemmo più Mathieu e un silenzio profondo regnava nella locanda quando ce ne andammo, dopo aver lasciato cinque franchi sulla nostra tavola per pagargli la nostra scorpacciata.
Rouletabille mi fece subito fare quasi una lega intorno alla proprietà del professor Stangerson. Si fermò dieci minuti, all’angolo di un sentierino tutto nero di fuliggine, vicino alle capanne dei carbonai che si trovano in quella parte della foresta di Santa Genoveffa che costeggia la strada che va da Epinay a Corbeil, e mi confidò che l’assassino era certamente passato di lì, «visto lo stato delle scarpe volgari», prima di penetrare nella proprietà e di andare a nascondersi nel bosco.
«Dunque non credete che il guardiano sia coinvolto nel caso?» lo interruppi.
«Lo vedremo più tardi» mi rispose. «Per il momento, ciò che ha detto l’oste di quest’uomo non mi interessa. Ne ha parlato con odio. Non è a causa dell’uomo verde che vi ho portato a mangiare al Torrione».
Detto questo, Rouletabille, con grande circospezione, si insinuò – e io mi insinuai dietro di lui – fino all’edificio vicino al cancello, che fungeva da alloggio ai custodi arrestati quella stessa mattina. Si introdusse nella casetta con un’acrobazia che destò la mia ammirazione, attraverso un lucernario posteriore rimasto aperto, e ne uscì dieci minuti più tardi, pronunciando quella parola che, in bocca a lui, assumeva così tanti significati: «Perbacco!»
Proprio mentre stavamo per riprendere il sentiero verso il castello, al cancello ci fu un gran movimento. Stava arrivando una carrozza e, dal castello, qualcuno le andava incontro. Rouletabille mi indicò un uomo che ne discendeva: «Ecco il capo della Sicurezza; andiamo a vedere quel che ha in mente Frédéric Larsan, e se è davvero il più furbo di tutti…»
Dietro la carrozza del capo della Sicurezza seguivano altre tre carrozze, stipate di giornalisti che volevano anche loro entrare nel parco. Ma misero al cancello due gendarmi, con il divieto di lasciar passare chicchessia. Il capo della Sicurezza calmò la loro impazienza prendendosi l’impegno di dare alla stampa, la sera stessa, tutte le informazioni possibili che non intralciassero il corso dell’inchiesta.