Soltanto più tardi Rouletabille mi affidò questo taccuino, in cui, il mattino seguente a quella notte enigmatica, aveva ripercorso per intero la storia del fenomeno della ‘galleria inspiegabile’. Il giorno in cui lo raggiunsi a Glandier nella sua camera, mi raccontò nei dettagli tutto quello che ora sapete, compreso in che modo, durante quella settimana, trascorse poche ore a Parigi, dove del resto non doveva venire a sapere niente che gli fosse utile.
L’avvenimento della galleria inspiegabile era sopraggiunto nella notte tra il 29 e il 30 ottobre, vale a dire tre giorni prima del mio ritorno al castello, dato che eravamo al 2 novembre. Dunque è il 2 novembre che io ritorno a Glandier, chiamato dal telegramma del mio amico, portando con me le rivoltelle.
Sono nella camera di Rouletabille; ha appena terminato il suo resoconto.
Mentre parlava, non aveva mai smesso di accarezzare la convessità delle lenti che aveva trovato sul tavolino, e capivo, dalla gioia che provava nel manipolare quegli occhiali da presbite, che questi dovevano costituire una di quelle «tracce sensibili destinate a entrare nel cerchio tracciato dal verso giusto della sua ragione». Questo modo bizzarro, unico, che aveva di esprimersi utilizzando termini meravigliosamente adeguati al suo pensiero non mi sorprendeva più; ma spesso bisognava conoscere il suo pensiero per comprendere i termini, e non era sempre facile penetrare la mente di Joseph Rouletabille. Il pensiero di questo ragazzo era una delle cose più curiose che avessi mai avuto modo di osservare. Rouletabille portava a spasso nella sua vita quel pensiero senza sospettare lo stupore – diciamo la parola giusta – lo sbigottimento che incontrava sul suo cammino. La gente voltava la testa verso quel pensiero, lo guardava passare, allontanarsi, come ci si ferma per considerare meglio una figura originale che si incrocia sulla propria strada. E come si dice: «Da dove viene quello lì? Dove va?», così si diceva: «Da dove viene il pensiero di Joseph Rouletabille, e dove va?» Confesso che lui non si rendeva conto dell’originale coloritura del suo pensiero; e così non lo disturbava affatto portarlo a spasso, come tutti, nella vita. Allo stesso modo, un individuo che non sospetta del proprio abbigliamento eccentrico è del tutto a proprio agio, qualunque sia il luogo che attraversa. Dunque è con una semplicità naturale che questo ragazzo, irresponsabile del proprio cervello soprannaturale, esprimeva cose formidabili per la loro logica stringente, tanto stringente che non potevamo, noi altri, comprenderne la forma se non quando si decideva a distenderla davanti ai nostri occhi meravigliati e a presentarla di prospetto nella sua posizione naturale.
Joseph Rouletabille mi domandò cosa pensassi del racconto che mi aveva appena fatto. Gli risposi che la sua domanda mi imbarazzava molto, al che mi replicò che cercassi a mia volta di ragionare per il verso giusto.
«Ebbene» dissi, «mi sembra che il punto di partenza del mio ragionamento debba essere il seguente: non ci sono dubbi che l’assassino che inseguivate sia stato, per un momento dell’inseguimento, nella galleria».
E mi fermai.
«Dopo essere partito così bene» esclamò, «non dovreste fermarvi così presto. Suvvia, un piccolo sforzo».
«Ci proverò. Dal momento che era nella galleria e che ne è scomparso, dato che non ha potuto passare né da una porta né da una finestra, deve essere scappato da un’altra apertura».
Joseph Rouletabille mi considerò con pietà, sorrise svogliatamente e non esitò a confidarmi che continuavo a ragionare «come una ciabatta».
«Che dico, come una ciabatta. Voi ragionate come Frédéric Larsan!»
Perché Joseph Rouletabille alternava periodi di ammirazione e di disprezzo per Frédéric Larsan; a volte esclamava: «È veramente bravo!», a volte gemeva: «Che bruto!», a seconda che – e l’avevo ben osservato – a seconda che le scoperte di Frédéric Larsan venissero a corroborare il suo ragionamento o lo contraddicessero. Era una piccineria, nel carattere nobile di questo strano ragazzo.
Ci eravamo alzati e mi condusse nel parco. Come ci trovammo nel cortile d’onore, dirigendoci verso l’uscita, un rumore di imposte sbattute contro il muro ci fece girare la testa e vedemmo al primo piano dell’ala sinistra del castello, a una finestra, un volto scarlatto e completamente rasato che non conoscevo.
«Quello» mormorò Joseph Rouletabille, «è Arthur Rance».
Abbassò la testa, affrettò il passo e lo sentii che diceva tra i denti: «Dunque questa notte era al castello? Che cosa è venuto a fare?»
Quando fummo abbastanza lontani dal castello, gli chiesi chi era quell’Arthur Rance e come l’aveva conosciuto. Allora mi rammentò il suo racconto di quella mattina: il signor Arthur W. Rance era l’americano di Filadelfia con il quale aveva così abbondantemente brindato al ricevimento dell’Eliseo.
«Ma non doveva lasciare la Francia quasi subito?» domandai.
«Proprio così; per questo mi vedete stupito di trovarlo non solo ancora in Francia, ma anche, soprattutto, a Glandier. Non è arrivato stamattina; dunque sarà arrivato prima di cena e io non l’ho affatto visto. Come mai i custodi non mi hanno avvertito?»
Feci notare al mio amico che, a proposito dei custodi, non mi aveva ancora detto come si era adoperato per farli rimettere in libertà.
Ci avvicinavamo proprio alla portineria; compare e comare Bernier ci guardavano arrivare. Un bel sorriso illuminava i loro volti floridi. Sembravano non aver conservato nessun cattivo ricordo della loro detenzione preventiva. Il mio giovane amico domandò loro a che ora era arrivato Arthur Rance. Gli risposero che ignoravano che Arthur Rance fosse al castello. Doveva essersi presentato la sera precedente, ma non erano stati loro ad aprirgli il cancello, dato che il signor Arthur Rance, che era, a quanto pareva, un gran camminatore e non voleva che si andasse a prenderlo con la carrozza, aveva l’abitudine di scendere alla stazione del piccolo borgo di Saint-Michel; da lì si incamminava nella foresta fino al castello. Arrivava nel parco attraverso la grotta di Santa Genoveffa: scendeva in questa grotta, scavalcava un cancelletto e si ritrovava nel parco.
A mano a mano che i custodi parlavano, vedevo il volto di Rouletabille adombrarsi, manifestare un certo malcontento e, indubbiamente, un malcontento nei propri stessi confronti. Evidentemente era un po’ offeso dal fatto che, avendo lavorato sul posto, avendo studiato le persone e le cose di Glandier con un’attenzione meticolosa, dovesse ancora venire a sapere che Arhur Rance aveva l’abitudine di venire al castello.
Imbronciato, domandò spiegazioni.
«Dite che il signor Arthur Rance ha l’abitudine di venire al castello… Ma dunque quando è venuto l’ultima volta?»
«Non sapremmo dirvelo esattamente» rispose il signor Bernier – era il nome del custode –, «dato che non potevamo sapere niente mentre eravamo tenuti in prigione e poi perché se questo signore, quando viene al castello, non passa per il nostro cancello, non ci passa nemmeno quando se ne va…»
«Almeno, sapete quando è venuto per la prima volta?»
«Oh, sì, signore, nove anni fa».
«Dunque è venuto in Francia nove anni fa» rispose Rouletabille; «e di recente, a quanto ne sapete, quante volte è venuto a Glandier?»
«Tre volte».
«Quando è venuto a Glandier per l’ultima volta, a quanto ne sapete, prima di oggi?»
«Una settimana prima dell’attentato della camera gialla».
Rouletabille domandò ancora, rivolto soprattutto alla donna: «Nella scanalatura del pavimento?»
«Nella scanalatura del pavimento» rispose.
«Grazie» fece Rouletabille, «e preparatevi per stasera».
Pronunciò quest’ultima frase, un dito sulla bocca, per raccomandare silenzio e discrezione.
Uscimmo dal parco e ci dirigemmo verso la Locanda del Torrione.
«Andate qualche volta a mangiare alla locanda?»
«Qualche volta».
«Ma pranzate anche al castello?»
«Sì, io e Larsan ci facciamo servire talvolta in una delle camere, talvolta nell’altra».
«Il signor Stangerson non vi ha mai invitato alla sua tavola?»
«Mai».
«Forse la vostra presenza a casa sua lo ha stancato?»
«Non ne so niente, ma in ogni caso si comporta come se non lo disturbassimo».
«Non vi chiede mai niente?»
«Mai. È rimasto nello stesso stato d’animo dell’uomo che era fuori dalla camera gialla mentre tentavano di assassinare sua figlia, che ha sfondato la porta e che non ha trovato l’assassino. È persuaso che, dal momento che non ha potuto, sul fatto, scoprire niente, a maggior ragione noi altri non potremo scoprire di più… Ma si è fatto un dovere, dopo l’ipotesi di Larsan, di non contrariare le nostre illusioni».
Rouletabille si immerse di nuovo nelle sue riflessioni. Ne uscì infine per rivelarmi come aveva liberato i due custodi.
«Ultimamente, sono andato a trovare il signor Stangerson con un foglio di carta. Gli ho detto di scrivere su quel foglio queste parole: ‘Mi impegno, qualunque cosa possano dire, a mantenere a servizio i miei due fedeli servitori, Bernier e sua moglie’, e a firmarlo. Gli spiegai che con quella frase sarei stato in grado di far parlare il custode e sua moglie e gli dichiarai che ero sicuro che non c’entravano affatto nel crimine. Del resto, questa è sempre stata la mia opinione. Il giudice istruttore presentò quel foglio firmato ai Bernier che, allora, parlarono. Dissero quello che ero sicuro avrebbero detto, non appena si levasse loro la paura di perdere il posto. Raccontarono che cacciavano di frodo sulle proprietà del signor Stangerson e che era una sera di bracconaggio quella in cui si trovarono non lontani dal padiglione al momento del dramma. I pochi conigli che si procuravano così, a scapito del signor Stangerson, venivano da loro venduti al padrone della Locanda del Torrione, che se ne serviva per la propria clientela o li smerciava su Parigi. Era la verità, l’avevo indovinata fin dal primo giorno. Ricordatevi di quella frase che dissi entrando nella Locanda del Torrione: ‘Ora bisognerà mangiare carne al sangue’. Quella frase l’avevo sentita quella stessa mattina, quando arrivammo davanti al cancello del parco, e l’avete sentita anche voi, ma non le avete dato alcuna importanza. Ricorderete che, nel momento in cui stavamo per raggiungere il cancello, ci siamo fermati un istante a guardare un uomo che, davanti al muro del parco, faceva cento passi consultando a ogni istante il suo orologio. Quell’uomo era Frédéric Larsan che era già al lavoro. Ora, alle nostre spalle, il padrone della locanda, sulla soglia, diceva a qualcuno che si trovava all’interno: ‘Ora bisognerà mangiare carne al sangue’.
«Perché quell’‘ora’? Quando si è, come me, alla ricerca della verità più misteriosa, non ci si lascia scappare niente, né di ciò che si vede né di ciò che si sente. A ogni cosa bisogna trovare un senso. Arrivavamo in un piccolo paese che era stato appena sconvolto da un crimine. La logica mi conduceva a sospettare che ogni frase pronunciata potesse essere riconducibile all’avvenimento del giorno. ‘Ora’ per me significava: ‘Da dopo l’attentato’. Dunque, dall’inizio delle mie indagini, cercavo di trovare una correlazione tra quella frase e il dramma. Andammo a mangiare al Torrione. Ripetei chiaro e tondo la frase e vidi, dalla sorpresa e dalla preoccupazione di compare Mathieu, che non avevo esagerato l’importanza di quelle parole. In quel momento, ero venuto a sapere dell’arresto dei custodi. Compare Mathieu ci parlò di quelle persone come si parla dei veri amici… che si rimpiangono… Fatale associazione di idee… mi dissi: ‘Ora’ che i custodi sono agli arresti, ‘bisognerà mangiare carne al sangue’. Niente più custodi, niente più cacciagione. Che cosa mi ha condotto a quest’idea precisa della ‘cacciagione’? L’odio espresso da compare Mathieu per il guardiano del signor Stangerson, odio, sosteneva, condiviso dai custodi, mi portò lentamente all’idea del bracconaggio. Ora, siccome, in tutta evidenza, i custodi non potevano essere nel loro letto al momento del dramma, perché erano fuori quella notte? C’entrava con il tentato omicidio? Non ero affatto disposto a crederlo, perché pensavo già, per ragioni che vi dirò più tardi, che l’assassino non avesse complici e che tutto questo dramma nascondeva un mistero fra la signorina Stangerson e l’assassino, mistero con il quale i custodi non avevano a che fare. La storia del bracconaggio spiegava tutto, riguardo ai custodi. Lo ammisi in principio e cercai una prova a casa loro, in portineria. Penetrai nella loro casupola, come sapete, e scoprii sotto il loro letto dei lacci e del filo di ottone. ‘Perbacco!’ pensai. ‘Perbacco! Ecco perché erano di notte nel parco’. Non mi stupii che avessero taciuto davanti al giudice e che, sotto la minaccia di un’accusa così grave come quella di complicità nel crimine, non avessero risposto subito confessando il bracconaggio. Il bracconaggio li salvava dalla corte d’assise ma li metteva alla porta del castello, e siccome erano perfettamente certi della propria innocenza riguardo al crimine, speravano che questa si scoprisse ben presto e che si continuasse a ignorare il bracconaggio. Avrebbero fatto sempre in tempo a parlare! Ho affrettato la loro confessione grazie all’impegno firmato dal signor Stangerson che feci loro vedere. Diedero tutte le prove necessarie, furono rimessi in libertà e concepirono per me una viva riconoscenza. Perché non li avevo fatti liberare prima? Perché non ero sicuro che nel loro caso si trattasse soltanto di bracconaggio. Volevo lasciarli fare e sondare il terreno. La mia convinzione divenne sempre più certa, a mano a mano che i giorni passavano. All’indomani della ‘galleria inspiegabile’, dato che avevo bisogno di persone devote, decisi di legarli subito a me facendo terminare la loro prigionia. Ecco qua!»
Così si espresse Joseph Rouletabille e non potei fare a meno di stupirmi, ancora una volta, della semplicità del ragionamento che l’aveva condotto alla verità in questa vicenda della complicità dei custodi. Certo, il caso era secondario, ma pensai tra me e me che quel giovane, uno di questi giorni, non avrebbe mancato di spiegarci con la stessa semplicità la formidabile notte della camera gialla e quella della galleria inspiegabile.
Eravamo arrivati alla Locanda del Torrione. Entrammo.
Questa volta non vedemmo l’oste ma fu la locandiera che ci accolse con un bel sorriso felice. Ho già descritto la sala in cui ci trovavamo e ho dato un’idea dell’affascinante donna bionda dagli occhi dolci, che si mise immediatamente a nostra disposizione per il pranzo.
«Come sta compare Mathieu?» domandò Rouletabille.
«Un po’ meglio, signore, un po’ meglio; è sempre a letto».
«Dunque i suoi reumatismi non lo lasciano mai?»
«Eh, no. Sono stata ancora obbligata, la notte scorsa, a fargli un’iniezione di morfina. C’è solo quella droga in grado di calmargli i dolori!»
Parlava con voce dolce; tutto, in lei, esprimeva dolcezza. Era davvero una bella donna, un po’ indolente, dai grandi occhi cerchiati, occhi di innamorata. Compare Mathieu, quando non aveva i reumatismi, doveva essere un bel fusto. Ma lei era felice con quel burbero reumatico? La scena alla quale avevamo assistito in precedenza non poteva farcelo credere, eppure, nell’atteggiamento di quella donna, c’era qualcosa che non denotava affatto disperazione. Scomparve in cucina per prepararci il pasto, lasciandoci sulla tavola una bottiglia di ottimo sidro. Rouletabille ce ne versò nei boccali, caricò la sua pipa, l’accese e, tranquillamente, mi spiegò infine la ragione che l’aveva spinto a farmi venire a Glandier con delle rivoltelle.
«Sì» disse seguendo con sguardo contemplativo le volute di fumo che tirava dalla sua pipa, «sì, mio caro amico, questa sera aspetto l’assassino».
Fece una breve pausa, che non osai interrompere; poi riprese: «Ieri sera, quando stavo per mettermi a letto, il signor Darzac bussò alla porta della mia camera. Gli aprii e lui mi confidò che aveva necessità di recarsi l’indomani mattina, vale a dire stamattina, a Parigi. La ragione che lo spingeva a questo viaggio era contemporaneamente perentoria e misteriosa, perentoria dal momento che gli era impossibile rinunciare al viaggio e misteriosa perché gli era ugualmente impossibile rivelarmene il motivo. ‘Io parto; tuttavia’, aggiunse, ‘darei metà della mia vita per non lasciare in questo momento la signorina Stangerson’. Non mi nascose che la credeva ancora una volta in pericolo. ‘Se accadesse qualcosa la prossima notte, non mi sorprenderei’, confessò, ‘tuttavia devo assentarmi. Non potrò essere di ritorno a Glandier che dopodomani mattina’.
«Gli chiesi delle spiegazioni ed ecco tutto quello che mi disse. Questa idea di un pericolo imminente gli veniva unicamente dalla coincidenza che esisteva tra le sue assenze e gli attentati di cui la signorina Stangerson era vittima. La notte della galleria inspiegabile aveva dovuto lasciare Glandier; la notte della camera gialla non avrebbe potuto essere a Glandier e, di fatto, noi sappiamo che non c’era. Perlomeno lo sappiamo ufficialmente, secondo le sue dichiarazioni. Se oggi si assentava di nuovo, pur gravato da una simile idea, era perché doveva ubbidire a una volontà più forte della sua. È quello che pensavo e che gli dissi. Mi rispose: ‘Forse!’ Gli domandai se quella volontà più forte della sua fosse quella della signorina Stangerson; mi giurò di no e che la decisione della partenza era stata presa da lui, al di fuori di qualsiasi direttiva della signorina Stangerson. In breve, mi ripeté che non credeva alla possibilità di un nuovo attentato se non a causa di quella straordinaria coincidenza che aveva notato e che il giudice istruttore, del resto, gli aveva fatto notare. ‘Se dovesse capitare qualcosa alla signorina Stangerson’, disse, ‘sarebbe terribile sia per lei sia per me; per lei, che si troverà, ancora una volta, tra la vita e la morte; per me, che non potrei difenderla in caso di attacco e che in seguito non potrei rivelare dove ho passato la notte. Ora, mi rendo perfettamente conto dei sospetti che pesano su di me. Il giudice istruttore e il signor Frédéric Larsan – quest’ultimo mi ha pedinato, l’ultima volta che mi sono recato a Parigi e ho avuto tutte le difficoltà di questo mondo a liberarmene – non sono lontani dal credermi colpevole’. ‘Perché non dite’, esclamai all’improvviso, ‘il nome dell’assassino, dal momento che lo conoscete?’ Il signor Darzac parve estremamente sconvolto dalla mia sicurezza. Mi rispose con voce esitante: ‘Io conosco il nome dell’assassino? Chi me lo avrebbe rivelato?’ Replicai subito: ‘La signorina Stangerson!’ Allora divenne talmente pallido che credetti che si sarebbe sentito male e vidi che avevo colto nel segno: lui e la signorina Stangerson sanno il nome dell’assassino! Quando si fu un po’ ripreso, mi disse: ‘Devo lasciarvi, signore. Da quando siete qui, ho potuto apprezzare la vostra intelligenza eccezionale e la vostra ingegnosità senza pari. Ecco il favore che vi chiedo. Forse ho torto a temere un attentato per domani notte; ma, dato che bisogna prevedere tutto, conto su di voi per rendere questo attentato impossibile… Prendete tutte le disposizioni necessarie per isolare e controllare la signorina Stangerson. Fate in modo che non si possa entrare nella sua camera. Sorvegliate intorno a quella camera come un buon cane da guardia. Non dormite. Non concedetevi nemmeno un secondo di riposo. L’uomo che temiamo è di un’astuzia prodigiosa, che forse non è ancora mai stata eguagliata al mondo. Questa stessa astuzia la salverà se vigilate; perché è impossibile che lui non sappia che vigilerete, a causa di quella stessa astuzia; e, se sa che vigilate, non tenterà niente’ ‘Avete parlato di queste cose al signor Stangerson?’ ‘No’. ‘Perché?’ ‘Perché non voglio, signore, che il signor Stangerson mi dica quello che mi avete detto poco fa: ‘Voi conoscete il nome dell’assassino!’ Se voi, voi vi siete stupito di quello che vi ho appena detto: ‘Forse l’assassino verrà domani’, quale sarebbe lo stupore del signor Stangerson se gli ripetessi la stessa cosa? Forse non ammetterà che il mio cupo pronostico sia basato soltanto su coincidenze, che finirebbe, anche lui, probabilmente, per ritenere strane… Vi dico tutto questo, signor Rouletabille, perché ho una grande… una grande fiducia in voi… So che voi non mi sospettate!’
«Il pover’uomo» continuò Rouletabille, «mi rispondeva come poteva, a tentoni. Soffriva. Ebbi pietà di lui, tanto più che mi rendevo perfettamente conto che si sarebbe fatto uccidere piuttosto che dirmi chi era l’assassino, come la signorina Stangerson si sarebbe fatta assassinare piuttosto di denunciare l’uomo della camera gialla e della galleria inspiegabile. L’uomo deve tenerla in pugno o deve tenerli in pugno tutti e due, in un modo terribile, e non devono temere nulla quanto vedere che il signor Stangerson sa che sua figlia è tenuta in pugno dal suo assassino. Feci comprendere al signor Darzac che si era spiegato a sufficienza e che non aveva bisogno di aggiungere altro, dal momento che non poteva rivelarmi più niente. Gli promisi di vigilare e di non andare a dormire durante la notte. Insistette perché organizzassi una vera e propria barriera invalicabile intorno alla camera della signorina Stangerson, intorno al boudoir dove dormivano le due cameriere e intorno al salotto dove dormiva, dopo la galleria inspiegabile, il signor Stangerson; in breve, intorno a tutto l’appartamento. Compresi, dalla sua insistenza, che il signor Darzac mi chiedeva non solo di rendere impossibile l’accesso alla camera della signorina Stangerson, ma anche di rendere quell’accesso così visibilmente impossibile da scoraggiare subito l’uomo e farlo sparire senza lasciare traccia. È così che spiegai la frase finale con cui mi salutò: ‘Quando sarò partito, potrete parlare dei vostri sospetti per questa notte al signor Stangerson, a compare Jacques, a Frédéric Larsan, a tutte le persone del castello, e organizzare così, fino al mio ritorno, una sorveglianza di cui, agli occhi di tutti, soltanto voi avrete avuto l’idea’.
«Se ne andò, il pover’uomo, non sapendo più quel che diceva, davanti al mio silenzio e ai miei occhi che gli gridavano che avevo indovinato i tre quarti del suo segreto. Sì, sì, davvero, doveva essere completamente smarrito, per essere venuto da me in un momento simile e per abbandonare la signorina Stangerson, pur avendo nella testa quell’idea terribile della ‘coincidenza’…
«Quando se ne fu andato, mi misi a riflettere. Riflettei su questo, che bisognava essere più astuti della stessa astuzia, in modo tale che l’uomo, se doveva andare, stanotte, nella camera della signorina Stangerson, non dubitasse nemmeno un secondo che sospettassimo del suo arrivo. Certo! Impedirgli di entrare, anche a costo della morte, ma lasciarlo avanzare quanto basta perché, vivo o morto, potessimo vederne chiaramente il volto! Perché bisognava finirla, bisognava liberare la signorina Stangerson da quell’assassinio latente!
«Sì, amico mio» dichiarò Rouletabille dopo aver posato la pipa sulla tavola e aver vuotato il suo bicchiere, «devo vedere distintamente il volto, tanto per essere sicuro che entri nel cerchio che ho tracciato con il verso giusto della mia ragione».
In quel momento, fece la sua riapparizione la locandiera portando la tradizionale omelette al lardo. Rouletabille si prese qualche piccola libertà con la signora Mathieu e quest’ultima si mostrò di spirito affascinante.
«È molto più allegra» mi disse, «quando compare Mathieu è inchiodato a letto dai suoi reumatismi che non quando sta bene!»
Ma io non badavo né ai giochi di Rouletabille né ai sorrisi della locandiera; ero tutto concentrato sulle ultime parole del mio giovane amico e sullo strano modo di procedere del signor Robert Darzac.
Dopo che ebbe finito la sua omelette e fummo di nuovo soli, Rouletabille riprese il corso delle sue confidenze: «Quando stamattina, nelle prime ore, vi ho inviato il mio telegramma, ero rimasto» mi disse, «alle parole del signor Darzac: ‘L’assassino forse verrà la prossima notte’. Adesso posso dirvi che verrà sicuramente. Sì, lo aspetto».
«E che cosa vi ha dato questa certezza? Non sarà per caso…?»
«Tacete» mi interruppe sorridendo Rouletabille, «tacete, state per dire una sciocchezza. Sono sicuro che l’assassino verrà da stamattina, alle dieci e mezzo, vale a dire prima del vostro arrivo e, di conseguenza, prima che avessimo visto Arthur Rance alla finestra del cortile d’onore…»
«Ah!» feci. «Davvero… ma allora perché ne siete sicuro dalle dieci e mezzo?»
«Perché alle dieci e mezzo ho avuto la prova che la signorina Stangerson faceva tanti sforzi per permettere all’assassino di penetrare nella sua camera, questa notte, che il signor Robert Darzac, rivolgendosi a me, aveva preso delle precauzioni perché non ci entrasse…»
«Oh oh!» esclamai. «È davvero possibile!» E a voce più bassa: «Non mi avete detto che la signorina Stangerson adorava il signor Robert Darzac?»
«Ve l’ho detto perché è la verità».
«Allora, non trovate bizzarro…»
«Tutto è bizzarro in questa vicenda, amico mio, ma sappiate che il bizzarro che conoscete non è niente rispetto al bizzarro che vi aspetta!»
«Bisognerà ammettere» dissi ancora, «che la signorina Stangerson e il suo assassino abbiano tra di loro delle relazioni almeno epistolari».
«Ammettiamolo, amico mio, ammettiamolo! Non rischiate niente. Vi ho raccontato la storia della lettera sul tavolo della signorina, lettera lasciata dall’assassino la notte della galleria inspiegabile, lettera scomparsa nella tasca della signorina Stangerson… Chi potrebbe pretendere che in quella lettera l’assassino non abbia intimato alla signorina Stangerson di dargli un prossimo appuntamento effettivo e infine che non abbia fatto sapere alla signorina Stangerson, non appena era stato certo della partenza del signor Darzac, che questo appuntamento doveva essere per la notte seguente?»
E il mio amico sogghignò in silenzio; c’erano momenti in cui mi domandavo se non si prendesse gioco di me.
La porta della locanda si aprì. Rouletabille si alzò in piedi così rapidamente che si sarebbe potuto pensare che avesse ricevuto, da sotto la sedia, una scarica elettrica.
«Il signor Arthur Rance!» esclamò.
Il signor Arthur Rance era davanti a noi e, flemmaticamente, salutava.