La signorina Stangerson aveva evitato di essere assassinata per la seconda volta. La sfortuna fu che ne ebbe molto più male che dalla prima. Le tre coltellate che l’uomo le aveva inferto nel petto, in quella nuova tragica notte, la tennero a lungo tra la vita e la morte e quando, alla fine, la vita fu più forte e si poté sperare che la sventurata ragazza, anche questa volta, sfuggisse al suo destino sanguinoso, ci si rese conto che, se ogni giorno riprendeva l’uso dei propri sensi, non ritrovava quello della ragione. La benché minima allusione all’orribile tragedia la faceva delirare, e non è esagerato, credo, dire che l’arresto del signor Robert Darzac, che ebbe luogo al castello di Glandier il giorno successivo alla scoperta del cadavere del guardiano, scavò ancora di più l’abisso morale in cui vedemmo scomparire quella bella intelligenza.
Il signor Darzac arrivò al castello verso le nove e mezzo. Lo vidi accorrere attraverso il parco, i capelli e gli abiti in disordine, inzaccherato, infangato, in uno stato pietoso. Il suo viso era di un pallore mortale. Io e Rouletabille eravamo appoggiati con i gomiti a una finestra della galleria. Ci vide; lanciò verso di noi un grido disperato: «Arrivo troppo tardi…»
Rouletabille gli urlò: «È viva!»
Un minuto dopo, il signor Darzac entrava nella camera della signorina Stangerson e, attraverso la porta, udimmo i suoi singhiozzi.
«Fatalità» gemeva di fianco a me Rouletabille. «Quali dei dell’inferno vigilano dunque sulla sventura di questa famiglia! Se non mi fossi addormentato, avrei salvato la signorina Stangerson dall’uomo e gli avrei tappato la bocca per sempre… e il guardiano non sarebbe morto!»
Il signor Darzac venne a trovarci. Era in lacrime. Rouletabille gli raccontò ogni cosa: come aveva preparato tutto per la loro salvezza, sua e della signorina Stangerson; come sarebbe riuscito ad allontanare l’uomo per sempre, dopo aver visto il suo volto; e come il suo piano era crollato nel sangue, a causa del narcotico.
«Ah, se aveste avuto realmente fiducia in me» disse a voce bassa il mio giovane amico, «se aveste detto alla signorina Stangerson di aver fiducia in me! Ma qui ciascuno diffida di tutti… la figlia diffida del padre… e la fidanzata diffida del fidanzato… Mentre mi dicevate di fare il possibile per impedire l’arrivo dell’omicida, lei predisponeva tutto per farsi assassinare. E sono arrivato troppo tardi… mezzo addormentato… quasi trascinandomi, in quella camera dove la vista della sventurata, immersa nel proprio sangue, mi risvegliò del tutto…»
Dietro richiesta del signor Darzac, Rouletabille raccontò la scena. Appoggiandosi alle pareti per non cadere, mentre noi seguivamo l’assassino nell’atrio e nel cortile d’onore, si era diretto verso la camera della vittima… Le porte dell’anticamera sono aperte; entra; la signorina Stangerson giace, esanime, mezzo rovesciata sulla scrivania, gli occhi chiusi; la sua camicia da notte è rossa del sangue che le scorre a fiotti dal petto. Rouletabille, ancora sotto l’effetto del narcotico, crede di vagare in qualche incubo spaventoso. Automaticamente, ritorna nella galleria, apre una finestra, ci annuncia il crimine, ci ordina di sparare e ritorna nella camera. Subito dopo, attraversa il boudoir deserto, entra nel salotto, la cui porta è rimasta socchiusa, scuote il signor Stangerson sul divano dove è disteso e lo sveglia come io ho svegliato lui, poco prima… Il signor Stangerson si alza con gli occhi stravolti, si lascia trascinare da Rouletabille fino alla camera, vede sua figlia, lancia un grido straziante… Ah, si è svegliato! Si è svegliato! Tutti e due ora, riunendo le loro malcerte forze, trasportano la vittima sul suo letto.
Poi Rouletabille decide di raggiungerci, per sapere… per sapere, ma, prima di uscire dalla camera, si ferma vicino alla scrivania. Là, per terra, c’è un pacco… enorme… un fagotto… Che cosa ci fa quel pacco vicino alla scrivania? L’involucro di sargia che lo avvolge è slegato… Rouletabille si china… Carte… carte… fotografie… Legge: «Nuovo elettroscopio condensatore differenziale… Proprietà fondamentali della sostanza intermedia fra la materia ponderabile e l’etere imponderabile». Davvero, davvero, qual è quel mistero e quella formidabile ironia della sorte che vogliono che nell’ora in cui gli assassinano sua figlia, vengano restituite al professor Stangerson tutte queste scartoffie inutili, «che domani getterà nel fuoco, nel fuoco!»
Nella mattinata che seguì quella notte terribile, vedemmo riapparire il signor De Marquet, il suo cancelliere, i gendarmi. Venimmo tutti interrogati, eccetto naturalmente la signorina Stangerson, che era in uno stato simile al coma. Io e Rouletabille, dopo esserci consultati, abbiamo detto solo quello che avevamo deciso di dire. Mi guardai bene dal raccontare del mio appostamento nello stanzino buio o della storia del narcotico. In breve, tacemmo tutto quello che poteva far sospettare che eravamo in attesa di qualcosa e anche tutto quello che poteva far credere che la signorina Stangerson aspettasse chi l’avrebbe uccisa. La sventurata avrebbe forse pagato con la vita il mistero di cui circondava il proprio assassino… Non dovevamo rendere un simile sacrificio inutile… Arthur Rance raccontò a tutti molto naturalmente – tanto naturalmente che ne fui sorpreso – che aveva visto il guardiano per l’ultima volta verso le undici di sera. Quest’ultimo era venuto nella sua camera, disse, per prendergli la valigia, che doveva trasportare l’indomani mattina, di buon’ora, alla stazione di Saint-Michel, «e si era attardato a chiacchierare a lungo di caccia e di bracconaggio con lui». Arthur William Rance, in effetti, doveva lasciare Glandier in mattinata e andare a piedi, secondo le sue abitudini, a Saint-Michel; cosicché aveva approfittato di un viaggio mattutino del guardiano nel piccolo borgo per sbarazzarsi del suo bagaglio. Era quel bagaglio che portava l’uomo verde quando lo vidi uscire dalla camera di Arthur Rance.
Perlomeno così fui indotto a pensare, perché il signor Stangerson confermò la sua testimonianza: aggiunse che non aveva avuto il piacere, la sera precedente, di avere alla sua tavola il suo amico Arthur Rance perché quest’ultimo, verso le cinque, si era congedato definitivamente da lui e da sua figlia. Arthur Rance si era fatto servire soltanto un tè nella propria camera, dicendosi leggermente indisposto.
Bernier, il custode, dietro indicazione di Rouletabille, riferì che, quella notte, era stato chiamato dal guardiano per dare la caccia ai bracconieri (il guardiano non poteva più contraddirlo), che si erano dati appuntamento tutti e due non lontano dal querceto e che, vedendo che il guardiano non arrivava, gli era andato incontro lui, Bernier… Era arrivato all’altezza del torrione, dopo aver oltrepassato la porticina del cortile d’onore, quando vide un individuo che fuggiva a gambe levate dal lato opposto, verso l’estremità dell’ala destra del castello; in quello stesso momento, dei colpi di rivoltella riecheggiarono dietro il fuggiasco; Rouletabille era apparso alla finestra della galleria; aveva intravisto lui, Bernier, l’aveva riconosciuto, aveva notato che era armato e gli aveva gridato di sparare. Allora Bernier aveva tirato un colpo con il fucile che teneva pronto… ed era persuaso di aver ridotto male il fuggiasco; aveva creduto perfino di averlo ucciso, e questa convinzione era durata fino al momento in cui Rouletabille, spogliando il corpo che era caduto sotto la fucilata, aveva rivelato che era stato ucciso da una coltellata; del resto, non ci si capiva nulla in una simile fantasmagoria, visto che, se il cadavere ritrovato non era quello del fuggiasco contro il quale tutti avevamo sparato, bisognava che questo fuggiasco fosse da qualche parte. Ora, in quel piccolo angolo del cortile dove eravamo tutti riuniti intorno al cadavere, «non c’era posto per un altro morto o per un vivo» senza che noi lo vedessimo!
Così parlò compare Bernier. Ma il giudice istruttore gli rispose che, mentre noi eravamo in quel piccolo angolo del cortile, la notte era ancora molto scura, dal momento che non eravamo riusciti a scorgere il volto del guardiano e che, per riconoscerlo, avevamo dovuto trasportarlo nell’atrio. Al che compare Bernier replicò che, anche se non avessimo visto l’altro corpo vivo o morto, avremmo dovuto perlomeno camminarci sopra, tanto è stretto quell’angolo del cortile. Infine, eravamo lì in cinque, senza contare il cadavere, e sarebbe stato molto strano se l’altro corpo ci fosse scappato… L’unica porta che dava su quell’angolo del cortile era quella della camera del guardiano, ed era chiusa. La chiave era stata ritrovata nella tasca del guardiano…
Comunque sia, dato che questo ragionamento di Bernier, che a prima vista sembrava logico, portava a dire che era stato ucciso a colpi di arma da fuoco un uomo morto per una coltellata, il giudice istruttore non vi si soffermò a lungo. E fu evidente per tutti, da mezzogiorno in poi, che il magistrato era persuaso che avessimo mancato il fuggiasco e che avessimo trovato là un cadavere che non aveva niente a che vedere con il nostro caso. Per lui, il cadavere del guardiano apparteneva a un altro caso. Decise di dimostrarlo senza ulteriori indugi ed è probabile che quel nuovo caso corrispondesse con certe idee che aveva da alcuni giorni sulle abitudini del guardiano, sulle sue frequentazioni, sulla recente relazione che intratteneva con la moglie del proprietario della Locanda del Torrione, e che corroborasse allo stesso tempo i rapporti che aveva probabilmente ricevuto riguardo alle minacce di morte proferite da compare Mathieu all’indirizzo del guardiano, perché all’una del pomeriggio compare Mathieu, malgrado i suoi lamenti sui reumatismi e le proteste della moglie, venne arrestato e condotto sotto buona scorta a Corbeil. Tuttavia, a casa sua, non era stato scoperto niente di compromettente: ma certi discorsi rivolti ancora il giorno prima ad alcuni barrocciai, che poi li riferirono, lo compromisero ancora di più che se si fosse trovato nel suo pagliericcio il coltello che aveva ucciso l’uomo verde.
Noi eravamo attoniti per i numerosi avvenimenti tanto terribili quanto inspiegabili, quando, per portare al culmine la stupefazione di tutti, vedemmo arrivare al castello Frédéric Larsan, che se ne era allontanato subito dopo aver visto il giudice istruttore e ora vi ritornava accompagnato da un impiegato delle ferrovie.
Eravamo allora nell’atrio con Arthur Rance, intenti a discutere la colpevolezza o l’innocenza di compare Mathieu (o almeno, io e Arthur Rance eravamo gli unici a discutere, perché Rouletabille sembrava partito per qualche sogno lontano e non si occupava in alcun modo di quello che dicevamo). Il giudice istruttore e il suo cancelliere si trovavano nel salottino verde dove Robert Darzac ci aveva introdotti quando eravamo arrivati per la prima volta a Glandier. Compare Jacques, mandato a chiamare dal giudice, era appena entrato nel salottino; il signor Robert Darzac era in alto, nella camera della signorina Stangerson, con il signor Stangerson e i medici. Frédéric Larsan entrò nell’atrio con l’impiegato delle ferrovie. Io e Rouletabille riconoscemmo subito quell’impiegato dalla barbetta bionda. «Ecco! L’impiegato di Epinay-sur-Orge!» esclamai e guardai Larsan che replicò sorridendo: «Sì, sì, avete ragione, è l’impiegato di Epinay-sur-Orge». Detto questo Fred si fece annunciare al giudice istruttore da un gendarme che era sulla porta della sala. Subito dopo compare Jacques uscì e Frédéric Larsan e l’impiegato furono introdotti. Trascorse un po’ di tempo, forse dieci minuti. Rouletabille era molto impaziente. La porta della sala si riaprì; il gendarme, richiamato dal giudice istruttore, entrò nella sala, ne uscì, salì le scale e le ridiscese. Riaprendo allora la porta della sala, senza richiuderla, disse al giudice istruttore: «Signor giudice, il signor Robert Darzac non vuole scendere!»
«Come, non vuole?» esclamò il signor De Marquet.
«No, dice che non può lasciare la signorina Stangerson nello stato in cui si trova…»
«Va bene» fece il signor De Marquet; «dal momento che non viene da noi, andremo noi da lui».
Il signor De Marquet e il gendarme salirono; il giudice istruttore fece segno a Frédéric Larsan e all’impiegato delle ferrovie di seguirli. Io e Rouletabille terminavamo il corteo.
Arrivammo così nella galleria, davanti alla porta dell’anticamera della signorina Stangerson. Il signor De Marquet bussò. Apparve una cameriera. Era Sylvie, una servetta i cui capelli di un biondo scialbo ricadevano in disordine sul viso costernato.
«Il signor Stangerson è qui?» domandò il giudice istruttore.
«Sì, signore».
«Ditegli che desidero parlargli».
Sylvie andò a chiamare il signor Stangerson.
Lo scienziato venne da noi; piangeva; faceva pena a vedersi.
«Che cosa volete ancora?» domandò quest’ultimo al giudice. «Non potreste, signore, in un momento simile, lasciarmi un po’ tranquillo?»
«Signore» fece il giudice, «bisogna assolutamente che abbia seduta stante un incontro con il signor Robert Darzac. Non potreste convincerlo a lasciare la camera della signorina Stangerson? In caso contrario, mi troverò nella necessità di oltrepassare questa soglia con tutto l’apparato di giustizia».
Il professore non rispose; guardò il giudice, il gendarme e tutti coloro che li accompagnavano come una vittima guarda i suoi boia e rientrò nella camera.
Subito dopo ne uscì il signor Robert Darzac. Era molto pallido e stravolto; ma quando lo sventurato vide, alle spalle di Frédéric Larsan, l’impiegato delle ferrovie, il suo viso si alterò ulteriormente; i suoi occhi strabuzzarono e non riuscì a trattenere un gemito sordo.
Avevamo tutti colto il tragico movimento di quella fisionomia dolorosa. Non potemmo non lasciarci sfuggire un’esclamazione di pietà. Sentimmo che stava avvenendo allora qualcosa di definitivo che decideva la rovina del signor Robert Darzac. Solo Frédéric Larsan aveva un volto raggiante e mostrava la stessa gioia di un cane da caccia che finalmente si sia impadronito della preda.
Il signor De Marquet disse, mostrando al signor Darzac il giovane impiegato dalla barbetta bionda: «Riconoscete il signore?»
«Lo riconosco» disse Robert Darzac con una voce che cercava invano di tenere ferma. «È un impiegato delle ferrovie di Orléans alla stazione di Epinay-sur-Orge».
«Questo giovanotto» continuò il signor De Marquet, «afferma che vi ha visto scendere dal treno a Epinay…»
«…ieri sera» terminò il signor Darzac, «alle dieci e mezzo… è vero…»
Ci fu silenzio.
«Signor Darzac» riprese il giudice istruttore con un tono che era improntato a una forte emozione, «signor Darzac, che cosa venivate a fare questa notte a Epinay-sur-Orge, a pochi chilometri dal luogo dove si tentava di assassinare la signorina Stangerson?»
Il signor Darzac tacque. Non abbassò la testa, ma chiuse gli occhi, sia che volesse dissimulare il suo dolore, sia che temesse che nel suo sguardo potesse leggersi qualcosa del suo segreto.
«Signor Darzac» insistette il signor De Marquet, «potete dirmi come avete passato la notte?»
Il signor Darzac riaprì gli occhi. Sembrava aver riconquistato tutto il controllo di se stesso.
«No, signore».
«Riflettete, signore, perché mi troverò nella necessità, se persistete nel vostro strano rifiuto, di tenervi a mia disposizione».
«Mi rifiuto…»
«Signor Darzac, in nome della legge vi dichiaro in arresto».
Il giudice non aveva ancora finito di pronunciare quelle parole che vidi Rouletabille fare un movimento brusco verso il signor Darzac. Stava certamente per parlare, ma quest’ultimo, con un gesto, gli chiuse la bocca. Del resto, il gendarme si stava già avvicinando al suo prigioniero. In quel momento, riecheggiò un appello disperato: «Robert… Robert…»
Riconoscemmo la voce della signorina Stangerson e, a quell’invocazione di dolore, fummo tutti percorsi da un brivido. Lo stesso Larsan, questa volta, impallidì. Quanto al signor Darzac, rispondendo all’invocazione, si era già precipitato nella camera.
Il giudice, il gendarme, Larsan lo seguirono; io e Rouletabille restammo sulla soglia. Spettacolo straziante: la signorina Stangerson, il cui viso aveva il pallore della morte, si era sollevata sul letto, malgrado i due medici e suo padre… Tendeva le braccia tremanti verso Robert Darzac sul quale Larsan e il gendarme avevano messo le mani. I suoi occhi erano spalancati… lei vedeva… comprendeva… la sua bocca sembrava mormorare una parola… una parola che si spense sulle labbra esangui… una parola che nessuno sentì… e ricadde indietro, svenuta. Darzac fu condotto rapidamente fuori della camera. In attesa della carrozza che Larsan era andato a chiamare, ci fermammo nell’atrio. La nostra emozione era al culmine. Il signor De Marquet aveva le lacrime agli occhi. Rouletabille approfittò di quel momento di commozione generale per dire al signor Darzac: «Non vi difenderete?»
«No» replicò il prigioniero.
«Vi difenderò io, signore».
«Non potete» affermò lo sventurato con un debole sorriso. «Ciò che io e la signorina Stangerson non siamo riusciti a fare, non lo farete neanche voi».
«Sì, lo farò». La voce di Rouletabille era stranamente calma e fiduciosa. Continuò: «Lo farò, signor Robert Darzac, perché io ne so più di voi!»
«Suvvia!» mormorò Darzac quasi in collera.
«Oh, state tranquillo, io saprò soltanto quello che è utile sapere per salvarvi».
«Non c’è niente da sapere, giovanotto… se volete avere diritto alla mia riconoscenza».
Rouletabille scosse la testa. Andò vicino, vicinissimo a Darzac: «Ascoltate quello che sto per dirvi» fece a bassa voce, «e che questo vi dia fiducia! Voi, voi sapete soltanto il nome dell’assassino; la signorina Stangerson conosce soltanto la metà dell’assassino; io conosco l’assassino tutto intero».
Gli occhi, che Robert Darzac adesso spalancò, dimostravano che non comprendeva una parola di quello che gli aveva appena detto Rouletabille. Nel frattempo, arrivò la carrozza condotta da Frédéric Larsan. Vi furono fatti salire Darzac e il gendarme. Larsan rimase a cassetta. Il prigioniero veniva portato a Corbeil.